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Full text of "Opere complete de cavaliere Ippolito Pindemonte"

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OPERE  COMPLETE 

DEL  CAVALir.ni; 

IPPOLITO  PINDEMONTE 


VOL.  I. 


ODISSEA  DI  OMERO 

VOLUME  UNlpO 


tSLlOWÈOUE  S.Ì 

ies  Foftoinei 

60  - CHANTIU.Y 


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ODISSEA 

I OMERO 

traduzione 

BEX.  CAVALIERE 

IPPOLITO  PINDEMONTE 

CON  NOTE 


NAPOLI 


R.  MAROTTA  E VANSPANDOCH 


1833 


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-Eoli  è usanza  di  molli , che  pubblicano  le  lor  fatiche  , il  dar  conto  della 
strada,  che  credettero  dover  tenere;  e massimamente,  ove  trattisi  di  traduzioni, 
rispetto  alle  quali  son  varie  non  poco  le  strade,  che  tenere  si  possono.  Avendo  io 
parlato  di  quella,  ch’io  prender  credetti,  nella  Prefazione  ai  due  primi  libri 
dell’oDissEA  da  me  già  pubblicali,  parmi  superfluo  il  ripetere  ora  le  stesse  cose, 
ponendo  in  luce  tradotto  l’intero  Poema.  Sarebbe  più  presto  da  considerarsi,  se 
con  fiducia  d’esscr  letto  con  piacere  da  molti  presentar  si  possa  oggidì  un  Poema 
antichissimo,  le  cui  bellezze  son  diverse  oltremodo  da  quelle,  che  oggidì  piac- 
ciono comunemente;  in  cui  frequenti  son  que’ racconti,  che  or  sembrano  inutili, 
frequenti  quelle  ripetizioni,  che  or  pajono  soprabbondanti;  ed  ove  si  discende 
spesso  alle  particolarità  più  minute  della  domestica  vita,  nelle  quali  è assai 
diillcile  non  riuscir  triviale  ai  nostri  di,  c in  lingua  nostra:  lingua  certo  bel- 
lissima tra  le  moderne,  ma  che  non  toglie,  che  di  lei  eziandio  si  dica,  avere 
i Greci  innalzale  le  lor  fabbriche  in  marmo,  c i traduttori  copiarle  in  mattoni; 
comecbè  usciti  fossero  questi  dalla  migliore,  per  dir  cosi,  delle  fornaci  d’Europa. 
È vero,  che,  oltre  la  maestà,  e l’armonia  della  Greca  favella,  l’antichità  sua 
medesima  conferisce  non  poco  alla  elevatezza,  e nobiltà  della  narrazione,  atteso 
che  ogni  cosa,  quanto  è più  fuori  dell’uso,  tanto  più  dalla  volgarità  s’allontana; 
e però,  supponendo  ancora,  che  le  parole  del  nostro  idioma  fossero  egualmente 
rotonde,  e sonore  in  sè , apparirebbero  meno  illustri,  e poetiche  per  questa 
ragione  soltanto,  che  si  trovano  continuamente  sopra  ogni  bocca.  Comunque 
sia,  la  diillcoltà,  sotto  cui  affaticasi  un  moderno  volgarizzatore,  rimane  la  stessa; 
e ch’io  non  l’esagero  ad  arte,  ne  chiamo  in  testimonio  tutti  coloro,  che  leggono 
il  Greco,  e quelli  tra  loro  principalmente,  che,  facendo  Italiano  l’un  passo,  o 
l’altro  dell’oDissEA,  assaggiato  avessero  le  forze  in  si  fatto  arringo,  c tentato 
anch’essi  di  tendere  quest’acro  d’ Ulisse.  Ma  perchè  dunque  tradur  I’odissea, 
domanderanno  alcuni,  e perchè,  soggiungeranno,  stamparla?  Quanto  al  tradurla, 
traslatali  dame,  come  per  una  certa  prova,  i due  primi  libri,  piacquemi  far 
lo  stesso  di  alcuni  altri , traduccndo  a salti  or  questo,  cd  or  quello,  e non 
sapendo  bene,  se  volgarizzati  tutti  gli  avrei , finche  mi  trovai  averli  quasi  tutti 
a poco  a poco  volgarizzati.  Non  era  egli  cosa  naturale,  ch’io  compiessi  l’opera 
totalmente?  Si  levò  intanto,  ed  or  vengo  alla  ragione  dello  stamparla,  una 


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* 

o!5pcUazIoTi  favorevolissima , per  cui  non  mi  fu  più  lecito  di  lasciar  nelle  tenebre 
il  mio  lavoro;  espetlazionc  nel  resto,  di  cui  altri  forse  compiacerebbesi , e che 
in  me  produce  una  confusione  grandissima,  veggendo  io  chiaro,  non  potersi  da 
me  corrispondere  a quella , e non  bastandomi  l’indulgenza  , con  cui  furono 
ricevuti  i due  primi  libri,  perche  io  debba  sperare,  che  tutti  i ventiquattro  con 
pari  indulgenza  sien  ricevuti.  Potrei  anche  aggiungere,  essermi  andato  per  la 
mente  questo  pensiero,  che  opportuno  fosse  il  richiamare  in  qualche  maniera 
l’attenzione  sovra  un  Poema,  nel  qual  s’imita  sì  scrupolosamente,  e con  tanto 
di  maestrìa  la  natura,  in  un  tempo,  che  alcuni  dipingono,  c con  grande  applauso, 
iic’ versi,  non  già  l’uomo  di  lei,  ma  quello  bensì,  che  lor  piace  più,  della  fan- 
tasìa loro;  si  che  par  quasi,  che  dove  i poeti  si  contentavano  di  rappresentar  la 
più  nobile  delle  creature,  come  la  natura  sin  qui  formella,  questi  volessero, 
che  la  natura  formassela  da  ora  innanzi,  com’cglino  la  rappresentano.  È pro- 
babile, che  la  prima  non  cangerà  stile;  e che  non  anderà  dietro  ai  secondi 
chiunque  brama  ottenere  un  seggio  stabile  sul  Parnaso. 


I 


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ODISSEA  DI  OMERO 


LIBRO  PRIMO 


aiigome.nto 

Froposuiune  del  Poema.  Coiurllio  degli  Dei,  ove  »i  detcruiiua  il  ritorao  d'Uliue.  Minerva  discende  in  Ilaoi  ; 
e sotto  la  figura  di  Mente  Re  dc’Tafj  , conforta  Telemaco  di  condursi  a Pilo  , ed  a Sjwti»  , per  salare  del 
padre  ) e per  farsi  anchVgli  nel  terniK»  stesso  conoscere.  Banchetto  dc'PiXKÙ,  cioè  di  coloro,  che  richiedon  Penelope 
in  me  glie.  Femio  vi  canU  il  funesto  ritorno  de’ Greci  daTrojaj  e Pcneloi»c,  che  ode  il  canto  dalle  sue  stame, 
ne  cala  giù  con  due  ancelle,  c prega  Femio  di  prendere  un  altro  tema.  Telemaco  parla  om  h rmeraa  aUa  uudre, 
cd  ai  Proci,  intima  un  parlaoKntu  pel  giorno  seguente,  c nella  sua  staiua  ritirasi  a ri[X>sare. 


]\IusA,  quelPuom  dì  moUìrorme  ingegno 
Uiinmi,  che  molto  errò  , poich’ebbe  a terra 
Gittate  d'ilion  le  sacre  torrij 
Che  città  vide  molle,  e delle  genti 
I/indol  conobbe;  che  sovr’esso  il  mare 
Molti  dentro  del  cor  sofi'erse  afi'anni, 

Mentre  a guardar  la  cara  vita  intende, 

B i suoi  compagni  a ricondur:  ma  indarno 
Ricoiidur  desiava  i suoi  compagni, 

Che  delle  colpe  lor  tutti  jieriro.  io 

Stolti!  che  osaro  violare  i sacri 
Al  Sole  Iperioo  candidi  buoi 
Con  empio  dente,  ed  irritaro  il  Nume, 

Che  del  ritorno  il  dì  lor  non  addusse. 

Deh  parte  almen  di  sì  ammirande  cose 
Narra  anco  a noi,  di  Giove  iigUa,  e Ulva. 

Già  tutti  i Greci,  che  la  nera  Parca 
Rapiti  non  avea,  ne’loro  alberghi 
Fuor  dell’arme  sedeano,  e fuor  dell’onde. 

Sol  dal  suo  regno,  e dalla  casta  duuua  2o 
Rimanea  lungi  Ulisse:  il  riteuea 
Nel  cavo  sen  di  solitarie  grotte 
La  bella  venerabile  CaIii>so, 

Che  unirsi  a lui  di  maritali  nodi 
Bramava  pur,  Ninfa  quantunque,  c Diva. 

R poiché  giunse  al  fm,  volveiido  gli  anni, 

La  destinata  dagli  Dei  stagione 
Del  suo  ritorno  in  Itaca,  novelle 
Tra  i fidi  amici  ancor  pene  durava. 

Tutti  pietà  ne  risentian  gli  Eterni,  3ti 

Salvo  Nettuno,  in  cui  l'  antico  sdegno 
Prima  non  si  stancò,  che  alla  sua  terra 
Venuto  fosse  il  pellegrino  illustre. 

Ma  del  Mondo  ai  confini,  e alla  remota 
Gente  degli  Etiopi  in  duo  divisa, 

Ver  cui  quinci  il  sorgente,  ed  il  cadenlo 
Sole  gli  obliqui  rai  quindi  saetta, 

Nettari  condotto  a un’ecatombe  s’era 
Dì  pingui  lori . e di  montoni;  ed  ivi 
Rallegrava  i pensieri  a mensa  assiso.  ^o 

In  questo  mezzo  gli  altri  Dei  raccolti 
Nella  gran  reggia  dell’Olimpio  Giove 
Stavansi  ; e primo  a favellar  tra  loro 
Fu  degli  uomini  il  padre, e de’Celesli, 

Che  il  bello  Egisto  rimembrava,  a cui 
Tolto  avea  di  sua  luau  la  viu  OrcsU, 


L’inclito  figlio  del  più  vecchio  Atride. 

Poh!  disse  Giove,  incolperà  l’uuui  dunque 
Sempre  gli  Dei?  Quando  a se  stesso  i mal* 
Fabbrica,  de’suoi  mali  a noi  da  carco,  òo 
K la  stoltezza  sua  chiama  destino. 

Così,  non  tratto  dal  destino,  Egisto 
Disposò  d’ Agamennone  la  donna, 

E lui  da  Troja  ritornato  spense; 

Benché  conscio  dell’  ultima  ruina, 

Che  i’Argicida  esplorator  Mercurio, 

Da  noi  mandato  , prediceagll.  Astienti 

Dal  sangue  dell’Àtride,  ed  il  suo  letto 

Guardati  di  salir  : chè  aita  vendetta 

Ne  farà  Oreste , come  il  volto  adorni  6o 

Delia  prima  laiuiggiiic,  e io  sguardo 

Verso  il  retaggio  de’suoi  jiadri  volga. 

Ma  questi  di  Mercurio  utili  avvisi 
Colui  nell’alma  non  accolse:  quindi 
Pagò  il  fio  d’ognì  colpa  in  un  sol  punto. 

Di  Saturno  figliuoi,  padre  de* Numi, 
Re.de'Reg»anti  «così  a lui  rispose 
L* occhiazzurra  Minerva,  egli  era  dritto, 

Che  colui  non  vivesse:  in  simì!  loggia 
Pera  chiunque  in  simil  foggia  vive.  70 

Ma  io  di  doglia  per  l’egregio  Ulisse 
Mi  struggo.  Lasso!  che  da 'suoi  lontano 
Giorni  conduce  di  rammarco  in  quella 
Isola,  che  del  mar  giace  nel  cuore, 

£ di  selve  nereggia:  ìsola,  dove 
Soggiorna  entro  alle  sue  celle  secreto 
L'imuiortal  figlia  dì  quel  saggio  Atlante, 

Che  del  mar  tutto  i più  riposti  fondi 
Conosce,  e regge  le  colonne  immense, 

Che  la  volta  supportano  del  cielo.  80 

Pensoso,  inconsolabile,  l’accorta 
Ninfa  il  ritiene , e con  soavi  e molli 
Parolette  carezzalo,  se  mai 
Potesse  Itaca  sua  trargli  del  petto: 

IVIa  ei  non  brama,  che  veder  dai  tetti 
Sbalzar  della  sua  dolce  Itaca  il  fumo, 

K poi  chiuder  [>er  sempre  al  giorno  i lumi. 

Nè  commuovere,  Olimpio,  il  cor  ti  scuti? 
Grati  d’Ulisse  i sacrifici  al  Greco 
Navile  appresso  ne’Trojani  campì  90 

Non  t'eran  forse  ? Ondo  raitcor  si  fiero. 

Giove,  ooutra  lui  dunque  iu  te  s'aiklta? 


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4 ODISSEA 


Figlia  ) qual  tl  lasciasti  uscir  parola 
Dalla  chiostra  de’denti?  allor  riprese 
L^eterno  delle  nubi  addensatore, 
lo  Fuom  preclaro  disgradir , che  in  senno 
Vince  tutti  i mortali , e gFlmmortali 
St»mpre  onorò  di  sagrifici  opimi? 

JCettuno,  il  Nume,  che  la  terra  cìnge, 
D^inl'urxar  non  resta  pel  divino  loo 

Suo  Folifemo,  a cui  lo  scaltro  Ulisse 
Deirunic’occhio  vedovò  la  fronte, 

Benché  possente  più  d’ogni  Ciclopo: 

Pel  divìn  Folifemo,  cheToósa 
Partorì  al  Nume,  che  pria  lei  soletta 
Di  Forco  , Re  degl’infecondi  mari, 

IN^elie  cave  trovò  paterne  grotte. 

Do  scuoti  tor  della  terrena  mole 
Dalla  patria  il  desvia  da  quell’istante, 

K,  lasciandolo  in  vita , a errar  su  i neri  no 
IMutti  lo  sforza.  Or  via , pensiam  del  modo, 
Che  l’infelice  rieda,  e che  Nettuno 
3. 'ire  deponga.  Fognerà  con  tutti 
Gli  eterni  ei  solo?  il  tenterebbe  indarno. 

Di  Saturno  figliuol,  padre  de’ Numi, 
De’Regi  Re,  replicò  a lui  la  Diva, 

Cui  tinge  gli  occhi  un’azzurrina  luce, 

Se  il  ritorno  d'Ulisse  a tutti  aggrada. 

Che  non  s’invia  nell’isola  d’Ogige 
D’ambascia^or  Mercurio,  il  qual  veloce  lao 
Rechi  alla  Ninfa  dalle  belle  trecce, 

Cnm’è  fermo  voler  de’Seropiterni, 

Che  UlLs.se  al  fine  il  natio  suol  rivegga? 

Scesa  in  Itaca  intanto , animo  e forza 
Nel  figlio  io  spirerò,  perch’ci, chiamati 
Gli  Achei  criniti  a parlamento,  imbrigli 
t^hie’Froci  baldi , che  nel  suo  palagio 
3/inlero  gregge  sgozzangli , e Tarmento 
Dai  piedi  torti , e dalle  torte  corna. 

Ciò  latto,  a Filo  io  manderollo,  e a Sparta,  i5o 
Acciocché  sappia  del  suo  caro  padre, 
udirne  gli  avvenisse  in  qualche  parte, 

Pd  anch’ei  fama,  viaggiando,  acquisti. 

Detto  cosi,  sotto  l'eterne  piante 
Si  strinse  i bei  talar,  d’oro,  immortali. 

Che  lei  sul  mar,  lei  su  l’immensa  terra, 

Col  sofiio  trasportavano  del  vento. 

Poi  la  grande  afferrò  lancia  pesante, 

Forte,  massiccia , di  appuntato  rame 
Guernita  in  cima,  onde  le  intere  doma  240 
Falangi  degli  croi,  con  cui  si  sdegna, 

F a cui  sentir  fa  di  qual  padre  è nata. 

Dagli  alti  gioghi  del  beato  Olimpo  , 
Rapidamente  in  Itaca  discese, 

termo  all’atrio  del  palagio  in  faccia, 

Del  cortil  su  la  soglia,  e le  sembianze 
Vestì  di  Mente,  il  conduttier  de’Tafj. 

Xa  forbita  in  sua  man  lancia  sfavilla. 

Nel  regale  atrio , e su  le  fresche  pelli 
Degli  uccisi  da  lor  pingui  giovenchi  i5o 

Seueauo,  e trastullavansi  tra  loro 
Con  gli  schierati  combattenti  boss» 

Della  Regina  i mal  vissuti  drudi. 

Trascorrean  qua  e là  serventi,  e araldi 
Frattanto:  altri  mescean  nelle  capaci 
Vrne  l’urnor  dell’uva,  e il  fresco  fontej 
Altri  le  mense  con  forata,  e ingorda 
Spugna  tergeano  , e le  metteauo  innanzi, 


E le  molte  partian  fumanti  carni. 

Simile  a nn  Dio  nella  beltà  , ma  lieto  160 
Non  già  dentro  del  sen , sedea  tra  i Proci 
Telemaco:  mirava  entro  il  suo  spirto 
L’inclito  genitor,  qual  s’ei,  d'alcuna 
Parte  spuntando,  a sbaragliar  si  desse 
Per  l’ampia  sala  gli  abborriti  Prenci, 

E l’onor  prisco  a ricovrare,  0 il  regno. 

Fra  cotali  peusier  Pallade  scórse, 

Nè  soffrendogli  il  cor,  che  lo  straniero 
A cielo  aperto  lungamente  stesse, 

Dritto  uscì  fuor,  s’accostò  ad  essa,  prese  )70 
Con  una  man  la  sua , con  l’altra  l’asta, 

E queste  le  drizzò  parole  alate: 

Forestier , salve.  Accoglimento  amico 
Tu  avrai , sporrai  le  brame  tue  : ma  prima 
Vieni  i tuoi  spirti  a rinfrancar  col  cibo.  • 
Ciò  detto , innanzi  andava,  ed  il  seguia 
Minerva.  Entrati  nell’eccelso  albergo, 
Telemaco  portò  l’asta  , e appoggìolla 
A sublime  colonna,  ove  in  astierà 
Nitida  molte  dell'invitto  Ulisse  ibo 

Dormiano  arme  simili.  Indi  a posarsi 
Su  nobil  seggio  con  sgabello  ai  piedi 
La  Dea  menò  , stesovi  sopra  un  vago 
Tappeto  ad  arte  intesto } e un  variato 
Scanno  vicin  di  lei  pose  a se  stesso. 

Così,  scevri  ambo  dagli  arditi  Proci, 
QueU’improntofrastuon  l’ospite  a mensa 
Non  disagiava  j e dell’assente  padre 
Telemaco  potea  cercarlo  a un  tempo. 

Ma  scorta  ancella  da  bel  vaso  d’oro  iqo 

Purissim’onda  nel  bacii  d’argento 
Versava , e stendea  loro  un  liscio  desco 
Su  cui  la  saggia  dispensiera  i pani 
Venne  a impor  candidissimi , e di  pronte 
Dapi  serbate  generosa  copia; 

E carni  d’ogni  sorta  in  larghi  piatti 
Recò  l’abile  scalco  , ed  auree  tazze, 

Che  del  succo  de’grappoli  ricolme 
Lor  presentava  it  banditor  solerte. 

Entrano  i Proci , ed  i sedili,  e i troni  200 
Per  ordine  occupare  : acqua  gli  araldi 
Diero  alle  mani , e dì  recente  pane 
I ritondi  canestri  empier  le  ancelle. 

Ma  in  quel  che  i Proci  all’imbaudito  pasto 
Siendean  la  man  superba , incoronaro 
Di  vermiglio  licor  i’urne  i donzelli. 

Tosto  che  in  lor  del  pasteggiar  fu  pago. 

Pago  del  bere  il  naturai  talento, 

Volgeano  ad  altro  il  core:  al  canto,  e al  ballo, 
Che  gli  ornamenti  son  d’ogni  convito.  21h> 
Ed  un'argentea  cctera  l’araldo 
Porse  al  buon  Femio,  che  per  forza  il  canto 
Tra  gli  amanti  scìogUea.  Mentr’ei  le  corde 
Ne  ricercava  con  maestre  dita, 

Telemaco,  piegando  in  ver  la  Dea 
Sì , che  altri  udirlo  non  potesse,  il  capo, 

Le  parlava  in  tal  guisa:  Ospite  caro, 
ri  sdegnerai , se  l’alma  io  t apro?  In  mente 
Non  han  costor,  che  suoni , e canti.  Il  credo. 
Siedono  impune  agli  altrui  deschi,  ai  deschi  220 
Di  tal,  le  cui  bianche  ossa  in  qualche  terra 
Giacciono  a imputridir  sotto  la  pioggia, 

O le  volve  nel  mare  il  negro  flutto. 

Afa  s’egli  mai  lor  s'afiàccìasse  un  giorno. 


5 


L I B K 0 

Ben  più,  che  in  dosso  ì ricchi  panni,  e l’oro, 
Aver  l’ali  vorrebbero  alle  piante. 

Vani  desiri  ! Una  iunesta  morte 
Certo  ei  trovò , speme  non  resta , e invano 
Farelleriami  alcun  del  suo  ritorno: 

Del  suo  ritorno  il  di  più  non  s’accende.  200 
via,  ciò  dimmi,  e non  m’asconder  nulla: 
Chi?  di  che  loco?  e di  che  sangue  sci  ? 

Con  quai  nocchier  venistu , e per  qual  modo, 

E su  qual  nave , in  Itaca?  Tedone 
Giunto  per  alcun  patto  io  non  ti  credo. 

Di  questo  ancor  tu  mi  contenta:  nuovo 
Giungi,  o al  mio  genitor  t’unisce  il  nodo 
Deli’ospitalità?  Molti  stranieri 
A’suoi  tetti  accostavansi  : chè  Ulisse 
Voltava  in  sè  d’ogni  mortale  il  corc.  240 
Tutto  da  me,  gli  rispondea  la  Diva, 

Che  ceruleo  splendor  porta  negli  occhi, 
T’udrai  narrare.  Io  Mente  esser  mi  vanto, 
Ficliuol  d’Auchialo  bellicoso , e ai  vaghi 
Da  trascorrere  il  mar  Tal'j  comando. 

Con  nave  io  giunsi,  e remiganti  miei, 
Fendendo  le  salate  onde  ver  gente 
D’altro  linguaggio,  e a Temesa  recando 
Ferro  brunito  per  temprato  rame, 

Ch’io  ne  trarrò:  Dalla  città  lontano  2Òo 

Fermossi , e sotto  il  Neo  rromlichiomoso, 
Nella  baja  di  Ketro  il  mio  naviglio. 

Si,  d’ospitalità  vincol  m’unisce 

Col  padre  tuo.  Chieder  ne  puoi  Tantico, 

Ristringendoti  seco,  eroe  Laerte, 

Che  a città  , com’è  fama,  or  più  non  viene: 

Ma  vita  vive  solitaria  e trista 
NV campi  suoi  con  vecchierella  fante, 

Che,  quandunque  tornar  dalla  feconda 
Vigna,  per  dove  si  trae  a stento,  il  vede  , 2C0 
Di  cibo  il  riconforta,  e di  bevanda. 

Me  qua  condusse  una  bugiarda  voce, 

Fosse  il  tuo  padre  in  Itaca , da  cui 
Stornanlo  i Numi  ancor  ; chè  tra  gli  estinti 
L’ illustre  pellegrin , no , non  comparve. 

Ma  vivo , e a forza  in  barbara  contrada, 

Cui  cerchia  un  vasto  mar,  gente  crudele 
Rattienlo  : lo  rattien  gente  crudele 
Vivo,  ed  a forza  in  barbara  contrada. 

Pur , benché  il  vanto  di  profeta  , o quello  270 
D’augure  insigne  io  non  m’arroghì , ascolta 
Presagio  non  fallace,  che  su  i labbri 
Mettono  a me  gli  Eterni.  Ulisse  troppo 
Non  rimarrà  della  sua  patria  in  bando, 

Do  stringessero  ancor  ferrei  legami. 

Da  quai  legami  uom  di  cotanti  ingegni 
Disvilupparsi  non  sapria?  Ma  schietto 
Farla  : sei  tu  vera  sua  prole  ? Certo 
Nel  capo , e ne’leggiadri  occhi  ad  Ulisse 
Molto  arieggi  tu.  Pria , che  per  Ti»ja.  280 
Che  tutto  a sè  chiamò  di  Grecia  il  fiore, 
Sciogliesse  anch’  ei  su  ie  cavate  navi, 

Io , come  oggi  appo  il  tuo , cosi  sedea 
Spesse  volte  al  suo  fianco,  ed  egli  al  mio, 
D’allora  io  non  più  lui,  nè  me  vid’egU, 

E il  prudente  Telemaco:  Sincero 
Risponderò.  Me  di  lui  nato  afTerraa 
La  madre  veneranda.  E chi  fu  mai, 

Che  per  se  stesso  conoscesse  il  padre? 

Qb  foss’  io  figlio  d’un,  che  una  tranquilla  aqo 


PRIMO. 

Vecchiezza  còlto  ne’suoi  letti  avesse! 

Ma  , poiché  tu  mel  chiedi , al  più  infelice 
Degli  uomini  la  vita,  ospite,  io  deggio. 

Se  ad  Ulisse  Penelope  , riprese 
Pallade  alior  dalle  cilestre  luci, 

Ti  generò  , vollero  i Dei , che  gisse 
Chiaro  il  tuo  nome  ai  secoli  più  lardi. 

Garzon  , dal  ver  non  ti  partir  : che  festa. 

Che  turba  è qui  ? Qual  ti  sovrasta  cura? 
Convito?  Nozze?  Genial  non  parmi  5oo 
A carco  di  ciascun  mensa  imbandita. 

Parmi  banchetto  sì  oltraggioso  e turpe  , 

Che  mirarlo  , e non  irne  in  foco  d’ira,  , 

Mal  può  chiunque  un’alma  in  petto  chiuda. 

Ed  il  giovane  a lui  : Quando  tu  brami 
Saper  cotanto  delle  mie  vicende, 

Abbi , che  al  Mondo  non  fu  mai  di  questa 
Nè  ricca  più,  nò  più  innocente  casa, 

Finché  quell’uomo  il  piè  dentro  vi  tenne. 

Ma  piacque  altro  agli  Dei , che , diviiando  5io 
Sinistri  eventi  , per  ie  vie  più  oscure, 

Quel , che  mi  cuoce  più  , sparir  mel  fero. 
Piangerei  , sì,  ma  di  dolcezza  voto 
Non  fora  il  lagrimar,  s’ei  presso  a Troja 
Cadea  pugnando  , o vincìtor  chiudea 
Tra  i suoi  più  cari  in  Itaca  le  ciglia. 

Alzato  avriaiigli  un  monumento  i Greci, 

Che  di  gloria  immortale  al  figlio  ancora 
Stato  sarebbe.  Or  lui  le  crude  Arpie 
Ignobilmente  per  lo  del  rapirò:  3?  » 

Perì  non  visto,  non  udito , e al  figlio 
Sol  di  sturbi , c di  guai  lasciò  retaggio. 

Chè  lui  solo  io  non  piango:  altre,  e non  pfrhr 
Mi  fabbricaro  i Numi  acerbe  cose. 

Quanti  ha  Dulichio , e Same , e la  boscosa 
Zacinto  , e la  pietrosa  Itaca  Prenci, 

Ciascun  la  destra  della  madre  agogna. 

Ella  nè  rigettar  può  , ne  fermare 
Le  inamabili  nozze.  Intanto  i Proci, 

Da  mane  a sera  banchettaudo  , tutte  5."  j 
r.e  sostanze  mi  struggono,  e gli  averi; 

Nè  molto  andrà,  che  struggerai!  me  stesso. 

S’intenerì  Minerva,  e , Oh  quanto  , disse, 

A te  bisogna  il  genitor,  che  metta 
La  ultrice  man  su  i rhieditori  audaci  ! 

Sol  ch’ei  con  elmo , e scudo , e con  due  lance 
Sul  limitar  del  suo  palagio  appena 
Si  presentasse,  quale  io  prima  il  vidi, 

I Che  , ritornato  d’EHra  , alla  nostra 
Mensa  ospitai  sì  giocondava  assiso  5^0 

{Ratto  ad.EHra  andò  chiedendo  ad  Ilo, 

Di  Hermero  al  figliuol , velen  mortale, 

Onde  le  frecce  unger  volea , veleno, 

Che  non  dal  Mermeride,  in  cui  de’Numi 
Era  grande  ii  timor,  ma  poscia  ottenne 
Dal  padre  mio,  che  fieramente  amuìlo) 

Sol  ch’ei  così  sì  presentasse  armato, 

De’Proci  non  saria , cui  non  tornasse 
Breve  la  vita , e il  maritaggio  amaro. 

Ma  venir  debba  di  si  trista  gente  3io 

A vendicarsi , o no,  su  le  ginocchia 
Sta  degli  Dei.  Ben  di  sgombrarla  quinci 
Vuoisi  l’arte  pensare.  Alle  mie  voci 
Porrai  tu  mente  ? Come  il  ciel  s’inalbi, 
De’Greci  i Capi  a parlamento  invita, 

Ragiona  franco  ad  essi , c al  popol  tutto. 


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ODISSEA 


6 

Chiamando  i Numi  in  testimoalo  j e ai  Proci 
Nelle  lor  ca:>e  rìeutrare  iiigiuogi. 

madrCj  uve  deaiu  di  nuove  uoz£e 
Nutra ) ripari  alia  magioii  d'Xcariu,  36o 

Che  ordinerà  le  «poiualizie,  e ricca 
Dote  apparecchierà,  quale  a diletta 
l'igUuoia  è degno , che  largisca  un  padre. 

Tu  poi,  60  non  ricusi  un  saggio  avviso^ 

Ch'io  ti  porgo , seguir , la  meglio  nave 
Di  venti,  e torli  remator  guernisci, 

D , del  tuo  genitor  moU'aiini  assente 
Novelle  a procacciarti,  alza  le  vele. 

Troverai  torse  chi  ten  parli  chiaro, 

O quella  udrai  voce  fortuita  , in  cui  5'jo 

Spesso  il  cercato  ver  Giove  nasconde. 

Pria  vanne  a Pilo , e interroga  l’aulico 
Nestore:  Sparla  indi  t’accolga,  e il  prode 
XUenelao  biondo  , che  dall'arsa  Troja 
Tra  i loricati  Achivi  ultimo  giunse. 

Vive  t ed  è Ulisse  in  sul  ritorno  ? Un  anno, 
Denchè  dolente,  sosterrai.  Ma  dove 
Lo  sapessi  tra  l’Ombre,  in  patria  riedi, 

D qui  gli  ergi  un  sepolcro,  c i più  solenni 
Kendigli,  qual  s’addice,  onor  iunèbri,  3So 
D alia  madre  presenta  un  altro  sposo. 

Dv>po  ciò  , studia  , per  qual  modo  i Proci 
C>)u  inganno  tu  spegna,  o alla  scoperta: 

Che  de'trastulli  il  tempo  e de'balocchì 
Passò,  ed  uscito  di  pupillo  sei. 

Non  odi  tu  levare  Oreste  al  cielo, 

Dappoi  che  uccise  il  fraudolento  Egisto, 

Cile  il  genitor  famoso  aveagli  morto? 

Me  la  mia  nave  aspetta,  e i miei  compagni. 
Cui  forse  incresce  questo  indugio.  Amico,  3go 
Di  te  stesso  a te  caglia  , e i miei  sermoni 
Converti  in  opre:  d'ua  eroe  l'aspetto 
Ti  veggio,  abbine  il  core  -,  acciò  risuoni 
Forte  ne'di  futuri  anco  il  tuo  nome. 

Voci  paterne  son  , non  che  benigne, 
D’Ulisse  il  figlio  ripigliava  j ed  io 
Guarderolle  nel  sen  tutti  i miei  giorni. 

Ma  tu  per  fretta  , che  ti  punga  , tanto 
Fermati  almen  , che  in  tepidelto  bagno 
Plntri , e conforti  la  dolce  alma  , e lieto  400 
Con  un  mio  dono  in  man  torni  alla  nave: 

Don  ]»rcziosu  per  materia  , ed  arte  , 

Cile  sempre  in  mente  mi  ti  serbi  j dono 
Non  indegno  d*  uii  ospite  , che  piacque. 

No  , di  partir  ini  tarda , a lui  risposo 
D'occhicerulea  Diva.  11  bel  presente 
Allor  l'accetterò  , che,  questo  mare 
Kioavigaudo  , per  riponili  in  Tafo, 

T’ollViiò  uudoito  ancli’io , che  al  tuo  non  ceda. 
Così  la  Dea  dagli  occhi  glauclil-,  e,  forza  410 
Infondendogli , e ardire  , c a lui  nel  petto 
La  |>er  sè  viva  del  suo  padre  imago 
Kavvivando  piu  ancora  , alto  levossl, 

E veloce  , com'aquila  , dis^mrve. 

Da  maraviglia,  poiché  seco  tu  mente 
Ripetè  il  tutto  , e s'avvisò  del  Nume, 

Telemaco  fu  preso  : indi,  già  fatto 
Di  se  stesso  maggior  , venne  tra  i Proci. 

Taciti  sedean  questi , e nell'egregio 
Vate  conversi  teiiean  gli  occhi  ^ e il  vate  4^'’ 
Quel  difiìcil  ritorno , che  da  Troja 
Paliado  ai  Greci  de&linò  crucciala, 


Della  cetra  d'argento  al  suon  cantava. 

Nelle  superne  vedovili  stanze 
Penelope,  d’icario  la  prudente 
Figlia,  raccolse  il  divin  canto  , e scese 
Per  Palle  scale  al  basso  , e non  già  sola: 

Che  due  segulanla  vereconde  ancelle. 

Non  fu  deTroci  nel  cospetto  giunta, 

Che  s'arrestò  della  Dedalea  sala  43o 

L'ottima  delle  donne  in  su  la  porta, 

Lieve  adombrando  l'una  e l'altra  gota 
Co’bei  veli  del  capo,  e tra  le  ancelle 
Al  sublime  cantor  gli  accenti  volse. 

Femio  , diss'ella,  e lacrimava,  Femio, 

Bocca  divina , non  hai  tu  nel  petto 
Storie  infinite  ad  ascoltar  soavi, 

Di  mortali,  e di  Numi  imprese  altere, 

Per  cui  toccali  la  cetra  i sacri  vati  ? 

Narra  di  quelle,  e taciturni  i Prenci  44<> 
Le  colme  tazze  votino:  ma  cessa 
Canzon  molesta  , che  mi  spezza  il  cuore, 
Sempre  che  tu  la  prendi  in  su  le  corde; 

Il  cuor  , cui  doglia , qual  non  mai  da  donna 
Provossl , invase  , mentre  aspetto  indarno 
Cotanti  anni  un  eroe,  che  tutta  empieo 
Del  suo  nome  la  Grecia,  e cli’è  il  pensiero 
De'giurni  miei,  delle  mie  notti  è il  sogno. 

0 madre  mia,  Telemaco  rispose, 

Lascia  il  dolce  cantor,  che  c’innamora, 

Là  gir  co’versi , dove  l'estro  il  porla. 

I guai,  che  canta,  non  li  crea  già  il  vate: 
Giove  li  manda  , ed  a cui  vuole , e quando. 
Perchè  Femio  racconti  i fristi  casi 
De'Greci,  biasmo  meritar  non  panni: 

Che  quanto  agli  uditor  giunge  più  nuova, 
Tanto  più  loro  aggrada  ogni  canzone. 

Udirlo  adunque  non  ti  gravi , e pensa, 

Che  del  ritorno  il  dì  Troja  non  tolse 

Solo  ad  Ulisse  : d’altri  eroi  non  pochi  4^° 
Fu  sepolcro  comune.  Or  tu  risali 
Nelle  tue  stanze,  cd  ai  lavori  tuoi, 

Spula  , e conocchia  , intendi;  c alle  fantesche 
Commetti , o madre,  travagliar  di  forza. 

II  favellar  tra  gli  uomini  assembrati 
Cura  è dell'uomo  , e in  questi  alberghi  mia 
Più  , che  d’ogni  altro  ; però  ch’io  qui  reggo. 

Stupefatta  rimase  , e,  del  figliuolo 
Portando  in  mezzo  Palma  il  saggio  detto, 

Nelle  superne  vedovili  stanze  470 

Ritornò  con  le  ancelle.  Ulisse  a nome 
Lassù  chiamava  , il  fren  lentaiido  al  pianto: 
Finché  iiiviolle  Pocchiglauca  Palla 
Sopitor  degli  aiianni  un  sonno  amico. 

1 drudi , accesi  via  più  ancor  , che  prima, 
Del  desio  delle  nozze  a quella  vista, 

Tumulto  fean  per  l'oscurata  sala. 

E Telemaco  ad  essi  : O della  madre 
Vagheggiatori  indocili  e oltraggiosi. 

Diletto  dalla  mensa  or  sì  riceva,  4^ 

Nè  si  schiamazzi , mentre  canta  un  vate, 

Che  uguale  ai  Numi  stessi  è nella  voce. 

Ma  , riapparc^a  la  bell' Alba  , tutti 
Nel  Foro  uduiierciiici , ov’io  dirovvi 
Senza  paura  , che  dì  qua  sgombriate; 

Che  gavazziate  altrove  ; che  i’mi  l'altro 
Inviti  alla  sua  volta  , e il  suo  divori. 

Che  se  dLUre  impanemeute  un  solo 


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LIBRO 

Vi  par  meglio  > segnitc.  Io  dell’Olimpo 
Gli  abitatori  inrocherò,  oè  senza  49^ 

Fiducia  , che  il  Saturnio  a colpe  tali 
Un  giusto  guiderdon  renda , e che  inulto 
Tinga  un  di  ijuesle  mura  il  vostro  sangue. 

Morser  le  labbra  , ed  inarcar  le  ciglia 
A 81  franco  scrmon  tutti  gli  amanti. 

E Antinoo  , il  ligiiuot  d’Eupilc  : Di  fermo 
A ragionar,  Telemaco,  con  sensi 
Sublimi  , e audaci  t'impararo  i Numi. 

Guai , se  il  paterno  scettro  a te  porgesse 
Nella  cinta  dal  mare  Itaca  Giove  ! 5oo 

Benché  udirlo,  Telemaco  riprese, 

Forse,  Antinoo,  Rincresca,  io  noi  ti  celo: 
Riceverono  dalla  man  di  Giove. 

Farriati  una  sventura  ? Il  più  infelice 
Dal  mio  lato  io  non  credo  in  fra  i mortali 
Chi  Re  diventa.  Di  ricchezza  il  tetto 
Gli  splende  tosto  , e più  onorato  ei  vanne. 

Ma  la  cinta  dal  mare  Itaca  molti 
Si  di  canuto  pel,  come  di  biondo, 

Chiude,  oltre  Antinoo, che  potran  regnarla, 5io 
Quando  sotterra  dimorasse  il  padre. 

Non  però  ci  vivrà  chi  del  palagio 
La  signoria  mi  tolga,  e degli  schiavi, 

Che  a me  solo  acquistò  l’invitto  Ulisse. 

Eurimaco  di  Folibo  allor  surse: 

Qual  degli  Achei  sarà  d’Itaca  il  Rege, 

Posa  dc’Numi  onnipossenti  in  grembo. 

Di  tua  magion  tu  il  sei;  nè  de’tuoi  beni, 

Finché  in  Itaca  resti  anima  viva, 

Spogliarti  uomo  ardirà.  Ma  dimmi, o buono:  620 
Chi  è quello  stranier?  Dond’ei  partissi? 

Dì  quai  terra  si  gloria  , e di  qual  ceppo  7 
Del  padre  non  lontan  forse  il  ritorno 
T’annunzìa  ? o venne  in  questi  luoghi  antico 
Debito  a dimandar?  Come  di.spnrve 
Ratto  ! come  parea  da  noi  celarsi! 

Certo  d’uom  vile  non  avea  l’aspetto. 

Ah  , ripigliò  il  garzon , del  genitore 
Svanì,  figlio  di  Folibo , il  ritorno  ! 


PRIMO.  7 

Giungano  ancor  novelle,  altri  indovini  53o 
L’avida  madre  nel  palagio  accolga. 

Nè  indovin  più  , nè  più  novelle  io  curo. 
Ospite  mio  paterno  è il  forestiere, 

Di  Tafo  , Mente,  che  iigììuo)  si  vanta 
Del  bellicoso  Anchialo  , e ai  Tafj  impera. 

Tal  rispundea  : ma  dei  suo  cor  nel  fondo 
La  calata  di  ciel  Dea  riconobbe. 

I Proci  al  ballo,  ed  al  soave  canto 
Rivolti  trastullavansi , aspettando 
11  bujo  della  notte.  Della  notte  .*>40 

Lor  sopravvenne  il  buio,  e ai  tetti  loro 
Negli  occhi  il  sonno  ad  accettar  n’andaro. 
Telemaco  a corcarsi , ove  secreta 
Stanza  da  un  lato  del  cortll  superbo 
Per  lui  construtta  si  spiccava  all’aura, 

Salse,  agitando  molte  coso  in  mente. 

B con  accese  in  man  lucide  faci 

11  seguiva  Euricléa,  l’onesta  figlia 

D’Opi  di  Pisenòr  , che  un  dì  I.acrte 

Col  prezzo  compeiò  di  venti  lori,  55o 

Quando  fioriale  giovinezza  in  volto: 

Nè  cara  men  della  consorte  IVhbe, 

Benché  , temendo  i conjiigali  sdegni, 

Dei  toccarla  giammai  non  s’attenlusse. 

Con  accese  il  seguia  lucide  faci: 

Più  gii  portava  amqr,  che  ogni  altra  serva. 

Ed  ella  fu  , che  il  rallevò  bambino. 

Costei  gli  aprì  della  leggiadra  stanza 
La  porta  : sovra  il  letto  egli  s’assise. 

Levò  la  sottil  veste  n sè  di  dosso,  56o 

E all’amorosa  vecchia  in  man  la  pose. 

Che  piegolla  con  arte,  e alla  caviglia 
I/appese  accanto  il  traforato  letto. 

Poi  d’uscire  afTrettavasi  : la  porta 
Si  trasse  dietro  per  Panel  d’argento, 

Tirò  la  fune,  e il  chiavistello  corse. 

Sotto  nn  fior  molle  di  tessuta  Una 
Ei  volgea  nel  suo  cor  per  quell’infera 
Notte  il  oammiu,  che  gli  additò  Minerva. 


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LIBRO  SECONDO 


ARGOMENTO 

C<>iwoc»»ione  del  Parlaiucnlo.  Telemacn  si  ricliiama  de’Prnci  al  popolo,  e agli  ottimati.  Aotinno,  capo  di 
(|ucUi , c il  più  temerario,  ritorce  l'accusa  coutra  ia  madre,  e vuole,  cLei  la  costringa  di  scegliersi  un  nuovo 
uuirito  tra  essi,  mercecclie  il  ritorno  d'Lilìsse  nto  è piu  da  sperarsi.  Ma  il  figlio  gli  rÌs|v)Dde,  non  dover  far 
ciò,  nè  potere.  Giove  manda  due  aquile;  donde  il  veedìio  Aliterse  pronostica  vicino  il  ritorno  d'Olisse;  e n’è 
inginriaU)  da  Eurimaco,  Taltn)  Ca|M>  di>'Froci,  ma  nim  ribaldo.  Dimanda,  ebe  Telemaco  fa,  d'una  nave  per 
andare  a Pilo,  otl  a Sprta.  Mentire  si  studia  di  eccitare  il  popolo  contra  i Proci;  e I..eocrito  il  minaccia,  e 
scioglie  il  Parlaiuento.  Telemaco,  ritiratosi  in  riva  del  mare,  priega  Mìuerva  , che  gli  aji[nre  sotto  la  figura 
.di  Menli'rc,  e Ijisistenia  sua  gli  prumette.  Egli  rientra  nel  |alagi(»,  e richiede  la  nutrice  Eurieb^  del  viatico. 
Dolun:  di  questa  {vr  la  parteuia.  Giunta  la  duUc,  il  giovinetto  iiuLaroisi  con  liliuerva,  che,  pur  sotto  la  figura 
di  Mentore,  l’accumjeigJU. 


Come  la  figlia  dol  mattin  , la  bella 
Palle  dita  di  rose  Aurora  surse, 

Surse  di  letto  anche  il  hgliiiol  d’Ulisse, 

I suoi  panni  vesti , sospese  il  brando 
Per  lo  pendaglio  all’omero  , i lei^giadrì 
Calzari  strinse  sotto  i molli  piedi, 

£ delta  stanza  usci  rapidamente 
Simile  ad  un  drgl’Immortalì  in  volto. 

Tosto  agli  araldi  daU’arguta  voce 
Chiamare  impose  i capelluti  Achivi,  io 

H questi',  al  gridar  loro  accorsi  in  fretta, 

Si  ragunaro  , s’uifoUaro.  Ei  pure 
Al  parlamento  s’avviò:  tra  mano 
Stavagli  un’asta  di  polito  rame, 

£ due  bianchi  il  srguian  cani  fedeli. 

Stupia  ciascun  , meiitr’ci  mutava  il  passo, 

£ il  paterno  sedil , che  dai  vecchioni 
Gli  fu  ceduto  , ad  occupar  sen  già: 

Tanta  in  quel  punto  , è si  divina  grazia, 

Sparse  d’intorno  a lui  Fallade  amica.  20 
Chi  ragionò  primiero?  Egizio  illustre. 

Che  il  dorso  avea  per  l’età  grande  in  arco, 

£ di  vario  saver  ricca  la  mente. 

Su  le  navi  d’Ulisse  alla  feconda 
DI  nobili  destrier  ventosa  Trcja 
Andò  il  più  caro  de’fìgliuoti  , Anlifoj 
£ a lui  diò  morte  nel  cavato  speco 

II  Ciclope  crudcl , che  la  cruenta 
S’imbandi  del  suo  corpo  ultima  cena. 

Tre  figli  al  vecchio  rimanean;  l’un,  detto  5o 
Eurinomo,  co'Proci  erasi  unito, 

£ alla  coltura  de’paterni  campi 
Frescdeanglialtfidue.MainqiiellOjìn  quello, 
Che  più  non  ha  , sempre  s’anìsa  il  padre. 

Che  nel  pianto  ì di  passa,  e che  si  latte 
Parole  allor  , pur  lacrimando  , sciolse: 

O Itacesi , uditemi.  Nessuna, 

Dacché  Ulisse  le^ò  nel  mar  le  vele, 

Qui  si  tenne  assemblea.  Chi  adunò  questa  ? 
Giovane,  o veglio?!?  a che?  Primo  udì  forse  40 
Dì  estrania  gente , che  s’appressi  armata? 

O d’altro, da  cui  penda  il  ben  comune, 

Ci  viene  a favellar?  Giusto  , ed  umano 
Costui,  penso,  esser  dee.  Che  che  s’aggiri 
Per  la  sua  mente  , il  favorisca  Giove  \ 
Telemaco  gioia  di  tali  accenti. 

Quasi  d'ottimo  augurio  , e sorto  in  piedi, 

Che  il  pungea  d’arringar  giovane  bruma, 
Trasse  nei  mezzo , dalla  man  del  saggio 


Tra  gli  araldi  Pìsenore  lo  scettro  5o 

Prese  , e ad  Egizio  indi  rivolto  , O,  disse, 
Buon  vecchio,  non  è assai  quinci  lontano 
L’uom , che  il  popol  raccolse  : a te  dinanzi, 

Ma  qual,  cui  punge  acuta  doglia,  il  vedi. 

Non  di  gente  , che  a noi  s’appressi  armata, 

Nè  d’altro  da  cui  penda  il  ben  comune, 

10  vegno  a favellarvi.  A far  parole 
Vegno  di  me , d’un  male , anzi  dì  duo, 

Che  aspramente  m’investono  ad  un’ora. 

11  mio  padre  io  perdei  ? Che  dico  il  mio?  60 
Popol  a’itaca , il  nostro  : a tutti  padre 

l^iù  assai,  che  Re,  si  dimostrava  Ulisse. 

K a questa  piaga  ohimè  l l’altra  s’arroge, 

Che  ogni  sostanza  mi  si  sperde  , e tutta 
Spiantasi  dal  suo  fondo  a me  la  casa^ 

Nojoso  assedio  alla  ritrosa  madre 
Poser  de’ primi  tra  gli  Achivi  i figli. 

Perchè  di  farsi  a Icario  , e di  proporgli 
Trepidan  tanto,  che  la  figlia  ei  doti, 

E a consorte  la  dia  cui  più  vuol  bene?  70 
L’intero  dì  nel  mio  palagio  in  vece 
Banchettai!  lautamente  , e il  fior  del  gregge 
Struggendo , e dell'armento,  e le  ricolme 
Della  miglior  vendemmia  urne  votando, 

Vivon  di  me  : nè  v’ha  un  secondo  Ulisse, 

Che  sgombrar  d’iufra  noi  vaglia  tal  peste. 

Io  da  tanto  non  son , nè  uguale  all’opra 
In  me  si  trova  esperienza , e forza. 

Oh  cosi  le  avess'io,  com’io  le  bramo! 

Poscia  che  il  lor  peccar  varca  ogni  segno,  80 
£ , che  più  m’ange,  con  infamia  io  pero. 

Deh  s’accenda  in  voi  pur  nobil  dispetto: 
Temete  il  biasmo  delle  genti  intorno,. 
Degl’immortali  Dei  , non  forse  cada 
Delle  colpe  de’Proci  in  voi  la  pena, 

L'ira  temete.  Per  rolimpio  Giove, 

Per  Temi,  che  i consigli  assembra  , e scioglie, 
Costoro  , amici , d’a'izzarmi  contro 
Restate,  e me  lasciate  a quello  in  preda 
Cordoglio  sol , che  il  genitor  mi  reca.  yo 
Se  non  che  forse  Ulisse  alcuni  offese 
De’prodi  Achivi , ed  or  s’intende  i torti 
Vendicarne  sul  figlio.  E ben  , voi  stessi 
Stendete  ai  beni  la  rapace  destra. 

Meglio  fora  per  me  , quando  consunti 
Suppellettil  da  voi  fossemi , e censo, 

Da  vo! , dond’io  sperar  potrei  restauro. 

Vi  assalirei  per  la  città  con  blande 


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9 


LIBRO  S 

Parole  ad  uno  ad  un  , nè  cesaerei,  ^ 

Che  tutto  in  poter  mìo  pria  non  tornasse,  loo 
E dì  nuovo  adergesse  in  piò  il  mio  stato.  ^ 
Ma  or  dolori  entro  del  |>etto  , a cui 
Non  so  rimedio  alcun  , voi  mi  versate. 

Detto  cosi , gittò  lo  scettro  a terra,  i 

Ruppe  in  lagrime  d'ira  , e viva  corse  i 

Di  core  in  cor  nel  popolo  pietade.  j 

Ma  taciturni , immuti , e non  usando  i 

Telemaco  ferir  d’una  risposta, 

Tutti  stavano  i Proci.  Antinoo  solo  I 

Sorse  , e arringò  : Telemaco  a cui  bolle  i io  ' 
Nel  petto  rabbia  , che  il  tuo  dir  sublima,  l 
Quai  parole  parlasti  ad  onta  nostra  ? | 

Improntar  sovra  noi  macchia  sì  nera  ? 

Non  i migliori  degli  Achei:  la  cara 
Tua  madre  , e Parti  , ond'^è  maestra  , incolpa. 
Già  il  terzo  anno  si  volse , e or  gira  il  quarto , 
Che  degli  amanti  suni  prendesi  gioco, 

Tutti  (li  speme,  e d'impronies.se  alletta, 

Manda  messaggi  a tutti  , ed  altro  ha  in  core. 
Questo  ancor  non  pensò  novello  inganno?  120 
Tela  sottile  , tela  grande  , immensa, 

A oprar  si  mise , e a sè  chiamoniie , e disse: 
Giovani , amanti  miei,  tanto  vi  piaccia, 

Poiché  già  Ulisse  tra  i defunti  scese. 

Le  mie  nozze  indugiar , ch’io  questo  possa 
Lùgubre  ammanto  per  Peroe  Laerte, 

Acciò  le  fila  inutili  io  non  perda. 

Prima  fornir,  che  Piiiclemeute  Parca 
Di  lunghi  sonni  apportatrice  il  colga. 

Non  vo*,  che  alcuna  delle  Achec  mi  morda,  i3o 
Se  ad  uora  , che  tanto  avea  d’arredi  vivo, 
Fallisse  un  drappo , in  cui  giacersi  estinto. 

Con  siinil  fola  leggiermente  vinse 
(rii  animi  nostri  generosi.  Intanto,  1 

l'inchè  il  giorno  splendea  , tessea  la  tela 
Superba  ^ e poi  la  distessea  la  notte 
Al  complice  chiaror  di  mute  faci. 

Così  un  triennio  la  sua  frode  ascosce, 

£ deluse  gli  Achei.  Ma  come  il  quarto 
Con  le  volubili  ore  anno  sorvenne,  140 

Noi,  da  un’ancella  non  ignara  ìnstruttì, 
Penelope  trovammo  , che  la  bella 
Disciogliea  tela  ingannatrice:  quindi 
Compierla  dovè  al  fin  , benché  a dispetto. 

Or,  perchè  a te  sia  noto,  e ai  Greci , il  tutto, 
Ecco  risposta  , che  ti  fanno  i Proci. 
Accommiata  la  madre,  e quel  di  loro, 

Che  non  dispiace  a Icario , e a lei  talenta, 

A disposar  constringila.  Ma  dove. 

Le  doti  usando  , onde  la  ornò  Minerva,  i5o 
Che  man  formolle  cosi  dotta,  e ingegno 
Tanto  sagace , e accorgimenti  dielle, 

Quali  non  s’udir  mai  nè  dclPantiche  1 

Di  Grecia  donne  dalle  belle  trecce. 

Tiro,  Alcinena,  Micene,  a cui  le  menti 
Di  sì  fini  peusier  mai  nmi  fiorirò: 

Dove  creciesse  lungo  tempo  a bada 
Tenerci  ancor , la  sua  prudenza  usata  I 

Qui  Pabbandoneria.  Noi  tanto  il  figlio  | 

Consumerem  , quanto  la  madre  in  core  160 
Serberà  questo  suo , che  un  Dio  le  infuse,  | 
Strano  proposto.  Eterna  gloria  forse 
A fé  procaccerà  , ma  gran  difetto 
Di  vettovaglia  a te  ^ mentre  noi  certo 

ODISSEA. 


E C O N D O. 

Da  te  pensìam  non  istaccarcì,  s'ella 
Quel,  che  le  aggrada  più,  pria  non  impalma. 

lo,  rispose  Telemaco,  di  casa 
Colei  sbandir,  donde  la  vita  io  tengo? 

Dal  cui  lattante  sen  pendei  bambino  ? 

(rcave  in  oltra  mi  fora , ov’io  la  madro  1* 
Dipartissi  da  me,  sì  ricca  dote 
Tornare  a Icario.  Cruccieriasi  un  giorno 
L’amato  genitor,  che  forse  vive, 

Benché  lontano,  e puniriaiimi  i Numi| 
Perch’ella  , alontanandosi , le  odiate 
Imploreria  vendicatrici  Erinni. 

Che  le  genti  dirian  ? No , tal  congedo 
Non  sarà  mai , ch'io  liberi  dal  labbro. 

L’avete  voi  per  mal  ? Da  me  sgombrate; 
Gozzovigliate  altrove;  alternamente  180 
L’un  Paltro  invili , e il  suo  retaggio  scemi. 

Cile  se  disfare  impunemente  un  solo 
Vi  par  meglio,  seguite.  Io  dell’Olimpo 
(ìli  abitatori  invocherò,  nò  senza 
Speme  , che  il  Saturnide  a tai  misfatti 
La  debita  mercè  renda  , e che  inulto 
Scorra  nel  mio  palagio  il  vostro  sangue. 

Si  favellò  Telemaco  , e dall'alto 
Del  monte  due  volanti  aquile  a lui 
Mandò  Pelerno  onniveggente  Giove.  igo 

Tra  lor  vicine  , distendendo  i vanni, 

Fendean  la  vana  regì'on  de’venti. 

Nè  prima  far  dell’assemblea  sul  mezzo, 

Che  si  volsero  in  giro  , e,  Pali  folte 
Starnazzando , e mirando  a tutti  in  faccia, 
Morte  auguraro  : al  fin  , poiché  a vicenda 
Con  Punghie  il  capo  insanguinato  e il  collo 
S’ebber  , vularo  a destra  , e dileguarsi 
Delia  città  su  per  gli  eccelsi  tetti. 

Maravigliò  ciascuno  ; e ruminava  300 

Fra  sè  , quai  mali  promettesse  il  fato. 

Quivi  era  un  iiom  di  molto  tempo,  e senno. 
Di  Masturc  figlino),  detto  Aliterse, 

Che  nell’arte  di  trar  dagli  osservati 
Volanti  augelli  le  futuie  cose. 

Tutti  vinceva  i più  canuti  crini. 

Itaccsi,  ascoltatemi,  e più  ancora 
M’ascoltin  , disse  , i Proci , a cui  davante 
S’apre  un  gran  precipizio.  Ulisse  lungi 
Da  cari  suoi  non  rimarrà  inolt’anni.  3io 
Che  parlo?  Ei  spunta,  e non  ai  soli  Proci 
Strage  prepara , e morte  : altri,  e noù  pochi 
Che  abitiam  la  serena  Itaca,  troppo 
Ci  accorgerem  di  lui.  Cìonsultiam  dunque. 
Come  gli  amanti , che  pel  meglio  loro 
Ossar  dovrian  per  sè  , noi  ralTrtniamo. 

Uom  vi  ragiona  de’presagi  esperto 
Per  lunghissima  prova.  Ecco  maturo 
Ciò  , ch’io  vaticinai,  quando  per  Troja 
Scioglievano  i Greci, eUlisse  anch’ei  sarpa  va  .320 
Molti , io  gridai , patirà  duoli , e tutti 
Perderà  i suoi:  ma  nel  ventesim’anno 
Solo,  e ignoto  a ciascun,  farà  ritorno. 

Già  si  compie  l’oracolo  : tremate. 

Folle  vecchiardo , in  tua  magioQ  ricorra, 
Eurimaco  di  Polibo  rispose, 

E oracoleggia  ai  figli  tuoi  , non  forse 
(ìl’incolga  un  dì  qualche  infortunio.  Assai 
Più  là  di  te  ne’vaticini  io  veggio. 

Volaa,  rivolun  mille  augelli  e mille  23o 

3 


ODISSEA 


10 

Per  Taere  immenso , « non  dibatton  tutti 
Sotto  i raggi  del  Sul  penne  fatali. 

Quinci  lontano  peri  Ulisse.  Oh  fossi 
Tu  perito  con  lui  ! Che  non  t’udremmo 
Protetare  in  tal  guisa  , e il  furor  cieco 
Secondar  di  Telemaco , da  cui 
Qualche  don  , credo,  alle  tue  porte  attendi. 

Ma  oraeoi  più  verace  odi.  Se  qualità 
D’espei  lenza  il  bianco  pel  t’addusse, 

A sedurre  il  fanciullo, e a più  inliammarlo  a4<> 
L’adopri , tu  gli  nuoci  \ a'tuoi  disegni 
Non  glori , e noi  tale  iniporremti  multa, 

Che  morte  iiati  il  sostenerla.  Io  poi 
Tal  consiglio  al  fauciul  porgo:  la  madre 
Bimandi  a Icario , che  i sponsali , e ricca, 

Quol  dee  seguire  una  diletta  fìgiìa, 

Dote  apparecchierà.  Prima  io  non  penso, 

Che  da  questa  di  nozze  ardua  tenzoue 
I figli  degli  Achei  vorrai!  giù  torsi. 

Di  nessuno  temiam , non,  benché  tanto  33o 
Loquace  , di  Telemaco^  nè  punto 
Drl  vaticinio  ci  curiam  , che  indarno 
T’uscl , vecchio,  di  bocca  , e elle  frutlarti 
Maggiore  odio  sol  può.  Fine  ì conviti 
Non  avr»n  dunque  , e non  sarà  mai  calma, 
FiMchè  d’oggi  in  doman  costei  ci  maudj. 

Noi  ciascun  di  coutenderem  per  lei, 

Nò  ad  altre  donne  audrem  , quali  ha  l’Acaja 
Degne  di  noi , percliè  cagioti  primiera 
Dell'illustro  contesa  è la  virtude.  260 

Eurimaco  , e voi  tutti,  il  giovinetto 
Soggiunse  allor  , competitori  alteri, 

Non  più:  già  il  tutto  sanno  uomini , e Dei. 

Or  noti  vi  chiedo  , che  veloce  nave 
Con  dicci  e dieci  poderosi  remi. 

Che  sul  mar  mi  trasporti.  All’arenosa 
Pilo  , ed  a Sparla  valicare  io  bramo, 

Del  padre  assente  [ler  ritrar  , s’io  mai 
Trovar  potessi  chi  meii  parli  chiaiO| 

O quella  udir  voce  fortuita  , in  cui  270 

Spesso  il  cercato  ver  Giove  nasconde. 

Vivrà  ? ritornerà  ? Benché  dolente, 

Sosterrò  un  anno.  Ma  se  morto  , e fatto 
Cenere  il  risapessi  , al  patrio  nido 
Kiederò  senza  indugio  -y  e qui  un  sepolcro 

011  alzerò,  renderogli  i piu  solcuui, 

Qual  si  coiivien,  iùnebri  ouorì,  e uii  altro 
Sposo  da  me  riceverà  la  madre. 

Tacque , e s’assise  ; e Mentore  levus^i. 

Del  padre  il  buon  compagno,  a cui  su  tutto  280 
Vegghiar  , guardare  il  tutto  , ed  i comandi 
Seguitar  di  Laerte,  Ulisse  ingiunse, 

Quando  per  l’alto  sai  mise  la  nave. 

O Itacesi , tal  parlava  il  saggio 
Vecchio  , alle  voci  mie  l’orecchio  date. 

Nè  giusto  più  , nè  liberal , nè  mite, 

Ma  iniquo , ma  inflessibile,  ma  crudo 
D’ora  innazi  un  Re  sia  , poiché  tra  genie, 

Su  cui  steiidea  scettro  paterno  Ulisse, 

Più  non  s’incontra  un  sol, cui  vìva  in  core.  290 
Che  arroganti  rivali  ad  opre  ingiuste 
Trascorrati  ciechi  della  mente  , io  taccio. 
Svelgono,  è ver . sin  dalle  sue  radici 
La  casa  di  quel  Grande,  a cui  disdetto 
Sperano  il  ritornar  , ma  in  rischio  almeno 
Poiigon  la  vita.  Ben  con  voi  m’adiro, 


Con  voi , che  muti , ed  infingardi,  c vili 
Vi  state  11,  nè  d’un  sul  motto  il  vostro 
Signore  inclito  aitate.  Ohimè  ! dai  pochi 
Restano  i molti  soverchiati  e vinti*  5oo 

Mentor,  noti  so  qual  più,  se  audace,  o stolto, 
Leocrito  d’Kvenore  rispose, 

Che  mai  dicestu  ? Centra  noi  tu  ardisci 
11  popolo  eccitar?  Non  lieve  impresa 
Una  gente  assalir  , che  per  la  mensa 
BranHisca  l’arinì  ; e i piacer  suoi  difenda. 

Se  io  stesso  He  dTtaca  tornato 
Scacciar  tentasse  i banchettanti  Proci, 

Scarso  del  suo  ritorno  avrìa  diletto 

Questa  sua  donna  ,che  il  sospira  tanto,  ^10 

È morire  il  veJria  morte  crudele, 

Benché  tra  molti  ci  combattesse  : quiudi 
Del  tuo  parldr  la  vanità  sì  scorge. 

Ma , su  via , dividetevi , e alle  vostre 
Faccende  usate  vi  rendete  tutti. 

Mentore  , ed  Aliterse  , che  fedeli 
A Telemaco  son  paterni  amici, 

Gli  metteraii  questo  viaggio  in  punto; 

Beuch’ci  del  padre  le  novelle,  in  vece 
Di  cercarle  sul  mar , senza  fatica  320 

Le  aspetterà  nel  suo  palagio , io  credo. 

Disse,  e ruppe  il  concilio.  I cittadini 
Sciuglieansi  l’un  dall'altro  , c alle  ior  case 
Qua  e là  s'avviavano  : d’Ulisse 
Si  ritiraro  alla  magione  i Proci. 

Ma  dalla  turba  solitario  c scevro 
Telemaco  rivolse  al  mare  i passi, 

Le  mani  asterse  nel  canuto  mare, 

K supplicò  a Minerva  : O Diva  amica, 

Che  degnasti  a me  jer  scender  dal  ciclo,  33o 
K fender  l’onde  m’imponesti  , un  padre 
Per  rintracciar  ,chc  uoii  ritorna  mai, 

Il  tuo  solo  favor  puummi  davante 
orincìampi  tor  , che  m’opporranno  i Greci, 

E più,  che  altr’uomo  in  llaca  , i malvagi 
Proci , la  cui  superbia  ognor  più  munta. 

Cosi  pregava  ; e se  gli  pose  alialo 
Con  la  faccia  di  Mentore,  e la  voce, 

Palla  , e a nome  chiamollo  , e feo  tai  detti: 
relemaco  , uè  ardir  giammai  , nè  senno  3^0 
Ti  verrà  men  , se  la  virtù  col  sangue 
Trasfuse  in  te  veracemente  Ulisse, 

Che  quanto  impreso  avea  , quanto  avea  detto 
Conipiea  mai  sempre.  Il  tuo  viaggio  a vóto 
Non  andrà  , qual  temer , dove  tu  figlio 
Non  gli  fossi , io  dovrei.  Vero  è , che  spesso 
Dal  padre  il  figlio  non  ritrae:  rimano 
Spesso  da  lui  lungo  intervallo  indietro, 

R raro , è assai , che  aggìimgalu  , od  il  passi. 
Ma  sellilo  a te  non  veri  à meu  , nè  ardire,  35o 
Ed  io  vivere  Ulisse  in  te  già  veggo. 

Lieto  dunque  degli  atti  il  fiue  spera: 

Nè  Cauga  il  vauo  macchiuar  de’ Proci, 

Che  non  sentono  incauti , e ingiusti  al  paro, 

La  nera  Parca , che  gli  assai  da  tergo, 

Ed  in  un  giorno  sol  tutti  gli  abbranca. 

Io , d’Ulisse  il  compagno  , un  tale  ajuto 
Ti  porgerò , che  partirai  di  corto 
Su  parata  da  me  celere  nave, 

K con  me  stesso  al  fianco  in  su  la  poppa.  56o 
Orsù  , rientra  nel  palagio,  ai  Proci 
Nuovamente  U mostra,  cd  apparecchia 


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Il 


LIBRO  SECONDO. 


Quanto  al  TÌaggio  si  , c il  lutto 

Riponi  : il  bianco  nelle  dense  pelli 
Gran  macinato , ch'è  deU’uom  la  vi'a, 

E neirurne  il  licer  , che  la  rallegra. 

Compagni  a radunarti  in  fretta  io  movt), 

Che  ti  segnano  allegri.  Ila  su  Tarena 

IVIolte  rundicerchiata  Itaca  navi 

Novelle  , e antiche  : ne’salatì  flutti  670 

Noi  lanrcrem  .senza  ritardo  armata 

Qual  miglior  mi  parrà  velcggiatrice. 

Cosi  di  Giove  la  celeste  figlia: 

Kè  più  , gli  accenti  della  Diva  uditi, 
S’indugiava  Telemaco.  Al  palagio, 

Turbato  della  mente  , ire  alTrettossi, 

E trovò  i Proci  , che  a scojar  capretti, 

E pingui  ad  abbronzar  corpi  di  verri, 

Nel  cortile  intendeano.  11  vide  appena, 

Che  gli  fu  incontro  sogghignando,e  il  prese  58o 
Per  mano  Àntinoo , e gli  parlò  in  tal  guisa: 

O molto  in  arringar  , ma  forte  poco 
Nel  dominar  te  stesso , ogni  rancore 
Scaccia  dal  petto , e , qual  solevi , adopra 
Da  prode  il  dente  , e i colmi  nappi  asciuga. 
Tulio  gli  Achei  t’allestiran  di  botto  ; 

Nave  , e remigi  eletti  , acciò  tu  possa, 

Batto  varcando  alla  divina  Pilo, 

Correr  del  padre  tuo  dietro  alla  fama. 

£ Telemaco  allor:  Sedermi  n mensa  oQ" 
Cou  voi , superbi , e una  tranquilla  gioja 
Provarvi , a me  non  lice.  Ah  non  vi  basta 
Ciò  , chede’miei  più  preziosi  beni 
Nella  prima  età  mia  voi  mi  rapiste  ? 

Irta  or  ch’io  posso  dell’altiiii  saggezza 
Giovarmi , o sento  con  le  membra  in  petto 
Cresciutami  anco  l’alma,  io  disertarvi 
Tenterò  pure  , o ch’io  qui  resti , o parta. 

Ma  parto,  e non  invan  , spero,  e su  nav« 
Parto  non  mia,  quando  al  figliiiol  d’Ulisse,  4o<> 
Nè  ciò  sembravi  sconcio  , un  legno  maina. 

Tal  rispose  crucciato,  e destramente 
Dalia  nian  d’Antinuo  la  sua  disvclse. 

Già  il  convito  appreatavano  , ed  acerbi 
Motti  scoccavan  dalle  labbra  i Proci. 

Certo,  dicea  di  que’prolcrvi  alcuno, 
Telemaco  un  gran  danno  a noi  disegna. 

Da  Pilo  ajuti  validi,  o da  Sparta 
Menerà  seco,  però  ch'ci  non  vive, 

Che  di  SI  fatta  speme  : o al  suol  fecondo 
D’Elira  condurrassi,  e ritrarranne 
Fiero  vclen,  che  getterà  nell’uriie 
Con  man  furtiva  j e noi  berem  la  morte, 

E un  altro  ancor  de’pretendenti  audaci  : 

Chi  sa,  ch’egli  non  men,  sul  mar  vagando, 
Dagli  amici  lontano  un  di  non  muoja  , 

Come  il  suo  genitor  ? Carco  più  grave 
Su  le  spalle  ne  avremmo  : il  suo  retaggio 
Partirci  tutto,  ma  la  casta  madre, 

’E  quel  di  noi , ch'ella  scegliesse  a sposo  , 4‘2o 

Nel  palagio  lasciar  soia  con  solo. 

Telemaco  frattanto  in  quella  scese 
Di  largo  giro,  e di  .sublime  volta 
Paterna  sala,  ove  raì  biondi,  e rossi 
L’oro  mandava,  c l’ammassato  rame  ; 

Ove  nitide  vestì,  e di  fragrante 

Olio  gran  copia  chiudean  ì’arche  in  grembo  ; 

E presso  al  muro  ivano  intorno  molte 


Di  vino  antico , saporoso,  degno 
Di  presentarsi  a un  Dio,  gravide  botti , 43o 

Che  del  ramingo  travagliato  Ulisse 
Il  ritorno  aspettavano.  Munite 
D’opportuni  serrami  eranvi,  e doppie 
Con  lungo  studio  accomodate  iinpusle; 

Ed  Euricléa  , la  vigilante  figlia 
D’Opi  di  Pisenorre,  il  di  e la  notte 
Questi  tesori  custodia  col  .senno. 

Chiamnlla  nella  sala  , c a lei  tai  voci 
Telemaco  drizzò:  Nutrice,  vino,  4'|0 

Su  via  , m’attigni  delicato,  e solo 
Minor  di  quel , che  a un  infelice  serbi, 

Se  mai . scampato  dal  destiti  di  morte. 
Comparisse  tra  noi.  Dodici  n'empi 
Anfore,  c tutte  le  suggella.  Venti 
Di  macinato  gran  giu.<ite  misure 
Versami  ancor  ne’ledeli  otri,  « il  tutto 
Colloca  in  un:  ma  sappilo  tu  sola. 

Come  la  notte  alle  superne  stanze 
La  madre  inviti,  e al  solitario  ietto, 

Per  tai  cose  io  verrò:  cliè  l’arenosa  4.'io 

Pilo  visitar  voglio,  e la  ferace 

Sparta,  e ad  entrambe  domandar  del  padre. 

Diè  un  grido,  scoppiò  in  lagrime,  c dal  petto 
Etiriclèd  volar  feo  queste  parole: 

Donde  a te,  caro  figlio,  in  mente  cadde 
Pensiero  tal?  Tu,  l’unico  rampollo 
Di  Penelope,  tu,  la  nostra  gioja, 

Pertanto  Mondo  raggirarti  ? Lunge 
Dal  suo  nido  peri  l’inclito  Ulisse 
Fra  estranie  genti;  e perirai  tu  ancora.  4G0 
Sciolta  la  fune  non  avrai, che  i Proci 
Ti  tenderanno  agguati , uccideranti, 

C tutte  partiraniiosi  tra  loro 
Le  spoglie  tue.  Deh  qui  con  noi  rimani, 

Con  noi  qui  siedi,  e su  i marini  campì, 

Che  fecondi  non  son  che  di  sventure, 

Lascia , che  altri  a sua  posta  errando  vada. 

Fa  cor,  Nutrice,  ci  le  risponde  tosto  ; 

Senza  un  Nume  non  è questo  consiglio. 

Ma  giura, che  alla  madre,  ov’aiira  allronde  470 
Non  le  ne  giunga  prima,  e ten  richiegga, 

Nulla  dirai,  che  non  appaja  in  cielo 
La  dodicesm’Aurora  ; onde  col  pianto 
Al  suo  bel  corpo  ella  non  rechi  oltraggio. 

L’ottima  vecchia  il  giuramento  grande 
Giurò  de’Numi;  e a lui  versò  ne’cavi 
Otri,  versò  nell’anfore  capaci, 

Le  candide  farine,  c il  rosso  vino. 

Ei,  nella  sala  un’altra  volta  entrato, 

Trai  Proci s’awolgea  : nè  in  questo  mezzo  480 
-Stavasi  indarno  la  Tritonia  Palla, 

Vestite  di  Telemaco  le  forme, 

Per  tutto  si  mostrava,  ed  appressava 
Tutti,  e loro  ingiungea,  che  al  mare  in  riva 
Si  raccogliesser  nottetempo,  e il  ratto 
Legno  chiedea  di  Fronio  al  figlio  illustre, 

A Noemòn,  cui  non  chiedealo  indarno. 
S'ascose  il  Sole,  e in  Itaca  ornai  tutte 
S’inombravan  le  vie.  Minerva  il  ratto 
Legno  nel  mar  tirò,  l’armò  di  quanto  49^ 
Solfre  d’arnesi  un’impalcata  nave, 

E al  porto  in  bocca  Tarrcsiò.  Frequenti 
Si  raccogUeano  i reniator  forzuti 
Sul  lido,  e iuanimavalì  la  Dea 


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1» 


ODISSEA 


Dallo  sguardo  assurrin,  che  altro  disegao 
Concepì  in  mente.  La  magion  d’Ulisse 
Kitrova,  e sparge  su  i beenti  Proci 
Tal  di  sonno  un  vapor,  che  lor  si  turba 
L'intelletto,  e contondesi,  e dì  mano 
Casca  sul  desco  la  sonante  coppa.  5oo 

Sorse,  e mosse  ciascuno  al  proprio  albergo, 
fu  più  nulla  del  sedere  a mensa  : 
l'al  pondo  stava  su  le  lor  palpébre. 

Ma  ì’occhiglauca  Dea,  ripreso  il  volto 
Di  Mentore,  e la  voce,  e richiamato 
Puor  del  palagio  il  giovinetto,  disse: 
Telemaco,  ciascun  ae'  tuoi  compagni, 

Che  d’egregi  schinier  veston  le  gambe, 

Già  siede  al  remo,  e,  se  tu  arrivi,  guarda. 

Ciò  detto , la  via  prese , ed  il  garzone  6oo 
Seguitavane  Torme.  Al  mar  calati, 

Trovar  sul  lido  i capelluti  Achivi, 

Cui  di  tal  guisa  favellò  la  sacra 
Di  Telemaco  possa  : Amici,  in  casa 
Quanto  al  cammin  bisogna,  unito  giace. 
Trasportarlo  è mestieri,  Nè  la  madre 
Sa.  nè,  fuor  che  una,  il  mio  pensier  le  ancelle. 

Tacque,  e loro  entrò  innanzi;  e quelli  dietro 
Teneangli.  Indi  con  Tanfore,  e con  gli  otri. 
Come  d’Ulisse  il  caro  fìglio  ingiunse,  610 
Tornaro,  e il  carco  cella  salda  nave 


Deposero.  Il  garzon  sopra  vi  salse 
Preceduto  da  Fallade , che  in  poppa 
S’assise  ; accanto  ei  le  sedea  : la  ione 

I remiganti  sciolsero,  e montaro 

I#a  negra  nave  anch’essi,  e i banchi  empierò. 
Tosto  la  Dea  dalle  cerulee  luci 
Chiamò  di  verso  l’Occidente  un  vento 
Destro,  gagliardo,  che  battendo  venne 
Su  pel  tremolo  mar  l’ale  sonanti.  Cao 

Mano,  mano  agli  attrezzi,  allor  gridava 
Telemaco;  ov'é  l'albero?  1 compagni 
1/udiro,  e il  grosso,  e lungo  abete  in  alto 
Drizzaro,  e Timpiantaro  entro  la  cava 
Base,  e di  corda  l’annodaro  al  piede: 

Poi  tiravano  in  su  le  bianche  vele 
Con  bene  attorti  cuoi.  Gonliò  nel  mezzo 
Le  vele  il  vento;  e forte  alla  carena 
L’azzurro  mar  romoreggiava  intorno, 

Mentre  la  nave  sino  al  iin  del  corso  C5o 

Su  l’elemento  liquido  volava. 

Legati  ì remi  del  naviglio  ai  fianchi, 
ineuronaro  di  vin  maschio  l’urne, 

E a ciascun  degli  Dei  sempre  viventi 
Libaro,  ma  più  a te,  figlia  dì  Giove, 

Che  le  pupille  di  cllestro  tingi. 

II  naviglio  correa  la  notte  intera, 

£ del  suo  corso  al  fìn  giungea  con  l’Alba. 


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LIBRO  TERZO 


ARGOMENTO 

Arrivo  di  Tvlemaco  t Pilo,  mentre  Nestore  saf^lìcava  «ilenDemente  a Nettuno.  E Re  Io  accof^Re  enrtetemeate. 
Telemaco  k gli  dà  a conoscere , e dimandagli  nuvella  del  judre.  Nestore  racconta  ciò,  che  nel  ritorno  daTroja 
è avvenuto  a se,  e ad  altri  eroi  della  Greria,  fermandosi  più  a lungo  sopra  Agamennone.  Ma  d'Ulisse  nulla  sa 
dirgli.  Bensì  lo  consiglia  di  andare  a Sparta,  e richietlcruc  Menelao,  die  giunse  di  fresco  dopo  on  luogo  vùggio. 
Sparizione  di  Miner>*a,  che  sotto  la  figura  di  Mentore  avea  accompagnato  Telemaco.  Nestore,  che  la  riconobbe, 
le  fa  il  dì  appresso  un  sagrifizio  solemte|  e coimuelle  a i’ìsisLrato,  uu  de'suoi  figli,diamdurre  a S|iarta  Teieiuaco 
sovra  un  coódùu.  Parteuxa  de' due  garzoni  m TAlba  del  gioriio  .seguente. 


XJsciTo  delle  salse  acque  Termìgllc 
Montava  il  Sole  per  l’eterea  volta 
Di  bronzo  tutta,  e in  ciclo  ai  Dei  recava, 

£d  agli  uomini  Ì1  dì  sulTalma  terra: 

Quando  alla  forte  Pilo,  alla  cittade 
Fondata  da  Keléo,  giunse  la  nave. 

Stavano  allor  sagrilìcando  i Pilj 
Tauri  sul  lido  tutti  necri  al  Dio 
Dai  crini  azzurri,  che  la  terra  scuote. 

Nove  d’uomini  squadre,  e in  ogni  squadra  io 
Cinquecento  seduti,  e per  ciascuna 
Svenati  nove  buoi , di  cui,  gustate 
Le  interiora,  ardean  le  cosce  al  Nume. 

La  nave  intanto  d’uguai  fianchi  armata 
Se  ne  venia  dirittamente  a proda. 

Le  vele  ammainar,  pigliaro  il  porto, 

Nel  lido  si  gittaro.  Ei  pur  gittossi 
Telemaco , e Minerva  il  prcccdea, 

La  Dea  dagli  occhi  di  ceruleo  tinti, 

Che  gli  accenti  al  garzon  primiera  volse: 
Telemaco,  depor  tutta  oggi  c d’uopo 
La  pueril  vergogna.  Il  mar  passasti, 

Ma  per  udir,  dove  s’asconda , e a quale 
Destin  soggiacque  il  generoso  padre. 

Su,  dunque,  dritto  al  domator  t’avvia 
Di  cavalli  Nestorre,  onde  si  vegga 
Quel,  ch’ei  celato  nella  mente  porta. 

Il  ver  da  lui,  se  tu  nel  chiedi , avrai  : 

Poiché  mentir  non  può  cotanto  senno. 

Il  prudente  Telemaco  rispose:  3n 

Mentore,  per  qual  modo  al  Rege  amico 
M’accosterò?  Con  qual  saluto?  Esperto 
Non  sono  ancor  del  favellar  de’ saggi  : 

Nè  consente  pudor,  che  a far  parole 
Cominci  col  più  vecchio  il  men  d’etade. 

Ma  di  tal  guisa  ripigliò  la  Dea, 

Cui  cilestrino  lume  i rai  colora: 

Telemaco,  di  ciò,  che  dir  dovrai. 

Parte  da  aè  ti  nascerà  nel  core. 

Parte  nel  cor  la  ti  porranno  i Numi:  40 

Chè  a^lspetto  di  questi  in  luce,  io  credo, 

Non  ti  mandò  la  madre,  e non  ti  crebbe. 

Così  parlando,  frettolosa  innanzi 
Palla  si  mise,  ed  ei  le  andava  dopo. 

Pur  tosto  in  mezzo  all’assemblea  de’ Pilj, 

Ove  Nestor  sedea  co’  figli  suoi, 

Mentre  i compagni,  apparecchiando  il  pasto. 
Altre  avvampavan  delle  carni,  ed  altre 
Negli  spiedi  infilzavaule.  Adocchiati 
Ebbero  appena  i forestìer,  che  incontro  5o 
Lor  si  fero  in  un  groppo,  e gli  abbracciaro, 

E a seder  gTiovitaro.  Ad  appressarli 


Pisjstrato  fu  il  primo,  iin  de’ figliuoli 
Del  Re.  Li  pre.se  ambi  per  mano,  c in  molli 
pelli,  onde  attappezzata  era  la  sabbia, 

.\ppo  la  mensa  gli  adagiò  tra  il  raro 
Suo  padre,  e il  germano  Trasimede: 

Delle  viscere  calde  ad  ambi  porse; 

E,  rosso  vin  mescendo  in  tazza  d’oro, 

K alla  gran  figlia  dell’Egioco  Giove  60 

Propinando,  Stranier,  dissele,  or  prega 
Dell’acque  il  Sir,  nella  cui  fe.sta,  i nostri 
Lidi  cercando,  t’abbattesti  appunto. 

Ma,  i libamenti,  come  più  s'addice, 

Compiuti,  e i prieghi,  del  ticor  soave 
Presenta  il  nappo  al  tuo  compagno,  in  cui 
Pur  s’annida,  cred'io,  timor  dc’Niimi, 
Quando  ha  mestier  de’Numi  ogni  vivente. 
Meno  ei  corse  di  vita,  e d’anni  eguale 
l’armi  con  me  : quindi  a te  pria  la  coppa.  70 
£ il  soave  licor  le  pose  in  mano. 

Godea  Minerva  che  l’uom  giusto  pria 
Offerto  il  nappo  d’oro  avesse  a lei, 

E subito  a Netlun  così  pregava: 

Odi,  o Nettuno,  che  la  terra  cingi, 

E questi  voti  appagar  degna.  Eterna 
Gloria  a Nestorre,  ed  a’  suoi  figli  in  prima, 

E poi  grata  mercede  a tutti  i Pilj 
Dell’inclita  ecatombe.  Al  mio  compagno 
Concedi  in  oltre,  e a me,  che,  ciò  fornito,  -So 
Perchè  venimmo,  su  le  patrie  arene 
Con  la  negra  torniam  rapida  nave. 

Tal  supplicava;  e adempiere  intendea 
Questi  voti  ella  stessa.  Indi  al  garzone 
bella  offrì  gemina  coppa  e tonda, 

Ed  una  cgual  preghiera  il  caro  figlio 

D’Ulisse  alzò.  S’abbnistolaro  intanto 

Le  pingui  cosce,  degli  spiedi  acuti 

Si  dispiccato,  e si  spartirò  : al  fine 

L’alto  6)  celebrò  prandio  solenne.  qo 

Giunto  al  suo  fin , così  principio  ai  detti 
Dava  il  Gerenio  cavalier  Nestorre: 

Gii  ospiti  ricercare  allora  è bello, 

Che  di  cibi,  e di  vini  hanno  abbastanza 
Scaldato  il  petto,  e rallegrato  il  core. 
Forestieri,  chi  siete?  £ da  quei  lidi 
Prendeste  a frequentar  l’umide  strade? 
Traflìcate  voi  forse?  O v’aggirate, 

Come  corsali,  che  la  dolce  vita, 

Per  nuocere  ad  altj'ui,  rischiari  su]  mare?  100 

Telemaco,  a cui  Palla  un  nuovo  ardire 
Spirò  nel  seno,  acciò  del  padre  assente 
Nestore  interrogasse,  e chiaro  a un  tempo 
Di  sè  sparge.sse  per  le  genti  il  grido. 


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ODISSEA 


i4 

O Acliei,  rispose,  ìlìastre  vanto, 

Di  satisfare  ai  desir  tuoi  son  presto. 

(riungiam  dalla  seduta  a piè  del  Neo 
Itaca  alpestre,  cd  è cagtoti  privata, 

Ch'j  a Pilo  ci  menò.  Dr-l  padre  io  movo 
Dietro  alla  fama,  che  riempie  il  Mondo,  ilo 
Del  magnanimo  TTtisse,  onde  racconta 
Pubblica  voce,  che  i Trojani  muri, 
Coinlxittendo  con  teco,  al  suol  distese. 

Df*gli  altri  tutti,  che  co’Troi  pugnato, 

Non  ignoriam,  dove  finirò  i giorni. 

Ma  di  lui  Giove  anco  la  morte  volle 
Nasconderci;  nè  alcun  sin  qui  poteo 
Dir , se  in  terra , o sul  mar . se  per  nemico 
Brando  incontrolla,  o alle  irateonde  in  grembo. 
Eccomi  or  dunque  alle  ginocchia  tue,  120 
Perchè  tu  la  mi  narri,  o vista  Pabbi 
Con  gli  occhi  propr) , o dalle  labbra  udita 
D’uri  qualche  pellegrin:  però  che  molto 
Disventurato  il  partorì  la  madre. 

Nè  timore,  o pietà,  del  palesarmi 
Quanto  sai,  ti  ritenga.  Ahi  se  l’egregio 
Mio  padre  in  opra,  o in  detto  unqua  ti  feo 
Bene,  o commodo  alcun,  là  ne’Trojani 
Campi,  che  tinse  Ìl  vostro  sangue,  o Greci, 

Tel  rimembra  ora,  e non  tacermi  nulla.  i3o 
Kd  il  Gtffcnio  cavalier  Nestorre; 

Tu  mi  ricordi,  amico,  i guai,  che  molti 
Noi  prole  invitta  degli  Achei  patimmo, 

O quando  erranti  per  le  torbia’onde 
Ce  ne  andavam  sovra  le  navi  in  traccia 
Di  preda,  ovunque  ci  guidasse  Achille^ 

O allor  che  pugnavam  sotto  le  mura 
Della  cittade  alta  di  Priamo,  dove 
Grecia  quasi  d’eroi  spenta  rimase. 

Là  cadde  Achille,  e il  marziale  Àjace,  140 
Là  Patroclo  nel  senno  ai  Dei  vicino, 
Quell’Antiloco  là  forte,  e gentile, 

Mio  diletto  figliuol,  che  abil  del  pari 
La  mano  ebbe  ai  conflitti,  e al  corso  il  piede. 
Se  tu,  queste  sciagure,  ed  altre  assai 
Per  ascoltar,  sino  al  quint’anno,  e al  sesto 
Qui  t’indugiassi,  dalla  noja  oppresso 
Leveresti  di  nuovo  in  mar  le  vele, 

Ch’io  non  sarei  de!  mio  racconto  a riva. 

Nove  anni,  olFese  macchinando,  a Troja  l5o 
Ci  travagliammo  intorno;  e,  benché  ogni  arte 
Vi  s’aduprasse,  d’espugnarla  Giovo 
Ci  consentì  ne!  decimo  a fatica. 

Duce  col  padre  tuo  non  s’ardia  quivi 
Di  accorgimento  gareggiar:  cotanto 
Per  inventive  Ulisse,  c per  ingegni 
Ciascun  vincea.  Certo  gli  sei  tu  figlio, 

E me  ingombra  stupor,  mentr’io  ti  guardo: 
Chè  i detti  rassomigliansi , e ne’ detti 
Tanto  di  lui  tenere  uom,  che  d’etade  iCo 
Minor  tanto  è di  lui,  vero  non  parmi. 
L’accorto  Ulisse,  ed  io,  nè  in  parlamento 
Mai,  nò  in  concilio,  parlavam  diversi: 

Ma,  d’tina  mente,  con  maturi  avvisi 
Quel,  che  dell’oste  in  prò  tornar  dovesse^ 
Disegnavamo.  Rovesciata  l’alta 
Città  di  Priamo,  e i Greci  in  su  le  ratto 
Navi  saliti,  si  divise  il  campo. 

Così  piacque  al  Saturnio;  c ben  si  vide 
Dì  queU’isUnte,  che  un  ritorno  infausto  170 


Ci  destinava  ìl  Correttor  del  Mondo. 

Senno  non  era,  nè  giustizia  in  tutti  : 

Quindi  il  malanno,  che  su  molti  cadde. 

Per  lo  sdegno  fatai  deli’Occhiglauca 
Di  forte  genitor  nata,  che  cieca 
Tra  i duo  figli  d’Atréo  discordia  mise. 

\ parlamento  in  sul  cader  del  Sole 
Cliiamaro  incauti,  e centra  l’uso,  i Greci, 

Che  intorbidati  dal  vapor  del  vino 
Gli  Atridi  ad  ascoltar  trassero  in  folla.  iBo 
Menelao  prescrivea  , che  l’oste  tutta 
Ce  vele  aprisse  del  ritorno  ai  venti  : 

Ma  ritenerla  in  vece  Agamennóne 
Bramava,  e odrir  sacre  ecatombe,  il  fiero 
Sdegno  a placar  dell’oltraggiata  Diva. 

Stoltol  che  non  sa|\ea,  ch’erano  indarno: 
Quando  per  fumo  d’immolati  tori 
Mente  i Numi  non  cangiano  in  un  punto. 

Così,  garrendo  di  parole  acerbe, 

Non  si  movean  dal  lor  proposto.  Intanto  190 
Con  insano  clamor  sorser  gli  Achivi 
Ben  gambierati;  c l’un  consiglio  agli  uni, 
L’altro  agli  altri  piacea.  Funeste  cose 
La  notte  m mezzo  al  sonno  agitavamo 
Dentro  di  noi  : chè  del  disastro  il  danno 
Giove  ci  apparecchiava.  Il  dì  comparso, 
Tirammo  i legni  nel  divino  mare, 

B su  ì legni  velivoli  le  molte 

Robe  imponemmo,  e le  altocinte  schiave. 

Se  non  che  mezza  l’oste  appo  l’Atride  luo 
Agameonón  rimanea  ferma  : l’altra 
Dava  ne’ remi,  e per  lo  mar  pescoso, 

Che  Nettuno  spianò,  correa  veloce. 

Tenedo  preso,  sagrifici  offrimmo, 

Anelando  alla  patria:  ma  nemico 
Dagli  occhi  nostri  rimoveala  Giove, 

Che  di  nuovo  partì  tra  loro  i Greci. 

.\lcuni , che  d'intorno  erano  al  ricco 
Di  scaltrimenti  Ulisse',  e al  Re  de’ Regi 
Gratificar  volean , torsero  a un  tratto  2so 
Le  quinci  e quindi  remiganti  navi: 

Ma  IO  de’  mali,  che  l’avverso  Nume 
Divisava,  m’accorsi,  e con  le  prore. 

Che  fide  mi  seguian,  fuggii  per  l’alto. 

Fuggì  di  Tideo  il  bellicoso  figlio, 

Tutti  animando  i suoi.  L’acqiie  salate 
Solcò  più  lento,  c in  Lesbo  al  fine  Ìl  bionda 
Menelao  ci  trovò,  che  della  via 
Consigliavam  : se  all’aspra  Chio  di  sopra, 

Fiiria  lasciando  dal  sinistro  lato,  220 

0 in  vece  sotto  Chio,  lungo  il  ventoso 
Mimanta,  veleggiassimo.  D’un  segno 
Me  ttunpregammo:ei  mostrò  un  sogno,  e il  mare 
Noi  fendemmo  nel  mezzo,  e dell’Éubéa 
Navigammo  alla  volta,  onde  con  quanta 
Fretta  si  potea  più,  condurci  in  salvo. 

Sorse  allora , e soffiò  stridulo  vento, 

Che  volar  per  le  nere  onde,  e notturni 
Sorger  ci  feo  sovra  Geresto , dove 
Sbarcammo,  e al  Nume  degli  azzurri  crini,  200 
Misurato  gran  mar,  molte  di  tori 
Cosce  ponemmo  m su  la  viva  brace. 

Già  il  dì  quarto  splendea,  quando  i compagni 
Del  prode  ne’ cavalli  Diomede 
Le  salde  navi  riposaro  in  Argo; 

> Rd  io  ver  Pilo  sempre  il  corso  tenni 


LIBRO 

Con  quel  vento,  cui  pria  mandato  in  poppa 
M'aveano  i Numi , e che  non  mai  s’estinse. 
Così,  mìo  caro  figlio,  ignaro  io  giunsi, 

Nè  so  uulla  d^Greci  o spenti,  o salvi.  240 
Ciò  poi,  che  intesi  ne' mici  tetti  assiso, 

Celare  a te  certo  non  vuoisi.  £ fama, 

Che  felice  ritorno  cbber  gli  sperti 
Lelia  lancia  Mirmidoni,  che  il  degno 
Figliuol  guidava  dell'altero  Achille. 

Felice  l'ebbe  Filottetc  ancora, 

L’illustre  prole  di  Peante^.  In  Creta 
Kimenò  Idomenéo  quanti  compagni 
Con  la  vita  gli  uscir  fuori  delrarme: 

Un  sol  non  ne  inghiottì  l'onda  vorace.  25o 
L’Àgamennòn  voi  stessi,  e come  venne, 
Benché  lontani  dimoriate,  udiste, 

£ qual  gli  tramò  £gUto  acerba  morte. 

Ma  già  il  fio  ne  pagò.  Leh  quanto  è bello, 

Che  il  figliuol  dell'estinto  in  vita  resti! 

Quel  deirAtridc  vendicossi  a pieno 
Lell'omicida  fraudolento  e vile, 

Che  morto  avcagli  sì  famoso  padre. 

Quinci  e tu,  amico,  però  ch'io  ti  veggio 
Li  sembiante  non  men  grande,  che  bello,  260 
Fortezza  impara,  onde  te  pure  alcuno 
Benedica  di  quei , che  un  dì  vivranno. 

Nestore,  degli  Achei  gloria  immortale, 
Telemaco  riprese,  ci  vendicossi, 

£ al  ciclo  i Greci  innalzeranlo,  e il  nome 
Nel  canto  se  n'udrà.  Perchè  in  me  ancora 
Non  infuser  gli  Lei  tanto  di  lena, 

Che  dell'onte  de* Proci,  e delie  trame 
Potessi  a pieno  ristorarmi  anch'io? 

Ma  non  a me,  non  ad  Ulisse,  e al  figlio,  270 
Tanta  felicità  dagl'immortali 
Fu  destinata^  e tollerar  m'è  forza. 

Poiché  lai  mali,  ripigliò  Nestorre, 

Mi  riduci  alla  mente,  odo  la  casa 
Molti  occuparti  a forza,  e insidiarti, 
Vagheggiatori  della  madre.  Dimmi: 
Volontario  piegasti  ai  giogo  il  collo? 

0 ili  odio,  colpa  d’uii  oraeoi  forse, 

1 cittadini  t'hanno?  Ad  ogni  modo, 

Chi  sa , che  il  padre  ne’  suoi  tetti  un  giorno  2S0 
Non  si  ricatti  o solo,  o con  gli  Achivi 
Tutti  al  suo  fianco,  di  cotanti  oltraggi? 

Se  te  così  Pallade  amasse , come 
A Troja,  duol  de'  Greci,  amava  Ulisse 
( Sì  palese  favor  d'un  Nume,  quale 
Li  Pallade  per  luì,  mai  non  si  vide  ) 

Se  ugual  di  te  cura  prendesse,  ai  Proci 
Leila  mente  uscirian  le  belle  nozze. 

£ d’Ulisse  il  figliuol  : Tanto  io  non  penso, 
Che  s'adempia  giammai.  Troppo  dicesti,  290 
Buon  vecchio,  ed  io  ne  maraviglio  forte: 

Che  ciò  bramar,  non  conseguir,  mi  lice. 

Non.  se  agli  stessi  Lei  ciò  tosse  in  grado. 

Qual  ti  sentii  volar  fuori  de' denti, 

Telemaco , parola?  allor  soggiunse 
La  Lea,  che  lumi  cilestrini  gira. 

Facile  a un  Dio,  sempre  che  il  voglia,  uom  vivo 
Ripatriar  dai  più  remoti  lidi. 

Io  per  me  del  ritorno  anzi  torre! 

Scorgere  il  dì  dopo  infiaiti  guai,  5oo 

Che  rieder  prima,  e nel  suo  proprio  albergo 
Cader,  come  d'BgUto,  e deU’ùihda 


TERZO.  i5 

Moglie  per  frode  il  miserando  Atride. 

La  morte  sola,comun  legge  amara, 

Gli  stessi  Lei  nè  da  un  amato  capo 
Distornarla  potrian,  quandunque  sopra 
Gli  venga  in  sua  stogiun  l'apportatrice 
Li  lunghi  sonni  disamabìl  Parca. 

E temo  io  ben,  Telemaco  rispose, 

Che  una  morte  crudel,  non  il  ritorno,  3io 

Prefissa  gli  abbia,  o Mentore,  il  destino. 

Ma  di  questo  non  più  : benché  agli  aillitti 
Parlare  a un  tempo,  e lagrimar  sia  gioja. 

Io  voglio  d’altro  dimandar  Ne»torre, 

Che  vede  assai  più  là  d'ogni  mortale, 

E l’età  terza , qual  si  dice , or  regna. 

Tal  che  mirare  in  lui  sembrami  un  Nume. 
Figlio  di  Neleo,  il  ver  mi  narra.  Come 
Chiuse  gli  occhi  Agamennone,  il  cui  regno 
Stendeasi  tanto?  Menelao  dov'era?  320 

Qual  morte  al  sommo  Agamennóne  ordia 
L'iniquo  Egisto,  che  dì  vita  uom  tolse 
Tanto  miglior  di  sè?  Non  era  dunque 
Nell'Argo  Acaica  Menelao?  Ma  forse 
Lontano  errava  tra  straniere  genti, 

£ quei  la  spada,  imbaldanzito,  strinse. 

Ed  il  Gcrcnio  cavalicr  Nestorre: 

Figlio,  quant’io  dirò,  per  certo  il  tieni. 

Tu  ferisii  nel  segno.  An!  se  Tillustre 
Menelao  biondo,  poiché  apparve  in  Argo,  53o 
Nel  palagio  trovava  Egisto  in  vita. 

Non  si  spargea  sul  costui  morto  corpo 
Un  pugno  scarso  di  cavata  terra: 

Fuor  delle  mura  sovra  il  nudo  campo 
Cani,  e augelli  voravaulo,  nè  un  solo 
Delle  donne  d’Acaja  occhio  il  piangea. 

Noi  sotto  Troja,  travagliando  in  armi, 
Passavam  le  giornate;  ed  ei  nel  fondo 
Della  ricca  di  paschi  Argo  tranquilla 
Con  detti  aspersi  di  dolce  veleno  640 

I.a  moglie  dell'Atrìde  iva  blandendo. 

Rifuggia  prima  dall’indegno  fatto 
La  vereconda  Clitennestra,  e retti 
Pensier  nutria,  standole  a fianco  il  vate. 

Cui  di  casta  serbargliela  l'Atride 

Molto  ingiungea,  quando  per  Troja  sciolse. 

Ma  sorto  il  dì , che  cedere  ad  Egisto 
La  infelice  dovea,  quegli,  menato 
A un'isola  deserta  il  vate  in  seno, 

Colà  de'  feri  volator  pastura  55o 

Lasciollo,  e strazio;  e ne'suoi  tetti  addusse 
Non  ripugnante  l'infedel  Regina. 

E molte  cosce  del  cornuto  armento 
Su  Tare  il  folle  ardea , sospendea  molti 
Di  drappi  d'oro  sfavillanti  doni, 

Compiuta  un'opra,  che  di  trarre  a fine 
Speranza  ebbe  assai  men,  che  non  vaghezza. 
Già  partiti  di  Troja,  e d’amistade 
Congiunti,  battevam  Io  stesso  mare 
Menelao,  ed  Io  : ma  divenimmo  al  sacro  36o 
Promontorio  d'Ateue,  al  Sunio,  appena, 

Che  il  suo  nocchicr,  che  del  corrente  ìeguo 
Stava  al  governo,  un'improvvisa  uccise 
Di  Febo  Apollò  mansueta  freccia, 

L'Onetoride  Fronte,  uom  senza  pari 
Co'marosi  a combattere,  c co'veiiti. 

L'Atilde,  benché  in  lui  gran  fretta  fosse. 

Si  fermò  al  Sunio,  ed  il  compagno  pianse, 


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i6  O D I S 

E d'esequie  onorolìo,  c di  sepolcro. 

Poi,  rientrato  in  mare,  e al  capo  ecccUo  670 
Giunto  della  Maléa,  caiitmin  ielicc 
Non  gli  donò  l^onniveggciite  Giove. 

Venti  stridenti,  e smisurati  flutti, 

Cile  ai  monti  non  cedeau,  contro  gli  mosso, 

E ne  disgiunse  i legni,  e parte  a Creta 
Kc  spinse  là  , 've  albercaiio  i Cidonj 
Alle  correnti  del  Giordano  in  riva. 

Liscia,  e pendente  sovra  il  losco  mare 
Pi  Gortiiia  al  conlin  sorge  una  rupe, 

Contro  alla  cui  sinistra,  e non  da  lesto  58o 
Molto  lontana  punta,  Austro  i gran  flutti 
Caccia  : li  frange  un  pìccoletto  sasso. 

Là  percotendo  si  flaccaro  i legni, 

Scampate  l'alme  a gran  fatica,  e sole 
Cimpie  altre  navi  dalTazzurra  prora 
Portò  sovra  l’Egitto  il  vento,  e l’onda. 

Mentre  con  queste  Menelao  tra  genti 
D'altra  favella  s’aggirava , e forra 
Vi  raccoglieva  di  vettovaglia,  e doro, 

Tutti  ebbe  i suoi  desir  Tiniquo  Egislo:  Sqo 

Agamennòne  a tradimento  spense, 

Suggettossì  gli  Argivi,  ed  anni  sette 
Della  ricca  Micene  il  freii  ritenne. 

Mat’ottavo  anno  ritornò  d’ Atene 
Per  sua  sciagura  il  pari  ai  Numi  Oreste, 

Cile  il  perfido  assassin  de)  padre  illustre 
Spoglio  di  vita,  e la  funebre  cena 
Agli  Argivi  imbandì  per  l’odjosa 
Madre  non  meii,  che  per  l’imbelle  drudo. 
lx>  stesso  giorno  Menelao  coni  parve,  4'  ' ' 

Tanta  ricchezza  riportando  seco, 

Che  del  pondo  gemean  le  stanche  navi. 

Figlio  , non  l’imitar,  non  vagar  troppo, 
Lasciando  in  preda  le  sostanze  ai  Proci, 

Che  ciò  tra  lor,  che  non  avran  consunto, 
Fartansi,  e il  viaggiar  ti  torni  danno. 

Se  non  ch’io  bramo,  anzi  t’esorto,  c stringo, 

Che  il  Re  di  Sparta  trovi.  Ei  testé  giunse, 

Donde  altri,  che  in  quel  mar  furia  di  crudo 
Vento  cacciasse,  perderla  la  speme  4*'‘ 

Di  lieder  più  :mur  cosi  immenso,  e orrendo, 
Che  nel  giro  d’uii  anno  augel  noi  varca. 

Hai  nave,  ed  hai  compagni.  £ se  mai  fosse 
Più  di  tuo  grado  la  terrestre  via, 

Cocchio  io  darotti,  e corridori,  e i mici 

Figli,  che  guìderanti  alla  divina 

Sparta,  ove  il  biondo  Menelao  soggiorna. 

Pregalo,  e non  temer,  che  le  parole 

Re  sì  prudente  di  menzogne  involva.  | 

Disse*,  c tramontò  il  Sole,  c bujo  venne,  4^'  1 

Qui  la  gran  Diva  dal  ceruleo  sguardo 
Si  frappose  così:  Buon  vecchio,  tutto 
Dicesti  rettamente.  Or  via,  le  lingue 
Taglinsi,  e di  licor  s’empiaii  le  tazze. 

Poscia,  fatti  a Nettuno,  e agli  altri  Numi 
1 libamenti,  si  procuri  ai  corpi 
Riposo,  e sonno,  come  11  tempo  chiede. 

Già  il  Sol  s'ascose,  e non  s’addice  al  sacro 
Troppo  a lungo  seder  prandio  solenne. 

Così  Palla,  nè  indarno.  Acqua  gli  aialdi  4^'^’ 
Dier  subito  alle  man,  di  vino  l'uruo 
Coronaro  i donzelli,  ed  il  recaro, 

Con  le  tazze  augurando,  a tutti  in  giro. 

1 conrìtati  s’alzano,  e le  lingue 


SFA 

Gittan  sul  fuoco,  e libano.  Libato 
Ch’ebbero,  e a voglia  lor  tutti  bevuto, 

Palla,  e d’Ulisse  il  deiforme  figlio 
Ritirarsi  voleano  al  cavo  legno. 

Ma  Nestore  ff-rrnolli,  e con  gentile 
Corruccio,  Ab!  Giove  tolga, egli  altri,  disse,  440 
Non  morituri  Dri,  ch'ire  io  vi  lasci, 

Qual  tapino  mortale,  a cui  la  casa 
Di  vestimenti  non  abbonda,  e coltri, 

Ove  gli  ospiti  suoi,  non  ch’egli,  avvolti 
Mollemente  s’addòrniiiio.  Credete, 

Che  a me  vesti  non  sieno,  e coltri  belle? 

Nu^su  palco  di  nave  il  figlio  caro 
Di  cotaiit'uum  non  giacerà,  me  vivo, 

E vivo  un  sol  de* figli  miei,  che  quanti 
V'erraniio  alle  mie  case  ospiti  accolga.  480 

O vecchio  amico , replicò  la  Diva, 

Cui  sfavilla  negli  occhi  azzurra  luce, 

Motto  da  te  mm  s’ode  altro  che  saggio. 
Telemaco,  ubbidire  io  ti  consiglio. 

Glie  meglio  puoi?  Te  dunque,  o Nestor,  siegua, 
K s’adagi  iti  tua  casa.  Io  aver  la  nave 
A confortar  rivolgonii,  e di  tutto 
Gli  altri  a informar:  jierò  ch’io  tutti  vinco 
Que’ giovani  d’età,  che  non  maggiori 
Di  Telemaco  sono,  e accompagnarlo  4flo 
Voiler  per  aniislade.  la  sul  naviglio 
Mi  .stenderò  : ma,  ricomparsa  l’Alba, 

Ai  Caucòni  magnanimi  non  lieve 
Per  ricevere  andrò  debito  antico. 

E tu  questo  garzoii , che  a te  drizzossi, 

Nel  cocchio  iiumda  con  un  figlio,  e al  cocchio 
De* corridori,  che  in  tue  stalle  mitri, 

1 pili  ratti  gli  accoppia,  e più  gagliardi. 

Qui  fine  al  dir  pose  la  Dea,  cut  ride 

Sotto  le  ciglia  mi  azzurrino  lume,  470 

E si  levò,  com’aquila,  e svaiiio. 

Stupì  chiunque  v’era , ed  anco  il  veglio, 

Visto  il  portento,  s’ammirava;  e,  preso 
Telemaco  per  man,  nomollo,  e disse: 

Reo  conusc’ora,  che  dappoco  e imbelle, 

Figliuol  mio,  non  sarai,  quando  compagni 
Così  per  tempo  tì  si  fanno  i Numi, 

Degli  abitanti  deli'Oiimpie  case 
Chi  altri  esser  porria,  che  la  pugnace 
l'iglia  di  Giove,  la  'JTitonia  Palla,  480 

Che  l’egregio  tuo  padre  in  fra  gii  Achiv» 

Favorì  ognor?  Propizia,  o gran  Regina, 
Guardami,  e a me  co’ figli,  e con  la  casta 
Consorte  gloria  non  vulgar  concedi. 

Giovenca  io  t’ofl’rirò  di  larga  fronte. 

Che  vide  un  anno  solo,  e al  giogo  ancora 
Non  sottopose  la  cervice  indoma. 

Questa  per  le  cadrà  con  le  vestite 
, Di  lucid’oro  giovinette  corna. 

Tal  supplicava;  e l’ndì  Palla.  Quindi  490 
Generi,  e figli  al  suo  reale  ostello 
Nestore  precedea.  Giunti,  posaro 
Su  gli  scanni  per  ofdiiie,  e su  i troni. 

Il  Re  canuto  uii  prezioso  vino, 

Che  dalla  scoverchiata  urna  la  fida 
Custode  attinse  uell’undecim’aiino, 

Lor  niescea  nella  coppa,  e alla  possente 
Figlia  libava  dcirEgioco  Giove, 

Supplichevole  orando.  E gli  altri  ancora 
Libare,  e a voglia  lor  bcbbeio.  Al  ime  5oo 


>7 


LIBRO 

Tras5er«  per  chiuder  gU  occhi  | ai  tetti  loro. 

Ma  nella  sua  magione  il  venerato 

Nestore  vuoli  che  del  divino  Ulisse 

La  cara  prole  in  traforato  letto 

Sotto  il  sonanJe  portico  s’addormaì 

E accanto  a lui  Pisìstrato,  di  gente 

Capo,  e il  sol  de'Hglìuoi , che  sin  qui  viva 

Celibe  vita.  Ei  del  palagio  eccelso 

Si  corcò  nel  più  interno;  e la  reale 

Consorte  il  letto  preparògli;  e il  sonno.  5io 

Tosto  che  del  mattin  la  bella  figlia 
Con  le  dita  rosate  in  ciclo  apparve, 

Surse  il  buon  vecchio,  uacl  dei  tetto,  e innanzi 
S’assise  aU’alte  porte  in  su  i politi, 

Bianchi,  e d'unguento  luccicanti  marmi, 

Su  cui  sfidea  par  nel  consiglio  ai  Numi 
Neleo,  che,  vinto  dal  destin  di  morte, 

Nelle  case  di  Fiuto  era  già  sceso.  ^ 

Nestore  allora , guardìau  de' Greci, 

Lo  scettro  in  nian,  sedeavi.  1 figli»  usciti  620 
Di  loro  stanza  maritale  anch'essi, 

Fret|ueiiti  al  vecchio  si  stringeano  intorno, 
Echefròne , Perséo , Strazio , ed  Aréto, 

E il  nobil  Traslmede,  a cui  s’aggiunse 
Sesto  Tcroe  Pisistrato.  Menaro 
D’Ulisse  il  figlio  deiforme,  e al  fianco 
Colloiàrlo  del  padre,  che  le  labbra 
In  queste  voci  aprì  t Figi»  diletti, 

Senza  dimora  il  voler  mìo  fornite. 

Prima  tra  i Numi  l’Atenéa  Minerva  55o 
Non  degg'io  venerar,  che  nel  solenne 
Banchetto  sacro  manifesta  io  vidi? 

Un  di  voi  dunque  ai  verdi  paschi  vada, 

Perchè  tirata  dal  bifolco  giunga 
Ratto  la  vaccherella.  Un  altro  mova 
Dell’ospite  olla  nave,  e,  salvo  due, 

Tutti  i compagni  mi  conduca.  E un  terao 
Laerce  chiami,  l'ingegnoso  mastro, 

Della  giovenca  ad  inaurar  le  corna. 

Gli  altri  tre  qui  rimangano,  e all'ancelle  640 
Facciali  le  mense  apparecchiar,  sedili 
Apportar  nel  palagio,  e tronca  selva, 

E una  pura  dal  fonte  acqua  d’argento. 

Non  indarno  ei  parlò.  Venne  dal  campo 
I.a  giovinetta  fera,  e dalla  nave 
Dell’ospite  i compagni;  il  fabbro  venne, 

Tutti  recando  gli  strumenti,  e l’armi, 
L'incude,  il  buon  martello,  e le  tenaglie 
Ben  fabbric^ite,  con  che  l’ór  domava: 

Nè  ai  sacrifici  suoi  mancò  la  Diva.  55o 

Nestore  diè  il  metallo;  e il  fabbro,  come 
Domato  l’ebbe,  ne  vestì  le  corna 
Della  giovenca,  acciocché  Palla,  visto 
Quel  fulgor  biondo,  ne  gioisse  in  core. 

Per  le  conia  la  vittima  Echefròne 
Guidava , e Strazio  : dalle  stanze  Aréto 
Purissim'onda  in  un  bacile  a vaghi 
Fiori  inragliato  d’una  man  portava, 

Orzo  deU’altra  in  bel  canestro,  e sale: 

11  bellicoso  Trasimede  in  pugno  56o 

Stringea  l’acuta  scure,  die  stil  capo 
Scenderà  della  vittima;  ed  il  vaso, 

Che  il  sangue  raccorrà,  Perseo  teiica. 

Ma  de' cavalli  il  domator,  l’antico 
Nestore,  il  rito  cominciò:  le  mani 
S'asterse,  sparse  il  salat’orzo,  e a Palla 
ODISSEA. 


TERZO. 

Pregava  molto,  neU’ardenfe  fiamma 
Le  primizie  gittando,  i peli  svelti 
Dalla  vergine  fronte.  Alla  giovenca 
S’accostò  il  forte  Trasimede  allora,  670 

E con  la  scure  acuta,  onde  colpilla, 

Del  collo  i nervi  le  recise,  e tutto 
Svigorì  il  corpo:  supplicanti  grida 
Figliuole  alzare,  e nuore,  e la  pudica 
Di  Nestor  donna,  Euridice,  che  prima 
Di  Climèn  tra  le  figlie  al  Mondo  nacque. 

Poi  la  buessa,  che  giacca,  di  terra 
Sollevar  nella  testa,  e in  quel,  che  lei 
Reggean  così,  Pisistrato  scannolla. 

Sgorgato  il  sangue  nereggiante,  e scorso,  58o 
K abbandonate  dallo  spirto  Possa, 

La  divisero  in  fretta  : ne  tagliaro 
Le  intére  cosce,  qual  comanda  il  rito, 

D.  doppio  le  covrirò  adipe,  e i crudi 
Brani  vi  adattar  sopra.  Ardesie  il  veglio 
Su  gli  scheggiati  rami,  e le  spruzzava 
Di  rosso  vin , mentre  abili  donzelli 
Spiedi  teneau  di  cinque  punte  in  mano. 

Arse  le  cosce,  e i visceri  gustati, 

Minuti  ptzzi  fer  dell’altro  corpo,  5qo 

Che  rivolgeano,  ed  abbrostiano  infissi 
Negli  acuti  schidoni.  Folicasta, 

La  minor  figlia  di  Nestorre,  intanto 
Telemaco  lavò,  di  bionda  Punse 
Liquida  oliva,  e gli  vesti  ima  fina 
Tunica,  e un  ricco  manto;  ed  egli  emerse 
Fuor  del  tepido  bagno  agl'lmmorialì 
Simile  in  volto,  e a Nestore  avvìossi 
Pastor  di  genti,  e gli  s’assise  al  fianco. 

Abbrostite  le  carni,  ed  imbandita,  600 
Sedeansi  a banchettar  : donzelli  esperti 
Sorgeano,  e pronti  di  vermiglio  vino 
Ricolmavan  te  ciuttole  delPoro. 

Ma  poiché  spenti  i naturali  furo 
Della  fame  desiri  e della  sete, 

Parlò  in  tal  guisa  il  cavalier  Nestorre: 

Miei  figli,  per  Telemaco,  su  via, 

I corridori  dal  leggiadro  crine 
Giungete  sotto  il  cocchio.  Immantinente 
Quelli  ubbidirò,  e i corridor  veloci  610 

Giunser  di  fretta  sotto  il  cocchio,  in  cui 
Candido  pane,  evin  purpureo,  e dapi, 

Quai  costumano  i Re  di  Giove  alunui| 

T.a  veneranda  dispensiera  pose. 

Telemaco  salì,  salt  l'ornata 

Biga  con  lui  Pisistrato,  di  gente 

Capo,  e accanto  assettossigiì;  e,  le  briglie 

Nella  man  tolte,  con  la  sterza  al  corso 

1 cavalli  eccitò,  che  alla  campagna 

Si  gittàr  lieti:  de’ garzoni  agli  occhi  6ao 

Di  Pilo  s’abbassavano  le  torri. 

.Squassavano  i destrier  tutto  quel  giorno 
Concordi  il  giogo,  ch’era  lor  sul  cullo. 
Tramontò  il  Sule , ed  imbrunian  le  strade: 

E i due  giovani  a Fera , e alla  magione 
Di  Dìónle  arrivar,  del  prode  figlio 
Di  Orsiloco  d’Alféo,  dove  riposi 
Ebbcr  tranquilli,  ed  ospitali  doni. 

Ma  come  del  mattin  la  bella  figlia 
Comparve  in  ciel  con  le  rosate  dita, 

Aggiogaro  i cavalli,  e la  fregiata 
Biga  salirò;  e del  vestibol  fuori 


63o 

3 


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jb  ODISSEA 

ì,a  spinsero»  e del  portico  suDaiite. 

Scosse  la  sto  za  il  Nestoiide,  e quelli 
Iw.ietamente  volaro.  1 pingui  campi 
Di  ricca  messe  biondeggianti  indietro 
Fuggiaii  l*uii  dopo  raltro^  e sì  velot  i 


Gli  alienati  destrier  movean  le  gambe, 
Che  ritacense,  e il  Pilì'ese  al  bue 
Del  viaggio  pervennero,  che  d’onihra, 
li  Sol  caduto,  si  copria  la  terra. 


640 


LIBRO  QUARTO 


A U G O M E K r O 

Tclemaru,  e Pìsistratu  {giungono  a S|nrU  iieiraUo,  che  Menelao  celebrava  le  ooxte  del  figlio  Megapente,  e 
dell»  figbuola  Eruiioue.  Mcnclau,  ed  Elena  il  rict>uoiic«>oo  agevolmente  {irr  figlio d’Llisse.  Encomj  di  questo,  c 
coimmixÌKue  io  Telemaco,  e negli  altri  ancora,  sino  alle  lagrime;  c artiCxio d’Klena  per  raffrenarle.  Tulli  vanno 
a doruiirc.  Cimiparsa  l'Aurora,  Menelao  ode  da  Telemaco  eoo  isd^nu  la  insolenza  de’Proci;  cd  a lui  narra  il 
tuo  viaggio  in  Egitto,  e ciò,  ch'ivi  intese  da  Proteo  iolorau  ad  Agamennone,  ad  Ajace  d'Óilén,  c<l  anche  ad 
I Jisse.  1 Prt<i  intanto  ristJvonu  d’iusirliare  Telcuiaro  al  suo  ritorou,  « d’uixidcrlo.  Angoscia  di  Pcoelo[»e,  che 
u'i-  infoi  luaU,  e cui  Pallade  £h>ì  cou  un  sogno  piacevole  ricuulorta. 


Ctiunseho  alPanipia,  che  tra  ì mouli  giace, 
tubile  Sparla  , « le  regali  case 
Dei  glorioso  Menelao  trovare. 

Questi  del  tiglio,  e della  figlia  insieme 
EValeggiava  quel  di  le  doppie  iioz^e, 

E molti  amici  banchettava.  L'una 
Spedia  d’Achille  al  bellicoso  figlio, 

Cui  promessa  l’uvea  sott’llio  un  giorno, 

Ed  or  cooipieaiio  il  maritaggio  i Numi: 

Quindi  cavalli  e cocchi  alla  famosa  10 

Cittade  de’Mirmidoni  condurla 
Doveano,  e a Firro,  che  su  lor  regnava. 

E alla  figlia  d’Alettore  Spartano 
D’altro,  il  gagliardo  Megapente,  unìa. 

Che  d’una  soltiava  sua  tardi  gli  nacque;  i 

Poiché  ad  Eléoa  gl’immortali  Dei  j 

Piote  iiou  coucedeai)  dopo  la  sola  | 

D’Aiuor  degna  Ermióue,  a cui  dell'aurea  > 
Venere  la  beltà  splendca  nel  volto. 

Così  per  Fallo  spazioso  albergo  20  ; 

Pallt^gravansi  assisi  a lauta  mensa  I 

Di  Menelao  gli  aiutct,  ed  i vicini;  I 

^lentie  vale  divin  Ita  lor  cantava,  > 

I.’argeiitea  cetra  peicotendo,  e due 
Ditiizaturi  agilissimi  nel  mezzo  l 

Contempiavanu  al  canto  i dotti  salti.  i 

Ncll'atno  imantu  s’aneslaro  i figli 
Di  Nestoie,  c d'Ulisse.  Eteunéo, 

Dii  vigli  servo  del  secondo  Atride, 

Primo  adoccbiolli,  e con  l'aimuiizio  corse  5o 
De' popoli  al  pastore,  ed  all’uiecchio 
Gli  susurrò  così  : Due  luresticri 
Nell’atrio,  o Meuclau  dì  Giove  alunno, 

Copiiia  d’eroi , che  dei  Saturnio  prole 
Sembrano  in  vista.  Or  di’  ; sciorre  i cavalli 
Dobbiamo,  o i forestieri  a un  altro  forse 
Mandar  de’Greci , che  gli  accolga,  e onori? 

D’ira  iuliuminossi,  e in  colai  guisa  il  biondo 
Meiielao  gli  rispose:  O di  Eoéte 
Figliuolo,  Eteonéo,  tu  non  sentivi  40 

Già  dello  scemo  negli  andati  tempi, 

£ or  sembri  a me  bamboleggiar  co’detti. 

Non  ti  sovvieu,  quante  ospitali  mense 
Spognuumio  di  vivande  àum  clic  posa 


Qui  trovassimo  al  fin,  se  pur  vuol  Giove 

Privilegiar  dopo  cotante  pene 

J.a  nostra  ultima  età?  Sciogli  i cavalli, 

£ al  mio  convito  i forestier  conduci. 

Batto  fuor  della  stanza  Eteonéo 
Lanciossi  ; c tutti  a tè  gli  altri  chiamava  5o 
Fidi  conservi.  Distaccaro  i forti 
Di  sotto  il  giogo  corridor  sudanti, 

E al  presepe  gli  avv'insero  , spargendo 
Vena  soave  di  biaiic’orzo  mista, 

£ alia  parete  lucida  il  vergato 

Cocchio  appoggiaro.  Indi  per  l’ampic  stanze  * 

Guiderò  i novelli  ospiti,  cne  in  giro 

D'inusitata  maraviglia  carche 

Le  pupille  movean  ; però  che  grande 

(iettava  luce,  qual  di  Sole,  o Luna,  60 

Del  glorioso  Menelao  la  reggia. 

Del  piacer  sazj,  che  per  gli  occhi  entrava, 

Nelle  terse  calar  lepide  conche; 

K come  fur  dalle  pudiche  ancelle 
Lavati,  di  bioiid’olto  unti,  e dt  molli 
Tuniche  cinti , e di  vellosi  manti, 

Si  collocaro  appo  l’Atride.  Quivi 
Solerte  ancella  da  bell’aureo  vaso 
Nell’argeuteu  bacile  un’onda  pura 
Versava,  e stendea  loro  un  liscio  desco,  70 
Su  cui  la  saggia  dispensiera  i pani 
Venne  ad  impor  bianchissimi,  e di  pronte 
Dapì  serbate  geiierc>sa  copia; 

E u’ogni  sorta  carni  in  larghi  piatti 
Beco  L’abile  scalco,  e tazze  d’oro. 

Il  Be,  òtriijgeudo  ad  ambidue  la  roano. 
Pasteggiate,  lor  disse,  ed  alla  gioja 
Schiudete  il  cor  : poscia , chi  siete,  udremo. 
De’vustri  ]>adri  non  b’estinse  il  nome, 

E da  scettrati  Be  voi  discendete.  80 

Piante  colali  di  radice  vile, 

Sia  loco  al  vero,  germogliar  non  ponno. 

Detto  così,  l’abbiustolato  tergo 
Di  pingue  bue,  che  ad  onor  grande  innanzi 
Messo  gli  aveaii,  d’in  su  la  mensa  tolse, 

E innanzi  il  mise  agli  ospiti,  che  pronte 
Steser  le  mani  all’imbandita  fera. 

Ma  de’cibi  U dcsii  psgo,  e de  tini, 


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>9 


LIBRO  QUARTO. 


Telemaco,  piegando  in  ver  l’amico 

^>i,  che  altri  udirlo  non  potesse,  il  capo,  90 

Tale  a lui  favellò  ; Mira,  o diletto 

Dtill’alma  mia,  figlio  di  Nestor,  come 

Di  rame,  argento,  avorio,  elettro,  ed  oro 

L’echeggia n te  magion  risplende  intorno! 

Sì  fatta,  io  credo,  è dell’Olimpio  Giove 
L'aula  di  dentro.  Oh  grinfiniti  oggetti! 

Io  maraviglio  più,  quanto  più  guardo. 

L’intese  il  Re  di  Sparta,  e ad  ambo  disse: 
Figliuoli  miei,  chi  gareggiar  mai  puote 
De’ mortali  con  Giove?  11  suo  palagio,  100 
Ciò,  ch’ei  dentro  vi  serba,  eterno  è tutto. 
Qnanto  all'umana  stirpe,  altri  mi  vinca 
Di  beni,  o ceda,  io  so,  che  molti  aftanui 
Durati,  e molto  navigato  mare, 

Queste  ricchezze  l’ottavo  anno  addussi. 

Cipri,  vagando,  e la  Fenicia  io  vidi, 

£ ai  Sidonj , agli  Egizj , e agii  Etiopi 
Giunsi,  e agli  Ercmbi,  e in  Libia, ove  le  agnclle 
Figlian  tre  volte  nel  girar  d’un  anno, 

E spuntan  ratto  gli  agneilin  le  corna;  ito 
Kè  signore,  o pastor  giammai  difetto 
Di  carni  paté,  o di  rappreso  latte. 

Ridondano  di  latte  ognora  i vasi. 

Mentr’io  vagava  qua  e là  , tesori 
Raccogliendo,  il  tratello  altri  m’uccise 
Di  furto,  aH’improvvista,  e per  inganno 
Delia  consorte  maladetta  : quindi 
Non  lieto  io  vivo  a questi  beni  in  grembo. 

Voi , quai  sieno,  ed  ovunque,  i padri  vostri. 
Tanto  dalla  lor  bocca  udir  doveste.  lU'» 

Che  non  soffersi?  Ruinai  dal  fondo 
Casa  di  ricchi  arredi,  e d’agi  colma. 

Onde  piacesse  ai  Dei , che  sol  rimasta 
Mi  fosse  in  man  delle  tre  parti  l’una, 

E spirasser  le  vive  aure  que’ prodi, 

Che  lungi  dalla  verde  Argo  ferace 
Ne’lati  campi  d’Iliòn  perirò! 

Tutti  io  li  piango,  ft  li  sospiro  tolti. 

Standomi  spe.sso  ne’ miei  tetti  assiso, 

E or  mi  pasco  di  cure,  or  nuovamente  i5<< 
Piglio  conforto:  chè  non  puote  a lungo 
Viver  l’uom  di  tristezza,  e al  fin  molesto 
Torna  quel  pianto,  che  fu  io  pria  si  dolce; 
Pure  io  di  tutti  in  un  cosi  non  ni’ango, 

E m'ango  assai , come  d’un  sol , che  ingrato 
Mi  rende,  ove  a lui  penso,  il  cibo,  e il  sonno 
Poiché  Greco  nessuno  in  tutta  l'oste, 

O il  bene  oprando,  o sostenendo  il  male, 
Pareggiò  Ulisse.  Ma  dispose  il  fato, 

Ch’ei  tormentasse  d’ogni  tempo,  e ch’io  i/,o 
Mesti  per  sua  cagion  traessi  i giorni. 

Io,  che  noi  veggio  da  tanti  anni,  e ignoro. 

Se  viva,  o morto  giaccia.  Il  piange  intanto 
Laerte  d’età  pieno,  e la  prudente 
Penelope’,  e Telemaco,  cne  il  padre 
Lasciò  lattante  ne’ suoi  dolci  alberghi. 

Disse;  e di  pianto  subitana  voglia 
Risvegliossi  in  Telemaco,  che  a terra 
Mandò  lagrime  giù  dalle  palpébre. 

Del  padre  udendo,  ed  il  purpureo  manto  i5o 
Con  le  mani  s’alzò  dinanzi  al  volto. 

Menelao  ben  comprese;  e se  a lui  stesso 
Lasciar  nomare  il  padre,  o interrogarlo 
Dovesse  pria,  nè  serbar  nulla. in  petto, 


Sì,  e no  tenzonirvangll  nel  capo. 

Mentre  così  fra  due  stava  l’Atrido, 

Elena  dall’eccelsa,  e profumata 
Sua  stanza  venne  con  le  fide  ancelle. 

Che  Diana  parea  diiU’arco  d’oro. 

Bel  seggio  Adrasta  awicinolle,  Alclppe  j6o 
Tappeto  in  man  di  molle  lana,  e Filo 
Panier  rec.ava  di  forbito  argento, 

Don  già  d’Alcandra,  della  moglie  illustre 
Del  fortunato  Polibo,  che  i giorni 
Nella  ricca  menava  Egizia  Tebe. 

A Menelao  due  conche  argentee,  due 
Tripodi,  e dieci  aurei  talenti  ei  diede. 

Ma  la  consorte  ornar  d’eletti  doni 
Elena  volle  a parte  : mia  leggiadra 
Conocchia  d’òr  le  porse,  ed  il  paniere  170 
Ri  tondo  .sotto , e di  forbito  argento. 

Se  non  quanto  le  lablira  oro  giieriiia. 

Questo  ricolmo  di  sudato  stame 
L'ancella  Filo  le  recava,  e sopra 
Vi  riposava  la  conocchia,  a cui 
Fini  si  ravvolgean  purpurei  velli. 

Ella  raccolta  nel  suo  seggio,  e posti 
Sul  pulito  .sgabello  i molli  piedi, 

Con  questi  accenti  a Menelao  si  volse: 

Sappiam  noi,  Menelao  di  Giove  alunno,  180 
Chi  sieno  i due,  che  ai  nostri  tetti  entraro? 
Parlar  m’è  forza,  il  vero,  o il  falso  io  dica: 
Però  ch’io  mai  non  vidi,  e grande  tieniiui 
Nel  veder  maraviglia,  uomo,  uè  donna 
Così  altrui  .somigliar,  come  d’Uli.s.se 
Somigliar  dee  questo  garzone  al  figlio. 

Ch’era  bambino  ancor,  quando  per  colpa 
Ahi!  di  me  svergognata,  o Greci , a Troja 
Giste,  accendendo  una  sì  orrenda  guerra. 

Tosto  l’Atride  dalla  bionda  chioma:  190 

Ciò,  che  a te,  donna,  a me  pur  .sembra.  Quelle 
Son  d’UlI.sse  le  mani,  i piè  son  quelli, 

E il  lanciar  degli  sgnarai,  e il  capo,  e il  crine. 
Io,  l’itaccse  rammentando  , i molti 
Dicea  disagi,  ch’ei  per  me  .sostenne; 

E il  giovane  piovea  lagrime  amare 
Giù  per  le  guance,  e col  purpureo  manto. 

Che  alzò  ad  ambe  le  man  , gli  occhi  celava. 

E Pisistrato  ajlor  : Nato  d’Atrèo, 

Di  Giove  alunno , Condottier  d’armati,  3oo 
Eccoti  appunto  di  quel  Grande  il  figlio. 

Ma  verecondo  per  natura,  e giunto 
Novellamente  , gli  parrebbe  indegno 
Te  delle  voci  tue  fermar  nel  corso. 

Te,  di  cui,  qual  d’iin  Dio,  ci  lieano  i delti. 
Nestore,  U vecchio  genitor,  compagno 
Mi  fece  a lui , che  rimirarti  in  faccia 
Bramava  forte,  onde  poter  dell’opra 
Giovarsi,  o almen  del  tuo  consiglio.  Tutti 
Qiie’guaijCheiin figliiiol soll’re, acni  luntujiu  210 
Dimora  il  padre,  nè  d’altronde  giungle 
Sussidio  alcun,  Telemaco  li  prova. 

Il  genitor  gli  làila,.  e non  gli  rosta 
Chi  dal  suo  fianco  la  .sciagura  .scacci. 

Numi!  riprese  il  Re  dai  biondi  crini,. 

Tra  le  mìe  stesse  mura  il  figlio  adunque 
D’uomo  io  veggio  amicissimo,  che  seinpee 
Per  me  s'espose  ad  ogni  rischio?  Ub.ssc 
Ricettare  io  pensava  entro  i miei  regni,. 

Io  carezzarlo  sovra  tutti  i Gjrcci, 


220 


30 


O D I 

Se  ad  ambo  ritornar  8U  i cavi  legni 
jL’Oliinpio  dava  onniveggente  Giove. 

Una  io  cedere  a lui  delie  vicine 
Volea  cittadi  Àrgivct  ov’io  comando, 

!E  lui  chiamar,  cne  dai  nativi  sa:ìsi 
D’Itaca  in  quella  mia,  ch'io  prima  avrei 
D'uomini  vota,  e di  novelli  ornata 
3VIuri,  e paiagi,  ad  abitar  venisse 
Coi  figlio,  le  sostanze,  e il  popol  tutto. 

Così,  vivendo  sotto  un  cielo,  e spesso  35o 
X.'un  l’altro  visitando,  avremmo  i dolci 
l'rutti  raccolti  d’amistà  si  fida: 

l’un  dall’altro  si  saria  disgiunto. 

Che  steso  non  si  fosse  il  negro  velo 
Di  Morte  sovra  noi.  Ma  un  tanto  bene 
Oiove  c’iiividì'ò,  cui  del  ritorno 
Piacque  fraudar  quell’infelice  solo. 

Sorse  in  ciascuno  a tai  parole  un  vivo 
Di  lagrime  desio.  Viangea  la  iigìia 
Di  Giove,  l'Argiva  Klena,  piangea  340 

D’Ulisse  il  figlio,  ed  il  secondo  Atride; 

asciutte  avea  Pisistrato  le  guance, 

Che  il  fratello  iocolpabitc,  cui  morte 
Diè  dell'Aurora  la  lamosa  prole, 

Tra  sè  membrava , e che  tai  detti  sciolse: 
'Atride,  il  vecchio  Nestore  mio  padre 
Te  di  prudenza  singoiar  lodava, 

Sempre  che  in  mezzo  al  ragionare  alterno 
Il  tuo  nome  venia.  Fa,  se  di  tanto 
Pregarti  io  posso,  oggi  a mio  senno.  Poco  260 
Me  dilettan  le  lagrime  tra  i nappi. 

Ma  del  mattili  la  figlia  il  nuovo  giorno 
Picoiidurrà;  nè  mi  lia  grave  allora 
pianger  chiunque  al  suo  desijii  soggiacque: 

Che  solo  un  tale  onore  agl’infelici 
Defunti  avanza,  che  altri  il  crin  si  tronchi, 

E alle  lagrime  giuste  allarghi  il  freno. 

Anco  a me  tolse  la  rea  Parca  un  frate, 

Che  l’ultimo  non  fu  dell’oste  Greca. 

Tu  il  sai,  che  il  conoscesti.  Io  nè  vederlo  3G0 
Potei,  nè  a lui  parlar  : ma  udii,  che  Antilocu 
Su  tutti  si  mostrò  gli  emuli  suoi  , 

.Veloce  al  corso,  e di  sua  man  gagliardo. 

E Menelao  dai  capei  biondi  : Amico, 

X’iiom  più  assennato,  e in  più  matura  etade, 
Che  non  è questa  tua  , nè  pensamenti 
Divcrv  avria,  nè  detti  j e ben  si  pare 
Agli  uni  e agli  altri  da  chi  tu  nascesti. 

Patto  la  prole  d'un  eroe  si  scorge, 

Cui  del  natale  al  giorno,  e delle  nozze  370 
Destinò  Giove  un  fortunato  corso, 

Come  al  Nelide,  che  invecchiare  ott^une 
Nel  suo  palagio  mollemente,  e saggi 
pigli  mirar,  non  che  dell’asta  dotti. 

Dunque,  sbandito  dalle  ciglia  il  pianto, 

Si  ripensi  alla  cena,  e un’altra  volta 
Da  pura  su  te  mani  onda  si  sparga. 

Sermoni  alterni  anche  al  novello  Sole 
Fra  Telemaco,  e me  correr  potranno, 

Disse;  ed  A.sfalione,  un  servo  attento,  280 
Spargea su  le  man  l’onda,  e i convitati 
Nuovamente  cibavansi.  Ma  in  altro 
Pensiero  allora  Elena  entrò.  Nel  dolce  ^ 
Vino,  di  cui  bevean , farmaco  infuse 
Contrario  al  pianto,  e all’ira  , e che  l’obbllo 
Seco  iiiducca  d’ugni  travaglio  e cura. 


S S E A 

Chiunque  misto  col  vermiglio  umore 
Nel  seno  il  rice\è,  tutto  quel  giorno 
Lagrime  non  gii  scorrono  dal  volto, 

Non,  se  la  madre,  o i)  geiùtor  perduto,  sqo 
Non,  se  visto  con  gli  occhi  a sè  davante 
Figlio  avesse,  o fratei  di  spada  ucciso. 

Cutai  la  figlia  dell’Olimpio  Giove 
Farmachi  insigni  possedea,  che  in  dono 
Ebbe  da  Polidamiia,  dalla  moglie 
Di  Tónfi  nell’Egitto,  ove  possenti 
Succhi  diversi  la  feconda  terra 
Produce,  quai  salubri,  e quai  mortali; 

Kd  ove  più,  che  i medicanti  altrove. 

Tutti  san  del  guarir  l’arte  divina,  5oo 

Siccome  gente  da  Peòu  discesa. 

11  Nepentfi  già  infuso,  e a servi  imposto 
Versar  dall’urne  nelle  tazze  il  vino, 

Ella  così  parlò:  Figlio  d'Atréu, 

E voi,  d'eroi  progenie,  i beni,  e i mali 
Manda  dall’alto  alternameiise  a ognuno 
L’onnipossente  Giove.  Or  pasteggiate 
Nella  magione  assisi,  e de’>ermoni 
Piacer  prendete  in  pasteggiando,  mentre 
Cose  io  racconto,  che  saranno  a tempo.  3io 
Non  già  ch’io  tutte  le  fatiche  illustri 
Kieordar  sol  del  paziente  Ulisse 
Fossa,  non  che  narrarle  : una  io  ne  scelgo, 
Chea  Troja,  onde  gran  duol  venne  agli  Argivi, 
L’uom  forte  imprese,  e a fin  condusse.  Il  corpo 
Dì  sconce  piaghe  afìlisse,  in  rozzi  panui 
S’avvolse,  c penetrò  nella  nemica 
Citlade  occulto,  e dì  mendico,  e schiavo 
Le  sembianze  portando,  ei , che  de’Greci 
Si  diverso  apparta  lungo  le  navi.  620 

Tal  si  gittò  nella  Trojana  terra, 

N'è  conoscealo  alcuno.  Io  fui  la  sola. 

Che  il  ravvis.ni  sotto  l’estranie  forme, 

K tentando  l’andava;  ed  ei  pur  sempre 
Da  me  schcrmiasi  con  l’usato  ingegno. 

Ma  come  asperso  d’onda,  unto  d’oliva 

L’ebbi,  e di  veste  cinto,  ed  affidato 

Con  giuramento,  che  ai  Trojani  prima 

No)  manifesterei,  che  alle  veloci 

Navi  non  fosse,  ed  alle  tende  giunto,  33u 

Tutta  eì  m’aperse  degli  Achei  la  mente. 

Quindi,  passati  con  acuta  spada 

Molti  petti  nemici,  all’oste  Argiva 

Col  vanto  si  rendè  d'alta  scaltrezza. 

Stridi  mettean  le  dorme  Iliache,  ed  urli: 

Ma  io  gioia  tra  me;  thè  gli  occhi  a Sparta 
Già  rivolgeansi,  e il  core,  e da  me  il  tallo 
Si  piagneva,  in  cui  Venere  mi  spinse, 

Quando  staccommi  dalla  mia  contrada. 

Dalla  dolce  figliuola,  e dal  pudico  340 

Talamo,  e da  un  consorte,  a cui,  saggezxa 
Si  domandi;  o beltà,  nulla  mancava. 

Tutto,  l’Atride  dalla  crocea  chioma. 

Dicesti,  o donna,  giustamente.  Io  terra 
Molta  trascorsi,  e penetrai  col  guardo 
Di  molti  eroi  nel  sen  : ma  pari  a quella 
Del  paziente  Ulisse  alma  io  non  vidi. 

Quei , che  oprò,  basti,  e che  sostenne  in  grembo 
l3el  cavallo  intagliato,  ove  sedea, 

Strage  portando  ad  Ilio,  il  fior  de’Greci.  35o 
Sospinta,  io  credo,  da  un  avverso  Nume, 

Cui  la  gloria  de' Teucri  a cote  stava. 


31 


LIBRO  Q 

Là  tu  giungesti,  e uguale  a un  Dio  nel  volto 
Su  Torme  tue  Deifobo  venia. 

Ben  tre  fiate  al  cavo  agguato  intorno 
T’aggirasti  ; e il  palpavi,  e a nome  i primi 
Chiamavi  degli  Achei,  contrafTacendo 
Delle  ior  donne  le  diverse  voci. 

Nel  mezzo  assisi  io,  Diomede,  e Ulisse 
Chiamar  ci  udimmo;  e il  buon  Titide,ed  io  56o 
Ci  alzammo,  e dì  scoppiar  fuor  del  cavallo, 

0 dar  risposta  dal  profondo  ventre, 

Ambo  presti  eravam  : ma  noi  permise, 

£,  benché  ardenti,  ci  contenne  Ulisse. 

Tacessi  ugni  altro,  iuorchè  il  solo  Anticlo, 

Che  risponder  voleati;  e Ulisse  tosto 

La  bocca  gli  calcò  con  le  robuste 
Mani  inchiodate,  nè  cessò,  che  altrove 
Te  rìmenato  non  avesse  Falla. 

SI  dì  tutta  la  Grecia  ei  fu  salute.  070 

£ ciò  la  doglia,  o Menelao,  m’accresce, 
Ripigliava  il  garzone.  A che  gli  valse 
Tanta  virtù,  se  non  potea  da  Morte 
DUenderlo,  non  che  altro,  un  cor  di  ferro? 

Ma  deh!  piacciavi  ornai,  che  ritruviamo 
Dove  posarci,  acciò  su  noi  del  sonno 
La  dolcezza  inelfabile  discenda. 

Si  disse;  e FArgiva  £Jena  alTancelle 

1 letti  apparecchiar  sotto  la  loggia, 

Belle  gittarvi  porporine  coltri,  S80 

£ tappeti  distendervi,  e ai  tappeti 
Manti  vellosi  sovrapporre,  ingiunse. 

Quelle,  tenendo  in  man  lucide  faci, 

Uscirò,  e i letti  apparecchiaro  : innanzi 
Movea  l’araldo,  e gii  ospiti  guidava. 

Cosi  nell’atrio  s’adagiaro  entrambi: 

Nel  più  interno  corcavasi  l’Atride, 

£ la  divina  tra  le  donne  £léna 
li  sinuoso  peplo,  ond'era  cinta, 

Dcpuse,  e giacque  del  consorte  a lato.  S90 
Ma  come  del  mattin  la  bella  figlia 
R»bbellì  il  ciel  con  le  rosate  dita, 

Menelao  sorse,  rivestissi,  appese 
Fer  lo  pendaglio  all’omero  la  spada, 

£ i bei  calzar  sotto  ì piè  molli  avvinse: 
l’oi,  somigliante  m ll  aspetto  e un  Nume, 
L^asciò  la  stanza  rapido,  e s’assise 
Di  Telemaco  al  fianco;  e,  Qual,  gli  disse. 
Cagione  a Sparta  su  Timmenso  tergo 
Del  nigro  mar,  Telemaco,  t’addusse?  400 
Fubblico  aflàre,  o tuo?  Schietto  favella. 

£ in  risposta  il  garzon:  Nato  d'Alróo, 

Per  risaper  del  genitore  io  venni. 

In  dileguo  ne  van  tutti  i miei  beni, 

Colpa  una  gente  nequitosa,  e audace, 

Che  gli  algenti  divorami,  e le  gregge, 

£ ingombra  sempre  il  mio  palagio,  e anela 
Della  madre  alle  nozze.  Io  quindi  abbraccio 
Le  tue  ginocchia,  e da  te  udir  m’aspeito, 

O visto,  o su  le  labbra  inteso  l’abbi  410 

D’un  qualche  viandante,  il  tristo  fine 
De)  padre  mio,  che  sventurato  assai 
Della  sua  genitrice  usci  dal  grembo. 

Nè  timore,  o pietà  così  t’assalga. 

Che  del  ver  parte  ti  rimanga  in  core. 

Venne  mai  dal  mio  padre  in  opra,  o in  detto, 
Bene,  o cominodo  a te  là  ne'Trojani 
Campi  del  sangue  della  Grecia  tiuti? 


U A R T O. 

Ecco  di  rimembrarlo,  Airide,  il  tempo. 

Trasse  il  Monarca  dai  capei  dì  croco  430 
Un  profondo  sospiro,  e,  Ohimè,  rispose, 
Volean  d’un  eroe  dunque  uomini  imbellì 
(iiacer  nel  letto?  Qual  se  incanta  cerva, 

1 cerbiatti  suoi  teneri  e lattanti 
Deposti  in  tana  di  leon  feroce, 

Cerca,  pascendo,  i gioghi  erti,  e Ferbose 
Valli  profonde;  e quel  feroce  intanto 
Riede  alla  sua  caverna,  e morte  ai  figli 
Torta,  e alla  madre  ancor  : non  altrimenti 
Foriera  morte  ai  concorrenti  Ulisse.  4^0 
Kd  oh  piacesse  a Giove,  a Febo,  e a Falla, 

Che  qual  si  levò  un  dì  contra  il  superbo 
Kilomelide  nella  forte  Lesbo, 

E tra  le  lodi  degli  Achivi  a terra 
Con  mano  invitta,  lotteggiando,  il  pose. 

Tal  costoro  aH'rontassel  Amare  nozze 
Foran  le  loro,  e la  lor  vita  un  punto. 

Quanto  a ciò,  che  mi  chiedi,  io  tutte  intendo 
Schiettamente  narrarti,  e senza  inganno. 

Le  arcane  cose,  ch’io  da  Proteo  appresi,  440 
Dal  marino  vecchiori,  che  mai  non  mente. 

Me,  che  alla  patria  ritornar  bramava, 
Presso  l’Egitto  ritenean  gii  Dei, 

Perchè  onorati  io  non  gli  avea  di  sacre 
Ecatombi  legittime;  chò  sempre 
L’obblio  de’  lor  precetti  i Numi  offese. 

Giace  contra  l’Egitto,  e alFonde  in  mezzo, 
Uii’isoletta , che  s’appella  Faro, 

Tanto  lontana,  quanto  correr  punte 

Fer  un  intero  dì  concavo  legno,  4S0 

Cui  stridulo  da  poppa  il  vento  spiri. 

Forto  acconcio  vi  s’apre,  onde  il  nocclileio, 
Poscia  che  Facqua  non  salata  attinse, 
P'acilmente  nel  mar  vara  la  nave. 

Là  venti  dì  mi  ritenean  gli  Dei: 

Nè  delle  navi  i condottieri  amici 
Comparver  mai  su  per  Fazzurro  piano. 

Le  immobili  acque  ad  increspar  col  fiato. 

K già  con  le  vivande  anco  gli  spirti 

Per  fermo. ci  falliaii,  se  una  Dea,  fatta  ^ 461» 

Di  me  pietosa,  non  m’apria  io  scampo, 

Idoiéa,  dei  maria  vecchio  la  figlia, 

Cui  fieramente  in  sen  l’alma  io  commossi. 
Occorse  a me,  che  solitario  errava, 

Mentre  i compagni  dalla  fame  strettì 
Giravan  Fisoletta,  ed  i ricurvi 
Ami  gettavan  qua  e là  nell'onde. 

Forestier,  disse,  come  fu  vicina, 

Sei  tu  del  senno,  e del  giudicio  in  bando, 

O degli  aiFanoi  tuoi  prendi  diletto,  470 

Che  così,  a un  ozio  volontario  in  preda, 
Nell’isola  t’indugi,  e via  non  trovi 
D'uscirne  mai?  Langue  frattanto  il  core 
De’tuoi  compagni,  e sì  consuma  imlaruo. 

O qual  tu  Sii  delle  immortali  Dive, 

Credi,  io  le  rispondea,  che  da  me  venga 
Così  lungo  indugiar?  Vien  dai  beati 
' Del  vasto  cielo  abitatori  eterni, 
j Ch’io  temo  aver  non  leggiermente  ofTesL 
I Deh,  poiché  nulla  si  nasconde  ai  Numi,  4Bo 
; Dimmi,  qual  è di  lor,  che  qui  m’arresUi, 

' E il  mar  ^>es€Oso  mi  rinserra  intorno. 

E repente  la  Dea:  Forestier,  nulla 
I Celarti  io  U prometto.  U uon  bugiardo 


12 


ODISSEA 


Soggiorna  in  queste  parti  Egizio  teglio, 
Xi'immortal  Proteo,  mìo  creduto  padre, 

Che  i fondi  tutfi  del  gran  mar  conosce, 

B obbedisce  a Nettuno.  £i  del  viaggio 
Ti  mostrerà  le  strade,  e del  ritorno, 

Dove,  stando  in  agguato,  insignorirti  49^) 
Di  lui  tu  possa.  £ quello  ancor,  se  il  brami» 
Saprai  da  lui,  che  di  felice,  o avverso 
Nella  casa  Pentrò,  finchò  lontano 
Per  vie  ne  andavi  perigliose  e lunghe. 

Ma  tu  gli  agguati,  io  replicai,  m'insegna, 
Ond'iocosì  improvviso  a Proteo  arrivi, 

Cli’ei  non  mi  stugga  delle  mani.  Un  nume 
Diflìcilmente  da  un  mortai  si  doma. 

Questo  avrai  pur  da  me,  la  Dea  riprese. 
Come  salito  a mezzo  cielo  è il  Sole,  5oo 

S’alza  il  vecchio  dirin  dal  cupo  fondo, 

£ uscito  della  bruna  onda , che  il  vento 
Occidentale  increspagli  sul  capo, 

S'adagia  entro  i suoi  cavi  antri,  e s’addorme. 
£ spesse  a lui  dormon  le  foche  intorno, 
Deforme  razza  dì  Àlosidoa  bella, 

Già  pria  dell’onda  uscite,  e il  grave  odore 
Lunge  spiranti  del  profondo  mare, 
lo  te  là  guiderò,  te  acconciamente 
Collocherò,  ratto  che  il  di  s’inalbi:  5io 

Ma  di  quanti  compagni  appo  la  nave 
Ti  sono,  eleggi  ì tre,  che  tu  più  lodi. 

Ecco  le  usanze  del  vegliardo,  e Parti: 

Pria  noverar  le  foche  a cinque  a cinque, 
Visitandole  tutte;  indi  nel  mezzo 
Corcarsi  anch'ei,  quasi  pastor  tra  il  gregge. 
Vistogli  appena  nelle  ciglia  il  sonno, 
Ricordatevi  allor  sol  della  forza, 

£ ini,  che  molto  si  dibatte,  e tenta 
Guizzarvi  delle  man,  fermo  tenete.  òi  > 

£i  d’ogni  belva , che  la  terra  pasce, 

Vestirà  le  sembianze,  e in  acqua,  e in  foco 
Si  cangerà  di  portentoso  ardore; 

£ voi  gli  fate  delle  braccia  nodi 
Sempre  più  indissolubili  e tenaci. 

Ma  quando  interrogarti  al  fin  Pudrai, 

Tal  mostrandosi  a te,  quale  sdrajo^i, 
Tuccsssa,  o prode,  dalla  forza,  e il  vecchio 
Sciogli,  e sappi  da  lui , chi  è tra  Ì Numi, 

Che  ti  contende  la  natia  contrada.  53o 

Disse,  e nelle  fiottanti  onde  s'immerse. 

Io  combattuto  da  pensier  diversi 
Colà  n’andai,  dove  giacean  del  mare 
Su  la  sabbia  le  navi,  a cui  da  presso 
La  cena  in  fretta  s’apprestò.  Sorveonc 
pres'tosa  notte,  e noi  sul  lido 
Ci  addormentammo  al  mormorio  delPacque. 
Ma  poiché  del  mattìn  la  bella  figlia 
Coiisperse  il  ciel  d’Orventali  rose, 

Lungo  il  lido  io  movea,  molto  ai  Celesti  540 
Pregando,  e ì tre,  nel  cui  valor  per  tutte 
Le  men  facili  imprese  io  più  fidava, 

Conducea  meco.  Deessa  intanto 
Dal  seno  ampio  del  mare,  in  ch’era  entrata. 
Quattro  pelli  recò  del  corpo  tratte 
Novellamente  di  altrettante  foche; 

£ tramava  con  esse  inganno  al  padre. 

Scavò  quattro  covili  entro  l'arena; 

Quindi  s’assise , c ci  attendea.  Noi  presso 
Ci  femiuo  a lei,  che  subito  Icvussi»  56o 


£ noi  dispose  ne' scavati  letti, 

E i cuoi  recenti  uè  addossò.  Moleste 
Le  insidie  ivi  tornavano  : chè  troppo 
Nojava  delle  foche  in  mar  nutrite 
L’orrendo  purzo.  £ chi  a marina  belva 
Può  giacersi  vicin?  Se  non  che  al  nostro 
Stato  provvide  la  cortese  Diva, 

Che  ambrosia,  onde  spirava  alma  fragranza, 
Vrenneci  a por  sotto  le  afflitte  nari, 

Cui  del  mar  più  non  giunse  il  grave  odore.  660 

Tutto  il  mattino  aspettavam  con  alma 
Porto,  e costante.  Le  deformi  foche 
Dell'onde  uscirò  in  frotta,  e a mano  a mano 
Tutte  sì  distendevano  sul  lido. 

Uscio  sul  mezzogiorno  il  gran  vegliardo, 

E trovò  foche  corpulente  e grasse, 

Che  attento  annoverò.  Contò  noi  prima. 

Nè  di  frode  parca  nutrir  sospetto. 

Ciò  fatto,  et  pur  nella  soa  grotta  giacque. 

Ci  avventammo  con  grida,  e le  robuste  670 
Braccia  al  vecchio  dìvìn  gittammo  intorno, 

Che  Parti  sue  non  obbliò  in  quel  punto. 

Leone  apparve  di  gran  giubba,  e in  drngo 
Voltossi,  ed  in  pantera,  e in  verro  enorme, 

E corse  in  onda  liquida,  e in  sublime 
Pianta  chiomata  verdeggiò.  Ma  noi 
11  tenevam  fermo  più  sempre.  Allora 
L’astuto  veglio,  che  nel  petto  stanco 
Troppo  sentiasi  ornai  stringer  lo  spirto, 

Con  questa  voci  interrogommi  : Atride,  bSo 
Qual  fu  de’Numi,  che  d’insidiarmi 
Ti  diè  il  consiglio,  e di  pigliarmi  a forza? 

Di  che  mestieri  hai  tu?  Proteo,  io  risposi, 

Tu  il  sai.  Perché  il  dimandi , e ancor  t’infingi? 
Sai, che  gran  tempo  l’isoletta  tiemmi. 

Che  scampo  quinci  io  non  ritrovo,  e sento 
Distruggcrmisi  il  core.  Ah  dimmi,  quando 
Nulla  celasi  ai  Dei,  chi  degli  Eterni 
M’inceppa,  e mi  rinchiude  il  mare  intorno. 

Non  dovevi  salpar,  riprese  il  Dio,  5qo 
Che  onorato  pria  Giove,  e gli  altri  Numi 
Di  sagrifìci  non  avessi  opimi, 

Se  in  breve  al  natio  suol  giungere  ardevi. 

Or  la  tua  patria,  degli  amici  il  volto, 

E la  magion  ben  fabbricata  il  fato 
Riveder  non  ti  dà,  dove  tu  prima 
Del  fiume  Egitto,  che  da  Giove  scende, 

Non  risaluti  la  corrente,  e porgi 
Ecatombe  perfètte  ai  Dii  beati, 

Che  il  bramato  da  te  mar  t'apriranno.  600 

A lai  parole  mi  s’infranse  il  core, 

Udendo  , che  d’Egitto  in  su  le  rive 
Ricondurmi  io  duvea  per  gli  atri  flutti, 

Lunga,  e difhcil  via.  Pur  dissi  : Vecchio, 

Ciò  tutto  io  compierò.  Ma  or  rispondi, 

Ti  priego,  a questo,  e schiettamente  parla: 
Salvi  tornaro  co’  veloci  legni 
Tutti  gli  Achivi,  che  lasciammo  addietro, 
Partendo  d’iliòn,  Nestore,  ed  io? 

O peri  alcun  d’inopinata  morte  5io 

Nella  sua  nave,  o ai  cari  amici  in  grembo. 
Posate  Tarmi,  per  cui  Troja  ca<lde? 

Atride,  ei  replicò,  perché  tal  cosa 
Mi  cerchi  tu?  Quel,  ch’io  nell’alnia  chiudo, 
Saper  non  fa  per  tc,  cui  senza  pianto. 

Tosto  che  a te  palese  il  tutto  ila. 


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LIBRO  QUARTO 


Non  rimarrà  lunga  «tapione  il  cìglio. 

Molti  colpì  rinesorabil  Parca, 

K multi  non  toccò.  Due  soli  Duci 
Ue’vestiti  di  rame  Achei  guerrieri  Ciò 

Morire «el  ritomoi  e ritenuto 
Del  vasto  mar  nel  seno  un  terzo  vive. 

Ajace  ai  legni  suoi  dai  lunghi  remi 
Perì  vicino.  Dilivrato  In  prima 
DalTonde  grosse,  e su  gli  enormi  assiso 
Girci  macigni,  a cui  Nettun  lo  spinse, 

Potea  scampar,  benché  a Minerva  in  ira, 

»Se  non  gli  usci  a di  bcKca  un  orgoglioso 
Motto,  che  assai  gli  nocque.  Oj^ò  vantarsi, 

Che  in  dispetto  agli  Dei  vincer  del  mare  65o 
Le  tempeste  varria.  Nettuno  udillo 
Uoriaute  in  tal  guisa,  e col  tridente, 

Che  ili  maii  di  botto  si  piantò,  percosse 
La  Giréa  pietra , e in  due  spezzolla  ; Luna 
Colà  restava,  e Paltra,  ove  sedea 
Della  percossa  travagliato  il  Duce, 

Si  rovesciò  nel  pelago,  e il  portava 
Pel  burrascoso  mare,  in  cui,  bevuta 
Molta  salsa  onda,  egli  perdeo  la  vita» 

11  tuo  fratello  cui  iavor  dì  Giuuo  640 

Morte  sfuggì  nella  cavata  nave. 

Ma  come  avvicinossì  all’arduo  capo 
Della  Maléa,  fiera  tempesta  Ìl  colse, 

E tra  profondi  gemiti  portollo 
Sino  al  confin  della  campagna,  dove 
Tieste  un  giorno,  e allora  Egisto,  il  figlio 
Di  Tieste,  abitava.  E quinci  ancora 
Parca  sicuro  ìl  ritornar  : che  i Numi 
Voltar  subito  il  vento,  e in  porto  entrare 
Oli  stanchi  legni.  Agamennón  di  gioja  65o 
Colmo  gittossi  nella  patria  terra, 

E toccò  appena  la  sua  dolce  terra, 

Che  a baciarla  chinossi,  e per  la  guancia 
Molte  gli  discorrean  lagrime  calde, 

Perche  la  terra  sua  con  gioja  vide. 

Ma  il  discoprì  da  una  scoscesa  cima 
L’esplurator,  che  ìl  fraudolento  Egisto 
Con  promessa  di  due  talenti  d’oro 
Piantato  aveavi.  Ei,  che  spiando  stava 
Dall’eccelsa  veletta  un  anno  intero,  660 

Non  trapassasse  ignoto,  c forse  a guerra 
Intaleutato  il  tuo  fratello,  corse 
Con  l’annuzio  al  Signor,  che  un’empia  frode 
Repente  ordì.  Venti,  e i più  forti,  elesse, 

K in  agguato  li  mise,  e imbandir  feo 
Mensa  festiva  : indi  a invitar  con  pompa 
Di  cavalli  e di  cocchi  andò  l’Atride, 

Cose  orrende  pensando,  e il  ricondusse, 

PI  accolto  a mensa  lo  scannò , qual  toro, 

Cui  scende  su  la  testa  innanzi  al  pieno  670 
Presepe  suo  l’inaspettata  scure. 

Non  vìsse  d’Aganieuuone , o d’Egisto 
(ìolo  un  compagno:  ma  di  tutti  corse 
Confuso,  e misto  nel  palagio  il  sangue. 

£ a me  scfiiantossi  il  core  a queste  voci. 
Pianto  io  versava  su  l’arena  steso. 

Nè  più  mirar  del  Sol  volea  la  luce. 

Ma  come  di  plorar,  di  voltolarmi 
Sovra  il  nudo  terrea  sazio  gli  parvi, 

Tal  seguitava  il  non  mendace  vecchio:  6S0 

Resta,  o figlio  d’Àtréo,  dalPinfinite 
Lagrime  per  un  mal,  che  ornai  compenso 


a3 

Non  paté  alcuno,  e t’argomenta  in  vet  o 
Più  veloce,  che  puoi,  riedere  in  Argo. 
Troverai  vivo  ne’ suoi  tetti  Egisto 

0 l’avrà  poco  dianzi  Oreste  ucciso, 

E tu  al  funébre  assisterai  banchetto. 

Disse;  e di  gioja  un  improvviso  raggio 
Nel  mio  cor  balenava.  Io  già  d’Ajace, 

Risposi,  e del  fratello,  assai  compresi.  6^0 
Chi  c quel  terzo,  che  il  suo  reo  destino 
Vivo  nel  sen  del  mare,  o estinto  forse. 
Ritiene?  Io  d'udir  temo,  e bramo  a un  tempo. 

E nuovamente  il  non  bugiardo  veglio: 
D’Itaca  il  Re,  cho  di  Laerte  nacque. 

Costui  dirotto  dalle  ciglia  il  pianto 
Spargere  io  vidi  in  solitario  scoglio, 

Soggiorno  di  Calipso,  inclita  Ninfa, 

Che  rimandarlo  mega;  ond’ei,  cui  solo 
Non  avanza  un  naviglio,  e non  compagni, 700 
Che  il  trusportin  del  mar  su  l’ampio  dorso. 
Star  gli  convieii  della  sua  patria  in  bando. 

Ma  tu,  tu,  Menelao,  di  Giove  alunno. 

Chiuder  gli  occhi  non  dei  nella  nutrice 
Di  cavalli  Argo  : chè  noi  vuole  il  fato. 

Te  nelPEllsio  campo,  ed  ai  cunfini 
Manderan  della  terra  i Numi  eterni, 

Là  've  risiede  Radaroauto,  e scorre 
Senza  cura,  o pensiero,  all’uom  la  vita, 
j Neve  non  mai,  non  lungo  verno, o pioggia  710 
Regna  colà  ; ma  di  Favonio  il  dolce 
Fiato,  che  sempre  l'Oceano  invia, 

Que’ fortunati  abitator  rinfresca. 

Perchè  ad  Eiena  sposo,  e a Giove  stesso 
Genero  sei,  tal  sortirai  ventura. 

Tacque,  e saltò  nel  mare,  e il  mar  l’ascose. 

10  da  vai)  pensier  Palma  turbalo 
Movea  co* prodi  amici  in  ver  le  navi. 

La  cena  s'apprestò.  Cadde  la  notte 
Dell’uom  ristoratrice,  c noi  del  mare  720 
Ci  addormentammo  sul  tranquillo  lido. 

Ma  del  mattìn  la  figlia  ebbe  consperso 
Di  rose  Orientali  appena  il  cielo, 

Che  nel  divino  mar  varammo  i legni 

D’uguali  sponde  armati,  e con  le  vele 

Gli  alberi  al2:ammo  : entrare , c sovra  i banchi 

1 compagni  sedettero,  ed  assìsi 
Co’  remi  percoteao  Pondo  spumose. 

Del  fiume  Egitto,  che  da  Giove  scende, 
Un’altra  volta  alPabborrita  foce  73o 

Io  fermai  le  mie  navi,  e giuste  ai  Numi 
Vittime  otlérsi,  e iie  placai  lo  sdegno. 

Eressi  anco  al  germaii  tomba,  che  vivo 

In  quelle  parti  ne  serbasse  ìl  nome. 

Dopo  ciò,  rinibarcaimi,  e con  un  vento 
Che  mi  feria  dirittamente  in  poppa, 

Pervenni  fulgorando  ai  porti  miei. 

Or,  Telemaco,  via,  tanto  ti  piaccia 
Rimaner,  che  l’undccima  riluca 
NeJPOriente,  o la  duodecim’Aiba.  740 

Io  ti  prometto  congedarti  allora 
Con  doni  eletti  : tre  destrieri , e un  vago 
Cocchio,  ed  in  oltre  una  leggiadra  tazza 
Da  libare  ai  Celesti,  acciò  non  sorga 
Giorno,  che  il  tuo  pensiero  a me  non  torni. 

11  prudente  Telemaco  rispose: 

Gran  tempo  qui  non  ritenermi,  Atride. 

Non  che  a me  non  giovasse  un  anno  intero, 


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ODISSEA 


24 

La  patria,  e 1 miei  quasi  obbìiando,  teco 
Queste  case  abitar  : cbè  alla  tua  voce  75io 
L^alma  di  gioja  ricercarmi  io  sento. 

Ma  già  niuojua  di  tedio  i miei  compagni 
NeU’alta  Pilo;  e tu  m’arresti  troppo.  ^ 
Qual  siasi  il  don,  di  che  mi  vuoi  iar  lieto, 

Uu  picciol  sia  tuo  prezioso  arnese. 

Ad  Itaca  i destrieri  addur  non  penso, 

Penso  lasciarli  a te,  bello  de’tuoi 
Regni  ornamento  : perocché  signor© 

Tu  sei  d’ampie  campagne,  ove  fiorisce 
Loto,  e cipéro.,  ove  IVumentl,  e spelde,  760 
Ove  il  biaiic'orzo  d’ogni  parte  alligna. 

Ma  non  larghe  carriere;  e non  aperti 
Frati  in  Itara  vedi  : è di  caprette 
Ruona  nutrice,  e a me  di  ver  più  grata, 

Che  se  cavalli  nubili  allevasse. 

^ulla  del  nostro  mare  isola  in  verdi 
Piani  si  stende,  onde  allevar  destrieri; 

£ men  dell’altre  ancora  Paca  mia. 

Sorrise  il  forte  ne’ conflitti  Atride, 

E,  la  mano  a Telemaco  stringendo,  770 

Sei,  disse,  o figlio,  di  buon  sangue  , e a questa  | 
Tua  favella  il  dimostri.  E bene  , i doni  j 

Ti  cambierò:  farlo  poss’lo.  Di  quanto 
La  mia  reggia  contien,  ciò  darti  io  voglio, 

Che  più  mi  sembra  prezioso  e raro  : 

Grande  urna  effigiata,  argento  tutta, 

Dai  labbri  in  fuor,  sovra  cui  l’oro  splende, 

Di  Vulcano  fattura.  Io  dall'egregio 
Fedimo,  Re  di  Sidone,  un  dì  l'ebbi, 

Quando  il  palagio  suo  me,  che  di  Troja  780 
Venia;  raccolse;  e tu  n’andrai  cuu  questa. 

Così  tra  lor  si  ragionava.  Intanto 
Dell’Atride  i ministri  al  suo  palagio 
Conducean  pingui  pecorelle,  e vino 
Dì  coraggio  dator,  mentre  le  loro 
Consorti  il  capo  di  bei  veli  adorne 
Candido  pan  recavano.  In  tal  guisa 
Si  mettea  qui  l’alto  convivio  in  punto. 

Ma  in  altra  parte,  e alla  magion  davaute 
Del  magnanimo  Ulisse,  i Proci  alteri  7Q0 
Dischi  lanciavan  per  diletty,  e dardi 
Sul  pavimento  lavorato  e terso, 

Delta  baldanza  lor  solito  campo. 

Solo  i due  Capi,  che  di  forza,  e ardire 
Tutti  vìnceano,  il  pari  in  volto  ai  Numi 
£urimaco,ed  Antinoo,  erano asslsi. 

S'accostò  loro,  ed  al  secondo  vul.se 
Di  Fronio  il  figlio,  Noemòn,  tai  detti: 
Antinoo,  il  dì  lice  saper  , che  rieda 
Telemaco  da  Pilo?  £i  dipartissi  8 jo 

Con  la  mia  nave,  che  or  rerriami  ad  uopo, 

Per  tragittar  neirElide,  ove  sei 
Fasconmi,  e sei  cavalle,  ed  altrettanti 
Muli  non  domi , che  lor  dietro  vanno, 

£ di  cui,  razza  faticante,  alcuno 
Rimenar  bramo  , e accostumarlo  al  giogo. 

Stiipiano  i Prenci , che  ne’suoi  poderi 
De’montoni  al  custode,  o a quel  de'verri 
Trapassato  il  credeano  , e non  al  saggio 
Figìiuol  di  Neleo  nell’eccelsa  Pilo.  810 

Quando  si  dipartì  ? rispose  il  figlio 
D’Èuplte  , Antinoo.  £ chi  scguillo?  Scelti 
Giovani  forse  dTtaca  , o gli  stessi 
Suoi  mercenarj,  e sclilavi  ? £ osava  tanto? 


Schietto  favella.  Saper  voglio  aurora. 

Se  a mal  cuor  ti  lasciasti  il  legno  torre, 

O a lui , che  tei  chiedea  , di  grado  il  d<*$ti 

11  diedi  a lui  , che  mel  chiedea  , di  grado, 
Noemòn  ripigliò.  Chi  potrà  mai 
Con  sì  iiobii  garzone  , e sì  infelice  820 

Stare  in  sul  iiiego?  Gioventù  segiiillo 
Della  miglior  tia  il  popolo  Itacense, 

E condottier  salia  la  negra  nave 
Mentore,  o un  Dio  , che  ne  vestia  l’aspetto. 

E maraviglio  io  ben  , ch’ieri  su  l’AU>a 
Mentore  io  scorsi.  Or  come  allor  la  negra 
Nave  salì,  che  veleggiava  a Pilo? 

Disse,  e del  padre  alia  magion  si  rese. 

Atterriti  rimasero.  Cessaro 
Gli  altri  da’  giochi , e s’adagiaro  anch’essì,  85o 
E a tutti  favellò  d'Eupite  il  figlio: 

Se  gli  gonfiava  della  furia  il  core 
Di  caligine  cinto,  e le  pupille 
Nella  fronte  gliardean,  come  duo  fiamme. 
Grande  per  fermo,  e audace  impresa  è questo. 
Cui  già  nessun  di  noi  fi  de  prestava, 

Viaggio  di  Telemaco!  Un  garzone, 

Un  fanciullo  gittar  nave  nel  mare, 

Di  tanti  uomini  ad  onta , e aprire  al  vento 
Con  la  più  scelta  gioventù  Je  vele?  840 

Nè  il  male  qui  s’arresterà  : ma  Giove 
A Telemaco  pria  franga  ogni  possa, 

Che  una  tal  piaga  dilatarsi  io  reggia. 

Su  via,  rapida  nave,  e venti  remi 
A me,  sì  cn’iu  lo  apposti , e al  suo  ritórno 
Nel  golfo,  che  divide  Itaca,  e $ame, 

Colgalo;  e il  folle  con  suo  danno  impari 
L’onde  a stancar  del  genitore  in  traccia. 

Così  Antinoo  parlò.  Lodi,  e conforti 

Gli  davan  tutti  : indi  sorgeano,  e il  piede  85i> 

Neiralt©  stanze  riponean  d'Ulisse. 

Ma  de’consigli,  che  niitriano  in  mente, 
Penelope  non  fu  gran  tempo  ignara. 

Ne  la  feo  dotta  il  banditor  Medoiite, 

Che  udia  di  fuori  la  consulta  iniqua, 

E agli  orecchi  di  lei  pronto  recolla. 

Ella  noi  vide  oltrepa'^sar  la  soglia, 

Che  sì  eli  disse:  Araldo,  onde  tal  fretta? 

Kd  a che  i Proci  ti  mandare?  Forse 

Perchè  d’UlÌ5.se  le  solerti  ancelle  8G0 

Dai  lavori  si  levino,  e l’usato 

Convito  apprestili  loro?  Oh  fosse  questo 

De’ conviti  l’estremo,  e a me  travaglio 

Più  non  desser,  nè  altrui  1 Tristi!  che,  tutto 

Del  prudente  Telemaco  il  retaggio 

Per  disertar,  vi  radunate  in  folla. 

E non  udiste  voi  da’ vostri  padri, 

Mentr’eravate  piccioletti  e imberbi, 

I modi , che  teiiea  con  loro  Ulisse, 

Nessuno  in  opre  molestando,  o iii  detti,  870 
Costume  pur  degli  uomini  scettraii. 

Che  odio  portano  agli  uni,  e agli  altri  amore? 
Non  oflese  alcun  mai  : quindi  l’indegnu 
Vostro  adoprar  meglio  si  pare,  e il  merlo, 

Che  di  tanti  favor  voi  gli  rendete. 

Ed  il  saggio  Medonte  : Ai  Dei  piacesse, 

Che  questo  il  peggior  mal,  Ueina,  fosse  1 
Altro  dai  Proci  se  ne  cova  in  petto 
Più  grave  assai , che  Giove  sperda  : il  caro 
Figlio;  che  a Pilo  sacra , e alla  divina  83o 


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LIBRO 


Sparta  si  volse,  per  rìtrar  del  padre, 

Ucciderti  di  spada  al  suo  ritorno. 

Penelope  inielice  a tali  accenti 
Scioglier  fieniissi  le  ginocchia,  e il  core. 

Per  lungo  spazio  la  voce  inancolle, 

Gli  occhi  di  pianto  le  sViiipièr , distiuta 
Non  potcaledai  labbri  uscir  parola. 

Rispose  al  iiiiet  Araldo,  e perdiè  il  figlio 
Da  me  staccossi?  Qual  cagion,  4uai  loiza 
Sospingealo  a salir  le  ratte  navi,  hgo 

Che  destrieri  drl  mar  sono,  e l'immensa 
Varcano  umidità?  Brama  egli  dunque, 

Che  nè  resti  di  aè  nel  Mondo  il  nome? 

Qual  de'due  spinto,  il  bauditor  riprese, 
L^abbia  sul  mare,  a domandar  del  padre, 

Se  la  propria  sua  voglia,  o un  qualche  Wumc, 
Reina,  ignori.  K sovra  Torme  .sue 
Ritornò,  cos)  detto,  il  lido  araldo. 

Fiera  del  petto  roditrice  doglia 
Penelope  ingombrò;  nè,  perchè  molti  goo 
Fossero  i seggi,  le  bastava  il  core 
Di  posare  in  alcun  : sedea  sul  nudo 
Limitar  della  stanza  , acuti  lai 
Mettendo;  e quante  la  serviano  ancelle. 

Si  di  canuta  età,  come  di  bionda, 

Ululavano  a lei  d’inloruo  tutte. 

Fd  ella,  forte  lagrimar.do,  Amiche, 

Uditemi , dicea.  Tra  quante  donne 
Nacquero,  e crebber  meco,  ambasce  tali 
Chi  giammai  tollerò?  Prima  un  egregio  910 
Sposo  io  perdei , d’invitto  cor,  fregiato 
D’ogni  virtù  tra  i Greci,  ed  il  cui  nome 
Per  TEllada  risuona,  e tutta  l’Argo. 

Poi  le  tempeste  m’involaro  il  dolco 
Mio  parto  in  fama  non  ancor  salito, 

E del  viaggio  suo  nulla  io  conobbi. 

Sciaurate!  era  vi  pur  Tistatite  noto, 

Ch’ei  nella  cava  entrò  rapida  nave*. 

Nè  di  voi  fu , cui  suggerisse  il  core 
Di  scuotermi  dal  sonno?  Ov’io  la  fuga  920 
Potuto  avessi  presentirne  , certo 
Da  me , benché  a fatica , ei  non  partia, 

O lasciava  nel  palagio  estinta. 

Ma  de’serventi  alcun  tosto  mi  chiami 
L’antico  Dolio  , schiavo  mio,  che  dato 
Fummi  dal  geiiitor , quand'io’qua  venni, 

Ed  or  le  piante  delglardin  m’ha  in  cura. 

Vo’,  che  a Laerte  corra  , c il  tutto  narri, 
Sedendosi  appo  lui , se  mai  Laerte 
Di  pianto  aspersa  la  senil  sua  guancia  900 
Mostrar  credesse  al  popolo  , c lagnarsi 
Di  color  , che  schiantar  l’unico  ramo 
Di  lui  vorrriano  , e del  divino  Ulisse. 

E la  diletta  qui  balia  Euricléa, 

Sposa  cara  , rispose , o tu  m’uccida, 

O nelle  stanze  tue  viva  mi  serbi, 

Parlerò  ajierto.  11  tutto  io  seppi , e al  figlio 
Le  candide  farine , e il  rosso  vino 
Consegnai  : ma  giurar  col  giuramento 
Più  sacro  io  gli  dovei,  che  ove  agli  orecchi 
Non  ti  gìiignesse  della  sua  partenza 
Aura  d’allionde,  e tu  men  richiedessi, 

Io  tacerei , finché  spuntasse  in  cielo 
La  dodicesm’ Aurora  , onde  col  pianto 
Da  te  non  s’oltraggiasse  il  tuo  bel  corpo. 

Su  via , ti  bagna  y e bianca  veste  prendi, 

ODISSEA, 


U A R T O.  25 

E , con  le  ancelle  tue  nell’alto  ascesa, 

Priega  Miner^a,  che  il  iigliuol  ti  guardi: 

Kè  alHigger  più  con  imbasciate  il  veglio 
(ìià  per  sé  aliliito  asdai.  No,  tanto  ai  Numi  g5o 
Non  è d’Arcesio  la  progenie  in  ira. 

Che  uu  germe  viver  non  ne  debba,  a cui 
Queste  muraglie  sorgano  , e i remoti 
Si  ricuopraii  di  messe  allegri  campi. 

Con  queste  voci  le  sopì  nel  petto 
La  doglia,  e il  pianto  le  arrestò  sul  ciglio. 

Ella  bagnossì , bianca  veste  prese, 

K , con  le  ancelle  sue  in-U’aho  ascesa. 

Pose  il  sacr’orzo  nel  canestro, e il  sale, 

E a Falla  supplicò.  M’ascolta  , rlisse,  960 
O delTEgioco  Giove  inclita  figlia. 

8e  il  mio  consorte  ne*  paterni  tetti 
Pingui  d’agna  , o di  bue  cosce  mai  t’arse, 

Oggi  per  me  ten  risovvenga  : il  figlio 
Guardami,  e sgombra  dal  palagio  i Proci, 

Di  cut  più  ciascun  di  monla  l’orgoglio. 

Scoppio  in  un  grido  dopo  tei  parole, 

E TAtenéa  Minerva  il  priego  accolse. 

Tumulto  fean  sotto  le  oscure  volte 
Coloro  intanto,  e alcun  dicca  : La  molto  970 
Vagheggiata  Ketiia  ornai  le  nozze 
Ci  appresta,  e ignora,  che  al  suo  figlio  morte 
S’apparecchia  da  noi.  Tanto  dal  vero 
Quelle  superbe  menti  ivan  lontane. 

Ed  Antinuo  : Sciaurati,  il  dire  incauto. 

Che  potria  dentro  penetrar,  frenate. 

Ma  che  più  badiam  noi?  Tacitamente 
Qu^,  che  tutti  approvar,  mettiamo  in  opra. 

Ciò  detto,  venti  scelse  uomini  egregi, 

Ed  al  mare  avviossi.  Il  negro  legno  980 

Varare,  alzare  l'albero,  ossettaro 
Gli  abili  remi  in  volgitoi  di  cuojo, 

K le  candide  vele  ai  venti  aprirò. 

Poi , recate  arme  dagli  arditi  servi, 

Nell’alta  onda  fermar  la  negra  nave. 

Quivi  cenaro  ; e stavansì  aKpettando, 

Che  più  crescesse  della  notte  il  bujo. 

Ma  la  grama  Penelope  nell’alto 
Giacca  digiuna,  non  gustando  cibo, 

Bevanda  non  gustando;  e a lei  nel  petto  990 
Sul  destili  dubbio  di  sì  cara  prole 
Fra  la  speme , e il  timor  l’alma  ondeggiava. 
Qual  de  lattanti  leoncin  la  madre, 

Cui  fan  corona  insidiosa  intorno 
1 cacciatori,  che  a temere  impara, 

E in  diversi  pensier  l’alma  divide  : 

Tal  fra  se  rivolvea  cose  diverse, 

Finche  la  invase  un  dolce  sonno.  Stesa 
Sul  letto,  e tutte  le  giunture  sciolta, 

La  donna  inconsolabde  dormia.  1000 

Allor  la  Dea  dall’azzurrino  sguardo 
Nuova  cosa  pensò.  Compose  un  lieve 
Fantasma,  che  sembrava  in  tutto  Ifumai 
D’icario  un’altra  figlia,  a cui  legato 
S’era  con  nudi  maritali  Euniélo, 

Che  in  Fere  di  Tessaglia  avea  soggiorno. 
Questa  Iftima  inviò  d’Ulisse  al  tetto, 

Che  alla  lleina  tranquillusse  il  core, 

E i sospiri  da  lei  sbandisse,  e il  pianto. 

Pel  varco  angusto  del  fedel  serrarne  1010 

Entrò  il  l'anlasma,  e,  standole  sul  capo. 

Riposi  tu,  Penelope , dicea, 

4 


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ODISSEA 


36 

Keltuo  cordoglio?  Grimmortalì  Dei 
I^grimosa  non  voglionti,  nè  trista. 

Kiederà  il  Hgliuol  tuo,  perchè  de’Numi 
L*ira  col  suo  fallir  mai  non  incorse. 

£ la  Reina,  che  durmia  de^sogai 
Soavissimamente  in  su  le  porte: 

Sorella,  a che  vcnistu?  Io  mai  da  prima 
Non  ti  vedea,  cosi  da  lunge  alberchi;  1020 
3^ or  vuoi,  ch’io  vinc^  quel  martir,  che  inceuto 
Guise  mi  stringe  l'alma  , io  , che  un  consorte 
.Perdei  si  buon,  di  si  gran  core , ornato 
D’ogni  virtù  tra  i Greci,  ed  il  cui  iioiue 
Per  i’EUada  risuoua,  e l’Argo  tutta. 

S’arroge  a questo,  che  il  diletto  figlio 
Parti  su  ratta  nave,  un  giovinetto 
Delle  fatiche,  e dell’usanze  ignaro. 

Più  ancor  per  lui,  che  per  Ulisse,  io  piango, 

£ temo,  noi  sorprenda  u tra  le  genti  lo3o 
Straniere,  o in  mare,  alcun  sinistro:  tanti 
Nemici  ha,  che  l’insidiano,  e di  vita 
Prima  il  desian  levar,  ch’egli  a me  torni.  , 
Ratto  riprese  il  simulacro  oscuro: 

Scaccia  da  te  questi  ribrezzi,  e spera. 
Compagna  il  siegue  di  cotanta  possa. 

Che  oguuu  per  aè  la  brameria  : Minerva^ 


Cui  pietà  di  te  punse , e di  cui  fida 
Per  tuo  conforto  ambasciatrice  io  venni. 

E la  saggia  Penelope  a rincontro  : 1040 

Poiché  Ulta  Dea  sei  dunque,  o almeno  udisti 
La  voce  d’uiia  Dea,  parlarmi  ancora 
Di  quell’altro  infelice  or  non  potrai? 

Vive?  rimira  in  qualche  parte  il  Sole? 

O ne’bassi  calò  regni  di  Piato? 

Ratto  riprese  il  simulacro  oscuro  : 

S’ei  viva,  o no,  non  t’aspettar,  ch’io  narri. 
Spender  non  piace  a me  gli  accenti  indurilo. 
Disse;  e pel  varco,  ond’era  entrata,  uscendo. 
Si  mescolò  coVenti , e dileguossì.  io5o 

Ma  la  Rcina  sì  destò  in  quel  punto, 

Ed  il  cor  si  senti  d'un’improvvisa 
Brillar  letizia,  che  lascìolle  il  sogno, 

Che  sì  chiaro  le  apparve  innanzi  l’Alba. 

I Proci  l’onde  già  fendeano,  estrema 
Macchinando  a Telemaco  rnina. 

Siede  tra  la  pietrosa  Itaca,  e Same 
Un’isola  in  quel  mar , che  Astori  è detta. 

Pur  dirupata,  nè  già  troppo  grande. 

Ma  con  sicuri  porti,  in  cui  le  navi  1060 

D’ambo  i lati  entrar  ponno.  Ivi  in  ngguaCo 
rdeiuaco  atteudeau  gl’iniqui  Achei. 


LIBRO  QUINTO 


ARGOMENTO 

Nuovo  concìlio  degli  Dei.  Pallade  si  bgna,  che  Ulisse  ritenuto  sia  neH'isola  di  Calipso,  e che  sì  tenti 
d'aiximauare  Telemaco.  Giove  manda  Mercurio  a Galìjtso,  che,  mal  volentieri,  convella  Ulisse.  Tarteoza  di 
questo  S(»vra  una  spezie  di  zalla  da  lui  construtta.  NoIIudo  gli  desta  contro  una  orribile  teuipc<tu,  per  cui, 
s|«zzala  la  barca,  ei  gettasi  a nuoto;  e con  rajulu  d'uiu  fascia,  che  Ino,  Dea  del  uurc,  gli  diede,  approda, 
dopo  intìaili  puliòìenti,  aU’isula  de*l.''eaci. 


Già  l’Aurora,  levandosi  a Tìtone 
D’allato,  abbandonava  il  croceo  letto, 

3^  ai  Dei  portava,  ed  ai  mortali  il  giorno; 

E già  tutti  a concilio  i Dei  beati 
Svdean  con  Giove  altitonante  in  mezzo, 

Cui  di  possanza  cede  ugni  altro  Nume. 

Memore  Palla  dell’fgregio  Ulis.ìe, 

Che  mal  suo  grado  appo  la  Ninfa  scorge, 
l molti  ritesseane  acerbi  casi. 

O Giove,  disse,  e voi  tutti  d'Olimpo  10 

Concittadini , che  in  eterno  siete, 

Spoglisi  di  giustizia,  e di  pietade, 

£ iuiquilate,  e crudeltà  si  vesta 
D’ora  innanzi  ogni  Re,  quando  l’imago 
D’Ulisse  più  non  vive  in  un  sol  cure 
Di  quella  gente,  ch’ci  reggea  da  padre, 

£Ì  nell’isola  intanto,  ove  Culipso 
lu  cave  grotte  ripugnante  il  tiene, 

Giorni  oziosi,  e travagliosi  mena; 

£ del  tornare  alla  sua  patria  è nulla,  2o 

Poiché  navi  non  ha,  non  ha  compagni, 

Che  il  carregin  dei  mar  su  l’ampio  tergo. 

Che  più  ? Il  hgliuol,  che  all’arenosa  l’do 
Mosse,  ed  a Sparta,  onde  saver'  di  lui, 

Tor  di  vita  si  brama  al  suo  ritorno. 


Figlia,  qual  ti  sentii  fuggir  parola 
Del  recinto  de’denti?  a lei  rispose 
L’adunator  di  nubi  Olimpio  Giove. 

Tu  stessa  in  te  non  divìsavi,  come 
Rieda  Ulisse  alla  patria,  e di  que’tristt  3o 
Vendetta  faccia?  Xii  Itaca  il  figliuolo 
Per  opra  tua,  chi  tei  contende?  salvo 
Rientri , e l’onde  navigale  indarno 
Rinavìghi  de’Procì  il  reo  naviglio. 

Disse,  e a Mercurio,  sua  diletta  prole. 

Cosi  si  l'ìvolgca:  Mercurio,  antico 
De’mieì  comandi  apportaiur  fedele, 

Vanne,  e alla  Ninfa  dalle  crespe  chiome 
Il  fermo  annunzia  mio  voler,  che  Ulisse 
Le  native  contrade  ornai  rivegga,  40 

Ma  noi  guidi  uom,  nè  Dio.  Parta  su  travi 
Con  moiiiplici  nodi  in  un  congiunte, 

H il  ventesimo  di  della  feconda 
Selleria  le  rive,  sospirando,  attinga; 

E i F»-aci  l’accolgano,  che  quasi 
Degrimmortaii  al  par  vivon  felici. 

Essi,  qual  Nume,  onorcraiilo,  e al  dolce 
Nativo  loco  il  inanderan  per  nave, 

Rame  in  copia  darangli , ed  oro,  e vesti, 
Quanto  al  hn  seco  dalla  vinta  Troja  5o 


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I 


^7 


I.  I B R O 

Condotto  non  avrìa  , se  con  la  preda, 

Che  gli  toccò,  ne  ritornava  illeso; 

Che  la  patria  così,  gli  amici , e l'aito 
Riveder  suo  palagio,  è a lui  destino. 

Obbedì  il  prode  niessaggiero.  Al  piede 
S'avvinse  i talar  belli,  aurei,  immortali, 

Che  sul  mare  il  portavano,  e su  1 campì 
Della  terra  inliniti  a par  col  vento. 

Poi  l’aurea  verga  nella  man  recossi, 

Onde  i mortali  dolcemente  assonna,  6o 

Quanti  gli  piace,  o li  dissonna  ancora, 
lì  con  quella  tra  man  l'aure  f'endea. 

Come  presi  ebbe  di  Pierla  i gioghi. 

Si  calò  d'alto,  e si  gittò  sul  mare: 

Indi  l'acque  radea  velocemente, 

Simile  al  laro,  che  ne' vasti  golfi 
S'aggira  in  traccia  da' mimiti  pesci, 

B spesso  nel  gran  sale  i vanni  bagna. 

Non  altrimenti  sen  venia  radendo 

Molte  onde  e molte  l'Argicida  Ermete.  70 

Ma  tosto  che  fu  all'isola  remota. 

Salendo  allor  dagli  azztirrini  flutti, 

Lungo  il  lido  ei  sen  g’ia,  finché  vicina 
S'ollerse  a lui  la  spaziosa  grotta. 

Soggiorno  della  Ninfa  il  crin  ricciuta, 

Cui  trovò  il  Nume  alla  sua  grotta  in  seno. 

Grande  vi  splendea  foco,  e la  fragranza 
Del  cedro  ardente,  e dell'ardente  tio 
Per  tutta  si  spargea  Pisola  intorno. 

Ella  , cantando  con  leggiadra  voce,  8>> 

Fra  i tesi  fili  delPordita  tela 
lyiicida  spola  d'òr  lanciando  andava. 

Selva  ognor  verde  l'incavato  speco 
Cingeva  : i pioppi  vi  cresceano,  e gli  alni, 

E gli  spiranti  odor  bruni  cipressi; 

E tra  i lor  rami  fabbricato  il  nido 
^^aveano  augelli  dalle  lunghe  penne. 

Il  gufo,  lo  sparviere,  e la  loquace 
Delle  rive  del  mar  cornacchia  amica. 

Giovane  vite  di  purpurei  grappi  00 

S'ornava,  e tutto  rivestia  lo  speco. 

Volvean  quattro  bel  fonti  acque  d’argento, 

Tra  sè  vicini  prima,  e poi  divisi 
I/un  dall’altro,  e fuggenti  ; e di  viole 
Ricca  si  dispiegava  ili  ogni  dove 
De’molll  prati  l’immortal  verzura. 

Questa  .scena  era  tal,  che  sino  a un  Nume 
Non  potea  farsi  ad  essa  , e non  sentirsi 
Di  maraviglia  colmo,  e di  dolcezza. 

Mercurio,  immoto,  s’ammirava;  e,  molto  100 
Lodatola  in  suo  core,  all'antro  cavo, 

Non  indugiando  più,  dentro  si  mise. 

Calipso , inclita  Dea  , non  ebbe  in  Jui 
Gli  occchi  affissati , che  il  conobbe:  quando 
Per  distante,  che  l'un  dall’altro  alberglu, 
’C.elarsi  l’uno  all'altro  i Dei  non  ponno. 

Ma  nella  grotta  il  generoso  Ulisse 
Non  era  : mesto  sul  deserto  lido. 

Cui  spesso  si  rendea,  sedeasi  ; ed  ivi 
Con  dolori , con  gemiti , con  pianti  110 

Struggeasi  l’alma  , e l’infecondo  mare 
Sempre  aggnardava;  lagrime  stillando. 

Li  Diva  il  Nume  interrogò,  cui  posto 
Sn  mirabile  avea  seggio  lucente: 

Mercurio  , Nume  venerato  , e caro, 

Che  della  verga  d’òr  la  man  guernisci. 


QUINTO; 

Qual  mai  cagione  a me , che  per  Tadilletro 
Non  visitavi  , oggi  t’addusse'/  Parla. 

Cosa  , ch’io  valga  oprar , nè  si  scoiivegna, 
Disdirti  io  non  saprei , se  il  pur  volessi.  lao 
Su  via  , ricevi  l’ospitai  convito  : 

Poscia  favellerai.  Detto  , la  mensa, 

Che  ambrosia  ricopria  , gli  pose  avanti. 

Ed  il  purpureo  nettare  versogli. 

Questo  il  celeste  messaggiero  , e quella 
l'rcndea  ; nè  prima  nelle  forze  usate 
Tornò,  che  apria  le  labbra  in  tali  accenti: 

Tu  Dea  me  Dio  dunque  richiedi  ? Il  vero. 
Poiché  udirlo  tu  vuoi,  schietto  io  ti  narro. 
Questo  viaggio  di  Saturno  il  tìglio  i3o 

Mal  mio  grado  mi  diè.  Chi  vorria  mai 
Varcar  tante  onde  salse  , infinite  oude. 

Dove  città  non  sorge , e sagrificl 

Non  v’ha  chi  ci  offra  , ed  ec.atombe  illustri? 

Ma  il  precetto  di  Giove  a un  altro  Nume 
Nè  violar,  nè  obbliar  lice.  Tcco, 

Disse  l’Egidarmato  , i giorni  mena 
L’uom  più  gramo  tra  quanti  alla  citfade 
Di  Priamo  innanzi  comhattean  nove  anni, 
Finché  il  decimo  al  fin  , Troja  combusta,  140 
Spiega ro  in  mar  le  ritornanti  vele. 

Ma  nel  cammino  ingiuriar  Minerva, 

Che  destò  le  bufere  , e immensi  flutti 
Centra  lor  sollevò.  Tutti  perirò 
Di  quest’uomo  ì compagni  ; ed  ei  dal  vento 
Venne  , e dal  fiotto  ai  lidi  tuoi  portato. 

Or  tu  costui  congeilerai  di  botto  : 

Chè  non  morir  dalla  sua  terra  liinge, 

Ma  la  patria  bensì , gli  amici , e l’alto 
Riveder  suo  palagio  , è a lui  destino.  i5o 
Inorridì  Calipso,  e , con  alate 
Parole  rispondendo  , Ah,  Numi  ingiusti. 
Sciamò  , che  invìdia  non  più  intesa  è questa, 
Che  se  una  Dea  con  maritale  amples.so 
Si  congiiinge  a un  mortai  , voi  noi  soffrite? 
Quando  la  tinta  di  rosato  Aurora 
Orione  rapì,  voi , Dei , cui  vita 
Facile, scorre , acre  livor  mordea, 

Finche  in  Ortigia  il  rintracciò  la  casta 

Dal  seggio  aureo  Diana  , e d’improvvisa  iGo 

Morte  il  colpì  con  iiivisibil  dariio. 

E allor  che  venne  innanellala  il  crine 
Cerere  a Gias'ion  tutta  amorosa, 

E nel  maggese  , che  il  pesante  aratro 
Tre  volte  ajierto  avea  , se  gli  concesse, 

Giove  , cui  l’opra  non  fu  ignota  , uccise 
Gias’ion  con  la  folgore  affocata. 

Così  voi,  Dei , con  invid’occhio  al  fianco 
Mi  vedete  un  eroe  da  me  serbato. 

Che  .solo  stava  in  su  i meschini  avanzi  170 
Della  nave  , che  il  telo  igneo  di  Giove 
Nel  mare  oscuro  gli  percosse  , e sciolse, 
lo  raccogliealo  amica  , io  lo  nutria 
Gelosamente  , io  prometteagli  eterni 
Giorni , e dal  gel  della  vecchiezza  immuni. 

Ma  quando  troppo  è ver,  che  alcun  di  Giove 

Precetto  violare  a un  altro  Nume 

Non  lice  , od  obbliar  . parta  egli , c solchi. 

Se  il  comandò  l’Egidarmato  , i campi 

Non  seminati.  Io  noi  rimando  certo  : tSo 

Chè  navi  a me  non  .sono  , e non  compagni, 

Che  del  mare  il  carreggino  sol  tergo. 


28 


ODISSEA 


Ben  sorverrogli  di  consiglio , e il  modo 
Gli  additerò , che  alla  sua  dolce  terra 
Su  i perigliosi  ilutti  ei  giunga  illeso. 

Ogni  modo  il  rimanda , TArgicida 
Soggiunse,  c pensa  , che  infiammarsi  d’ira 
Potrebbe  contra  te  l’Olimpio  un  giorno. 

E sul  Hn  di  tai  detti  a lei  si  tolse. 

L’augusta  Ninfa  , del  Saturnio  udita  igu 
J.a  severa  imbasciata  , il  prode  Ulisse 
Per  cercar  s’avviò.  Trovollo  assisso 
Del  mare  in  su  la  sponda  , ove  le  guance 
Di  lagrime  rigava  , e consumava 
Col  pensier  del  ritorno  i suoi  dolci  anni. 

Che  della  Ninfa  non  pungealo  amore: 

£ se  le  notti  nella  cava  grotta 
Con  lei  vogliosa  non  voglioso  passa, 

Che  altro  l’eroe  può?  Ma  quanto  è il  giorno 
Su  i lidi  assiso,  e su  i rumiti  scogli,  2oo 

Con  dolori , con  gemiti , con  pianti 
Struggesi  l’alma,  e l’infecondo  mare, 

Lagrime  spesse  lagrimando,  agguarda. 

Calipso , illustre  Dea , standogli  appresso, 
Sciagurato  , gli  disse,  in  questi  pianti 
Più  non  mi  dar  , nè  consumare  i dolci 
Tuoi  begli  anni  così:  la  dipartita, 

Non  che  vietarti , agevolarti  io  penso. 

Su  via,  le  travi  nella  selva  tronche, 

Larga  e con  alti  palchi  a te  congegna  2io 
Zattera,  che  sul  mar  fosco  ti  porti, 
lo  di  candido  pan  , che  l’importuna 
Pame  rintuzzi , io  di  purissim’oiida, 

£ di  rosso  lìcor  , gioja  dell’alma, 

La  carcherò:  ti  vestirò  non  vili  •• 

Panni , e ti  manderò  da  tergo  un  vento, 

Che  alle  contrade  tue  ti  spinga  illeso. 

Sol  che  d’Olimpo  agli  abitanti  piaccia, 

Con  cui  di  senno  in  prova  io  già  non  vegno. 

Kaccapricciossi  a questo  il  non  mai  vinto  220 
Dalla  sventure  Ulisse,  e,  O Dea  , rispose 
Con  alate  parole,  altro  di  fermo, 

Non  il  congedo  mio  , tu  volgi  in  mente,  l 

Che  vuoi  , ch’io  varchi  su  tal  barca  i grossi 
Del  difOcile  mar  flutti  tremendi. 

Cui  le  navi  più  ratte,  e d’uguai  fianchi 
Munite,  e liete  di  quel  vento  amico, 

Che  da  Giove  parli , varcano  appena. 

No , su  barca  si  fatta , c a ttio  dispetto, 

Non  salirò  , dove  tu  pria  non  degni  23i> 

Giurare  a me  con  giuramento  grande. 

Che  nessuno  il  tuo  cor  danno  m’ordisce. 

Sorrise  V Atlantide,  e,  del)a  mauo 
Divina  careggiandolo,  la  lingua 
Sciolse  in  tai  voci  : Un  cattivello  sei, 

Nè  ciò  , che  per  te  fa,  scordi  giammai. 

Quali  parole  mi  parlasti?  Or  sappia 
Dunque  la  Terra,  e il  del  superno , e l'atra, 
Che  sotterra  si  volve , acqua  di  Stige, 

Di  cui  nè  più  soVnne  han,  nè  più  sacro  2 |0 
Gl'lddj  beati  giuramento,  sappia. 

Che  nessuno  il  mio  cor  danno  t'ordisce. 

Quello  anzi  io  penso,  e ti  propongo,  ch’io 
Torrei  per  me,  se  in  cotant’uopo  io  fossi. 
Giustizia  regge  l.n  mia  mente,  e un’alma 
Pietosa , non  di  ferro  , in  ine  s’annida. 

Ciò  detto,  abbandonava  il  lido  in  fretta, 

E Ulisse  la  scguia.  Gimui  alla  grotta, 


Colà , d’onde  era  l’Argicìda  sorto, 

S’adagiò  il  Laerzìade  y e la  Dea  molti  2Òo 
Davante  gli  mettea  cibi , e licori, 

Quali  ricever  può  petto  mortalo. 

Poi  gli  s’asssise  a fronte  ; e a lei  le  ancelle 
L’ambrosia,  e il  roseo  nettare  imbandirò. 

Come  ambo  paghi  della  mensa  furo, 

Con  tali  accenti  cominciava  l’alta 
Di  Calipso  beltade:  O di  Laerte 
Figlio  tliviri , molto  ingegnoso  Ulisse, 

Così  tu  parti  adumjne,  e alla  nativa 

Terra  , e alle  case  de’  tuoi  padri  vai?  260 

Va , poiché  sì  t’aggrada  , e va  felice. 

Ma  se  tu  scorger  del  pensier  potessi 
Per  quanti  aflanni  ti  comanda  il  fato 
Prima  passar,  che  al  patrio  suolo  arrivi, 
Questa  casa  con  me  sempre  vorresti 
Custodir,  ne  son  certa  , e immortai  vita 
Da  Calipso  accettar  : benché  si  viva 
Bramk  t’accenda  della  tua  consorte, 

A cui  giorno  non  è che  non  sospiri. 

Pur  non  cedere  a lei  nè  di  statura  270 

Mi  vanto , nè  di  volto  : umana  donna 
Mal  può  con  una  Dea , nc  le  s’addice, 

Di  persona  giostrare  , o di  sembianza. 

I Venerabile  Iddia  , riprese  il  ricco 
D’ingegni  Ulisse,  non  voler  di  questo 
Meco  sdegnarti  : appien  conosco  io  stesso, 

Che  la  saggia  Penelope  tu  vinci 
Di  persona  non  men  , che  di  sembianza. 
Giudice  il  guardo,  che  ti  stia  di  contra. 

Ella  nacque  mortale  , e in  te  nè  morte  280 
Può  , nè  vecchiezza.  Ma  il  pensiero  è questo. 
Questo  il  desio  , che  mi  tormenta  sempre, 
Veder  quel  giorno  al  fin , che  alle  dilette 
Piagge  del  mio  natal  mi  riconduca. 

Che  se  alcun  me  percoterà  de’  Num^ 

Per  le  fosche  onde  , io  soft'rirò  , chiudendo 
Forte  conira  i disastri  anima  in  |>etto. 

Molti  sovr’esso  il  mar,  molti  fra  Tarmi 
Già  ne  sostenni  • e sosteronne  ancora. 

Disse;  e ilSol  cadde,  ed  annottò. Nelseno  290 
Si  ritiraro  delia  cava  grotta 
Più  interno,  e oscuro,  e in  dolce  sonno  avvolti 
Tutte  le  cure  lor  niandaro  in  bando. 

Ma  come  del  mattili  la  figlia  , l’alma 
Dalle  dita  di  rose  Aurora  apparve, 

Tunica , e manto  alle  sue  membra  Ulisse, 

E Calipso  alle  sue  larga  ravvolse 
Bella  gonna  , sottil , bianca  di  neve. 

Si  strinse  al  fianco  un'aurea  fascia  , e un  velo 
Sovra  Tòr  crespo  della  chioma  impose.  5oo 
Nè  d’Uiisse  a ordinar  la  dipartita 
Tardava.  Scure  di  temprato  rame, 

(rrande  , manesca  , e d’ambo  i lati  aguzza. 

Con  leggiadro  , d’oliva  , e bene  aitato 
Manubrio  , presentògli , e una  polita 
Vi  aggiunse  ascia  lucente  : indi  all’estremo 
DelTisoIa  il  guidò,  dove  alte  jiiante 
Crescean  ; pioppi  , alni , e sino  ai  cielo  abeti, 
Ciascun  risecco  di  gran  tempo  , e arsiccio. 

Che  gli  sdruccioli  agevole  su  Tonda.  3jo 

Le  altere  piante  gli  additò  col  dito, 

E alla  sua  groita  il  piè  torse  la  Diva. 

Egli  a troncar  cominciò  il  bosco;  l’opra 
Nelle  man  delTorue  coma  veloce. 


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29 


LIBRO  < 

Venti  distese  al  snolo  arbori  interi, 

Gli  adeguò,  li  poli , l'un  destramente 
Con  l’altro  pareggiò.  Callp^o  hitanto 
Recava  seco  gli  appuntati  succltj. 

Ed  ei  forò  le  travj,  e insieme  unille, 

E con  incastri  assicurollc  , e chiovi.  020 

Larghezza  il  tutto  area  /quanta  ae  danno 
Di  lata  nave  trafficante  al  i'undo 
Eeriti  fabbri.  Su  le  spesse  travi 
Combacianti  tra  sè  lunghe  stendea 
Noderose  assi , c il  tavolato  alzava. 

L'albero  con  l’antenna  ersevi  ancora, 

E construssc  il  tìmon  , che  in  ambo  1 lati 
Armar  gli  piacque  d’intrecciati  salci 
Contra  il  marino  assalto,  e molta  selva 
Gittò  nei  fondo  per  zavorra  , o stiva.  n5o 
I.e  tue  tele , o Calipso  , in  man  gli  arida ro, 

K buona  gli  use  i pur  di  man  la  vela, 

Cui  le  fiiui  legò  , legò  le  .sarte, 

La  poggia  , e l’orza  ; al  hn  , possenti  leve 
Supposte,  spinse  il  .suo  naviglio  in  mare, 

Che  il  dì  quarto  splendea.  I.a  Dea  nel  quinto 
Congedollo  dall'isola  : odorate 
Vesti  gli  cinse  dopo  un  caldo  bagno; 

Due  otri,  l’un  di  rosseggiante  vino. 

Di  lìmpid 'acqua  l'altro,  e un  zaino,  in  cui  040 
ilVIoltc  chiudeansi  dilettose  dapi, 

Collocò  nella  barca  ; e fu  suo  dono 
Un  lenissimo  ancor  vento  innocente. 

Che  nian<lò  innanzi  ad  increspargli  il  mare. 

Lieto  l’eroe  dell'innocente  vento, 

La  vela  dispiegò.  Quindi , al  timone 
Sedendo,  il  corso  dirigea  con  arte, 

Kè  gli  cadea  su  le  |>el|»ébre  il  sonno, 

IVIentre  attento  le  Plejadi  mirava, 

E il  tardo  a tramomar  Boote , e l’Or.sa.  5.5o 
Che  detta  è pure  il  Carro  . e la  si  gira, 
Guardando  sempre  in  Orióne  , e soia 
Kel  liquido  Oc»an  sdegna  lavarsi  : 

L'Orgia,  che  Ulisse,  navigando,  a manca 
Lasciar  dovea  , come  la  Diva  ingiunse, 
liieci  pellegrinava  e sette  giorni 
Su  i campi  d'Anfitrite.  Il  dì  novello, 

Gli  sorse  incontro  co' suoi  monti  ombrosi 
L'isola  de’  Feaci , a cui  la  strada 
Conducealo  più  corta  , e che  apparta  56o 
Quasi  uno  scudo  alle  losche  onde  sopra. 

Sin  dai  monti  di  Solima  lo  scórse 
Veleggiar  per  le  salse  onde  tranquille 
li  po-ssenfe  ^ìettun,  che  ritornava 
DairEtiopia  , e nel  profondo  core 
Più  crucciato , che  mai , squassando  il  rapo, 
Poli  ! disse  dentro  a sè,  nuovo  decreto, 
Mentr'io  fui  tra  gii  Etiopi , intorno  a tTlisse 
Fer  dunque  i Numi  ? Ei  già  la  terra  vede 
De’  Feari , i-he  il  lato  a lui  per  meta  670 
Delle  sue  lunghe  disventurc  assegna. 

Pur  molto  , io  credo , a tollerar  gli  resta. 

Tacque  ; e,  dato  di  piglio  al  gran  trideute, 
Le  nubi  radunò , sconvolse  l’ncqur, 

Tutte  incitò  di  tutti  i venti  l'ire^ 

Fi  la  terra  di  nuvoli  coverse, 

Coverse  il  mar  : notte  di  ciel  giù  scese, 
S'avventaro  sul  mar  quasi  in  un  gmppo 
Ed  Euro,  e Noto,  e il  celere  Ponente, 

Ed  Aquilun,  che  pruine  a.^pre  su  i'ali  5So 


U I N T O. 

Reca,  ed  immensi  flutti  innalza  e volve. 

Discior  sentissi  le  ginocchia , e il  core 
Di  Laerte  il  fìgliuol , che  tal  si  dolse 
Nel  secreto  dell’alma  : Ahi  me  inlelitc! 

Che  di  me  sarà  ornai?  Temo  , non  torni 
Verace  troppo  della  Ninfa  il  detto, 

Che  al  patrio  nido  io  giungerei  per  mezzo 
Delle  fatiche  solo  e dHl'ongosce. 

Di  qual  nuvole  il  cielo  ampio  inghirlanda 
Giove,  ed  il  mar  conturba?  E come  tutti  5qo 
Fremono  i venti?  A certa  morie  io  corro. 

Oh  tre  fiate  iortiinati  c quattro, 

Cui  perir  fu  concesso  innanzi  a Troja, 

Per  gli  Atridi  pugnando  1 E j>erchè  allora 
Non  caddi  anch'iti, che  al  morto  Arhilir  intorno 
Tante  i Trojani  in  me  lance  scagliare? 

Sepolto  j Greci  co’  funebri  onori 
M avriano  , e alzato  ne'  lor  canti  al  cielo. 

Or  per  via  così  miaiista  ir  deggio  a Dite. 

Mentre  così  doleasi , un'onda  grande  400 
Venne  d’alto  con  liiria  , e urtò  la  barca, 

K rigirolla  : e lui , che  andar  lasciossi 
Dalle  mani  il  tinion  , fuori  ne  spinse. 

Turbine  orrendo  d'aggrnppati  venti 
L'albero  a mezzo  gii  fiaccò:  lontane 
Vela  , ed  antenna  caddero.  Ei  gran  tempo 
Stette  di  sotto , mal  potendo  il  capo 
Levar  dall'onde  impetuose  e grosse: 

Chè  le  vesti  gravavanlu  , che  in  dono 
Da  Ciilipso  ebbe.  Spuntò  tardi , e molta  410 
Dalla  bocca  gii  liscia  , gli  piove»  molta 
Dalla  testa  , e dal  crine  onda  salata. 

Non  jierò  deila  zatta  il  prese  obbliu  : 

Ma  , da  tè  ì flutti  respingendo,  ratio 
L'apprese,  e g'à  di  sopra  , il  fin  di  morte 
Schivando  , vi  sedea.  Hapìala  il  fiotto 
Qua  e là  per  lo  golfo.  A quella  gni«i, 

Che  sovra  i campi  il  Tramontali  d'Autunnn 
Fascio  trabalza  d’anumlate  spine, 

I venti  trabalzavanla  sul  mare.  420 

Or  Noto  da  portare  a Borea  l'ofTre, 

Kd  or,  perchè  davanti  a sè  la  cacci, 

Euro  la  cede  d’Occidente  al  vento. 

La  bella  il  vide  dal  tallun  di  perla 
Figlia  di  Cadmo  , Ino  chiamuta  al  tempo, 

Che  vìvea  tra  i mortali:  or  ne!  mar  gode 
Divini  onori , e Leucotea  si  noma. 

Compunta  il  cor  per  lui  d’alta  pietade, 

S’alzo  dell'onda  fuor,  qnal  mergo,  a volo, 

C , su  le  travi  bene  avvinte  8s.H^^a,  45o 

Così  gli  favellò  : Perchè  , meschino, 

S'accese  mai  con  te  d'ira  sì  acerba 
Lo  scuotitor  della  terrena  mole, 

Che  ti  semina  i mali  ? Ah  ! non  fia  certo, 

Ch’eì,  per  (pianto  il  deaii,  spenga  i tuoi  giorni. 
Fa  , poiché  vista  m’hai  d'uomo  non  follo, 

Ciò  , ch’io  t'insegno.  1 panni  tuoi  svestiti, 
l.ascia  il  naviglio  da  portarsi  ai  venti, 

E a nuoto  cerca  il  Feacese  lido. 

Che  per  meta  de’  guai  Passegnu  il  fato.  4i<> 
Ma  questa  prendi , e la  t’avvolgi  al  petto, 
Fascia  immortal,  nè  temer  morte  , o danno. 
Tocco  della  Feacia  il  lido  appena, 

Spogliala  , e in  mar  dal  coiitmeine  lungi 
La  gitta  , e loici  nel  gittarla  Ì1  volto. 

Ciò  dello , c a lui  l’ioiaiorlal  lascia  data. 


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30  ODI 

Rientrò , pur  qual  mer^o , in  seno  al  fosco 
]\larc  ondeggiante  , che  su  lei  si  chiuse. 

Pensoso  cesta,  e in  forse,  il  pa7.'iente 
Laerziaile  divino,  e con  se  stesso,  4^o 

Raddoppiando  i sospir,  tal  si  consiglia: 

Ohimè  1 che  nuovo  non  mi  tessa  inganno 
De’Sempiterni  alcun  , che  dal  mio  legno 
Partir  m’ingiunge.  Io  cosi  tosto  penso 
Kon  ubbidirgli  : cliè  la  terra  , dove 
Di  scampo  ei  m’ailidò  , troppo  è lontana. 

Ma  ecco  quel,  che  i>ttimo  parmi  : quanto 
C'ingiunte  riinarran  tra  lor  le  travi, 

Kori  abbandonerolle  , e co’  disastri 

Fermo  io  combatterò.  Sciorralie  •)!  flutto?  460 

Porrommi  a nuoto  ; nè  veder  so  meglio. 

Tai  cose  in  sè  volgea,  quando  Nettuno 
Sollevò  un’omla  immensa,  orrenda,  grave, 

Di  mori'c  in  guisa , e la  so-<pÌiise.  Come 
Disperse  qua  e là  vanno  le  secche 
Paglie,  di  cuisorgea  gran  mucchio  in  prima, 
Se  mai  le  investe  un  furioso  turbo, 

Xe  tavole  pel  mar  disperse  aiidaro. 

Sovra  un  sol  trave  a cavalcioni  Ulisse 
Montava:  i panni , die  la  Dea  Calipso  4*70 
Dati  gli  avea  , svesti,  s’avvolse  al  petto 
X’immortal  benda,  e si  gittò  ne’  gorghi 
Roccon'le  braccia  per  notare  aprendo. 

Kè  già  s’ascose  dal  ceruleo  Iddio, 

Che , la  testa  crollando  , A questo  modo 
Hira , dicea  tra  sè  , di  flutto  in  flutto 
Dopo  tante  sciagure , e a genti  arriva 
Da  Giove  amate:  benché  speme  io  porti, 

Che  nè  tra  quelle  brillerai  di  gioja. 

Cosi  Nettuno;  e della  verde  sferza  480 

Toccò  i cavalli  alle  leggiadre  chiome. 

Che  il  condussero  ad  Ì2ga  , ove  gli  splende 
Nobile  altezza  di  reai  palagio. 

Pallade  intanto  , la  prudente  figlia 
Di  Giove,  altro  pensò.  Fermò  gli  alati 
Venti,  e silenzio  impose  loro,  e tutti 
Gli  avvinse  di  sopor  , fuorché  il  veloce 
porea  ,clie,  da  lej  spinto , i vasti  flutti 
Dinanzi  a Ulisse  infranse,  ond’ei  le  rive 
Df*!  vago  di  remar  popol  Feace  4qo 

Pigliar  potesse,  cd  ingannar  la  Parca. 

Due  giorni  in  cotal  foggia , e tante  notti 
per  l’ampio  golfo  errava  , e spesso  il  core 
Morte  gli  presagia.  Ma  quando  l’Alba 
Cinta  la  fronte  di  purpuree  rose 

31  di  terzo  recò  , tacquesi  il  vento, 

X un  tranquillo  sereu  regnava  intorno. 

IHisse  allor , cui  levò  in  alto  un  grosso 
Flutto,  la  terra  non  lontana  scòrse. 

Forte  aguzzando  le  bramose  cìglia.  5oo 

Qtiale  appar  dolce  a un  figUuol  pio  la  vista 
Del  genitor  , che  su  dolente  letto 
Scarno,  smunto,  distrutto,  e da  un  maligno 
Demone  giacque  lunghi  di  percosso, 

E poi  del  micidial  morbo  cortesi 
11  disciolser  gli  Dei  : tale  ad  Ulisse 
l^a  terra  , e il  verde  della  selva  apparve. 
Quinci  ci , notando , ambi  movea  di  tutta 
Sua  forza  1 piedi  a quella  volta.  Come 
Presso  ne  fu, quanto d’nom  corre  un  grido,  5io 
Fiero  il  colpi  romor  : poiché  i ruttali 
Sin  dal  fondo  del  mar  flutti  tccmeiuli, 


S S £ A 

Che  agli  aspri  si  rompesti  lidi  ronrliiosi, 
Strepitavau , mugghiavano  , e di  bianca 
Spuma  coprian  tatta  la  sponda , mentre 
Porto  capace  di  navigli , o seno 
Non  vi  s’apria,  ma  littorali  punte 
Risaltavano  in  fuori , e scogli , e sassi.  ^ 

Le  forze  a tanto  , ed  il  coraggio  Ulisse 
Fallir  si  sente,  e dice  a sè , gemendo  : 5io 

Qual  prò  , che  Giove  il  disperato  suolo 
Mostri,  e io  m’abbia  la  via  per  Fonde  aperta. 
Se  delFuscirne  fuor  non  veggio  il  corner 
Sporgoii  su  l’onde  acuti  sassi , a cui 
J.'impctuoso  flutto  intorno  freme, 

E una  rupe  va  su  liscia  e lucente: 

Nè  COSI  basso  è il  mar , che  nell’arena 
Fermare  il  piè  securameiite  io  valga. 

Quindi , s’io  trar  men  voglio,  un  gran  maroso 
Sovra  di  sè  può  tonni , e in  dura  pietra  53a 
Oicciarmi  ; o s'io  lungo  le  rupi  cerco 
Notando  un  porto,  o una  declive  schiena, 
Temo  , non  procellosa  onda  ni’avvolga, 

E sospirando  gravemente  in  grembo 
Mi  risospinga  del  pescoso  mare. 

Forse  un  de’  mostri  ancor,  che  molti  nutre 
Ne*  gorghi  suoi  la  nobile  Anfìtrite, 

M’assalirà  : che  l’odio  io  ben  conobbi, 

Che  m’ha  quel  Dio  , per  cui  la  terra  trema. 

Stando  egli  in  tal  pensieri,  una  sconcia  onda 
Traportollo  con  sè  ver  Fineguaìe  (54o 

Spiaggia,  che  lacerata  in  un  sul  punto 
Li  pelle  avriagli , e sgretolate  l'ossa, 

Senza  un  consiglio,  che  nel  cor  gli  pose 

L'occhicerulea  Diva.  Afl'errò  ad  ambe 

Mani  la  rupe  , in  ch’ei  già  dava  , c ad  essa 

Gemendo  s'atlenea.  Deluso  intanto 

(ili  pasMÌ  su  la  testa  il  violento 

Flutto  : se  non  che  poi , tornando  indietro, 

Con  nuova  furia  il  ripercosse , e lunge  55o 
Lo  sbalzò  delia  spiaggia  al  mare  in  grembo. 
Polpo  COSI  dalla  pietrosa  tana 
Strappato  vicn  : salvo  che  a Ini  non  pochi 
Restai!  lapliii  nelle  branche  iiilitti, 

E Ulisse  in  vece  la  squarciata  pelle 
Delle  nervose  man  lasciò  alla  rupe. 

L’onde  allora  il  coprirò,  e Finfelice 
Lontra  il  fato  perla:  ma  infuse  a lui 
Nuovo  pensler  rocchiazzurrina.  Sorto 
DalFomie,  il  lido  costeggiava,  ai  flutti,  ò6o 
Che  vel  portavan  , contrastando  , e attento 
Mirando  sempre,  se  da  qualche  parte 
Scendesse  una  pendice,  o un  seno  entrasse: 

Nè  dall'opra  cessò,  che  d’nn  bel  fiume 
(Jiunto  si  vide  aU'argentina  foce. 

Ottimo  qui  gli  sembrò  il  loco  al  line, 

Siccome  quel , che  nè  di  sassi  aspro  era, 

Nè  discoperto  ai  venti.  Avvisò  ratto 
ri  puro  umor  , che  devolveasi  al  mare, 

E tal  dentro  di  sè  preghiera  feo  : 570 

O chiunque  tu  sii  Ile  di  quest’arqne, 

Odimi  : a te,  cui  sospirai  cotanto, 

Gli  sdegni  di  Nettuno,  e le  minacce 
Fuggendo,  io  m’appresento.  ii  sacra  cosa 
Per  gPlmmortali  ancor  Fuom,  che  d'allroude 
Venga  errando,  com*io,  che  dopo  molti 
Durati  alfannl  ecco  alla  tua  corrente 
Giungo  , e ai  gìuocchi  tuoi.  Pietà  d’Ubsse, 


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3i 


LIBRO 

Che  tuo  supplice  redi,  o Re,  ti  prenda. 

Dimise}  ed  il  Nume  acchetò  il  cursO|  c Ronda 
Ritenne,  sparse  una  perfetta  calma,  (5^u 

K alla  foce  il  salvò  del  suo  bel  fiume. 

L’eroe,  tocca  la  terra,  ambo  ì ginocchi 
Riegò,  piegò  le  nerborute  braccia: 

Tanto  il  gran  sale  i'afilig;.^ea.  Gonfiava 
Tutto  quanto  il  suo  corpo , e per  la  bocca 
Molto  mar  gli  sgorgava,  e per  le  nari; 

Ed  ei  senza  respiro,  e senza  voce 
Giaceasi , e spento  di  vigore  adatto; 

Chè  troppa  nel  suo  corpo  entrò  stanchezza.  5qo 
Ma  come  il  fiato,  ed  il  pensier  riebbe, 

Tosto  dal  petto  la  divina  benda 

Sciolse , e gittola  , ove  amareggia  il  fiume. 

La  corrente  rapivala;  nè  tarda 
A riprenderla  fu  con  man  la  Dea, 

Hi , dall’onda  ritrattosi,  chinossi 

Su  i molli  giunchi,  c baciò  Talina Terra. 

Voi  nel  secreto  delta  sua  grand’alma 
Così  parlava,  e so.-pirava  insieme: 

Hierni  Dei,  che  mi  rimane  ancora  600 

Di  periglioso  a tollerar?  Dov’io 
Questa  gravosa  notte  al  fiume  in  riva 
Vegghiassi,  l’aer  freddo,  e il  molle  guazzo 
Potrian  me  di  persona,  e d’alma  infermo 
Struggere  al  tutto:  chè  su  i primi  albori 
Nemica  brezza  spirerà  dai  fiume. 

Salirò  al  colle  in  vece,  ed  all’ombrosa 
Selva,  e m’addormirò  tra  Ì folti  arbusti, 

Sol  che  non  vieti  la  fiacchezza,  o il  ghiado, 

Che  il  sonno  in  me  passi  furtivo?  Preda  610 


SESTO.  ' 

Diventar  delle  fere , e pasto  io  temo. 

Dopo  molto  dubbiar  quedto  gli  parrò 
Meli  reo  partito.  Si  rivolge  al  bosco, 

Che  non  funge  dall’arque  a un  poggio  in  cima 
l'ea  di  sé  mostra,  e s’internò  tra  due 
Sì  vicini  arboscei,  che  dalla  stessa 
Radice  uscir  pareano,  ambi  d’ulivo, 

; Ma  domestico  l'un,  l'altro  selvaggio, 
i La  forza  non  crollavali  de*  venti. 

Nè  l’igneo  Sole  co’ suoi  raggi  addentro  fiso 
Li  saettava,  nè  le  druse  piogge 
Penetravan  tra  lor  : si  uniti  insieme 
Crebbero  , e tanto  s’intrecciaro  i rami. 

Ulisse  sotleiitrovvi,  e ammontirossi 
Di  propria  niaii  commodu  letto,  quando 
Tal  ricchezza  era  qui  di  foglie  sparse, 

Che  ripararvi  uomini  tre,  nonché  uno, 

Potuto  avriano  ai  più  crudeli  verni. 

Gioì  alla  vista  delle  molle  foglie 

L'uom  divino,  e corcossi  entro  alle  foglie,  63o 

m a sè  di  foglie  sovrappose  un  munte. 

Come  se  alcun,  che  solitaria  suole 
Condur  la  vita  in  sul  confili  d’iin  campo, 

Tizzo  nasconde  fumeggiante  ancora 
Sotto  la  bruna  cenere,  e del  foco, 

Percliè  cercar  da  sè  lungi  noi  debba, 

Serba  in  tal  modo  il  prezioso  seme  ; 

Così  colossi  tra  le  foglie  Ulisse. 

Pallade  allor,  che  di  sì  rea  fatica 

Bramava  torgli  Piniportuno  senso,  C40 

Un  sonno  gli  versò  dolce  negli  ocxhi, 

Le  dilette  palpebre  a lui  vcìuiido. 


LIBRO  SESTO 


ARGOMENTO 

Pallade  va  ocll’isola  de’Feaci,  ed  appare  in  sofmo  a Nausica,  fìf^lìa  del  Re  Alcinoo*  e l'csorta  condurli  al 
6ume  a lavar  le  vr«li,  avvicinandosi  il  giorno  delle  sue  nuzte.  Nausicn,  ottenuto  dal  [tadre  il  cocchio,  e^ce 
della  cittii.  Lavate  le  vesti,  inclusi  a giuncare  alla  palla  con  le  sue  ancelle.  I»  strepito  risveglia  Ulisse,  che 
ancor  dtirioia,  e che,  preaeaUtosi  alia  Priocipessa,  pregala  di  suvvcoiiueaUi.  Ella  il  s<>cct>rre  di  cibo,  e vestito; 
e guidalo  alia  città. 


JVTentre  sepolto  in  un  profondo  sonno 
Colà  posava  il  travagliato  Ulisse, 

Minerva  al  popol  dc’l‘'eaci,  e all’alta 
Lor  città  s’avviò.  Questi  da  prima 
Ne’ vasti  d’Iperéa  fecoudi  piani 
Far  dimora  soleaii,  presso  i Ciclopi, 

Gente  di  cor  superbo,  e a’ suoi  vicini 
'Panto  molesta  più,  quanto  più  forte. 

Quindi  Nau&itoo,  suniigiiante  a un  Dio, 

Di  tal  sede  levolli,  e in  una  terra,  10 

C’he  dagli  uomini  industri  il  mar  divide. 

Oli  allogò,  nella  Sch'^ria;  e qui  condusse 
Alla  cittade  una  muraglia  intorno, 

Le  case  fabbricò,  divise  i campi, 

E agl’immortali  i sacri  templi  eresse. 

Colpito  dalla  Parca,  ai  foschi  regni 
Era  già  sceso,  e Alcmoo,  che  i beati 
Numi  assennato  avean,  reggea  lo  scettro. 

L’occliicilestra  Dea,  che  sempre  fissa 


Nel  ritorno  d’Ulisse  avea  la  mente,  ao 

Tenne  verso  la  reggia,  e alla  secreta 
Dt*dalea  stanza  rivolse,  dove 
Giovinetta  dormia,  che  le  Immortali 
L’jiidoie  somigliava,  c di  fattezze, 

Nausica  , del  Ile  figlia  ; ed  alia  porta, 

Che  rinchiusa  era,  e risplendea  nel  biijo, 
Giacean  due,  l’uiia  quiii'  ì,  e l’altra  quimll. 
Pudiche  ancelle,  cui  le  Grazie  istesse 
Di  non  vuigar  beltà  la  faccia  ornaro. 

La  Dea,  che  gli  octhi  in  azzurrino  tinge,  3o 
Quasi  fiato  leggier  di  piccioi  vento, 

S’avviciiiò  della  fanciulla  al  letto, 

E sul  c<ipu  le  stette,  e,  preso  il  volto 
Della  figlia  dei  prode  in  mar  Dimante 
Multo  a lei  cara,  e ugual  d’etadc  a lei, 

Cotali  le  drizzò  voci  nel  sonno  : 

Deh,  Nausica,  perchè  te  cosi  lenta 
La  genitrice  partorì?  Neglette 


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Sa  ODI, 

Ljéscì  piacerli  le  leggiadre  vesti, 

Benché  deile  tue  no2ze  il  d'i  b’appressi,  40 
Quando  le  membra  tue  cinger  dovrai 
Delle  vesti  leggiadre  , e a quelli  otiVirne, 

Che  scorgerauli  dello  spo^u  ai  tetti. 

Cosi  fama  &’acquista,  e ne  gioisce 
Col  genitor  la  veuerandu  madre. 

Dunque  i bei  panni,  come  il  cielo  imbianchi, 
Vadasi  a por  nell’onda  : io  neirnupresa. 

Onde  trarla  più  ratto  a fin  tu  poiwi, 

Compagna  ti  saio.  Vergine,  io  credo, 

Non  rimarrai  gran  pezza;  e già  di  questo,  60 
Tra  cui  nascesù  e tu,  popol  Fcace 
I migliori  ti  ambiscono,  bu  via, 

Spuntalo  appena  in  Onente  il  Sole, 

Trova  l’inclito  padre,  e de’gagUaidi 
Muli  il  riclm  tli,  e del  polito  carro 
Che  i pepli,  gli  scheggiali,  e i preziosi 
Manti  conduca  : poiché  si  distanno 
Dalia  città  i lavacri,  che  del  cocchio 
Valerti,  e non  del  piede,  a te  s’addice. 

Finiti  ch’ebbe  tali  accenti,  e messo  6«> 

Consiglio  tal  della  fanciulla  in  petto, 

La  Dea,  che  guarda  con  azzurre  lue», 
All’Olimpo  tornò,  tornò  alla  ferma 
De’sempilcriii  Dei  sede  tranquilla, 

Che  nè  i venti  commuovono,  nè  bagna 
La  pioggia  mai,  nè  mai  la  neve  ingombra: 

Ma  un  seren  puro  vi  si  spande  sopra 
Da  nube  alcuna  non  olTeso,  e un  vivo 
Candido  lume  la  circonda,  m cui 
Si  giocondau  mai  sempre  j Dii  beati.  70 

L’Aurora  intanto  d’in  su  l’aureo  trono 
Comparve  in  Oriente,  e alla  sopita 
Vergine  dal  bel  peplo  i lumi  aperse. 

La  giovinetta  s’ammiiò  del  sogno, 

£ al  padre  per  narrarlo,  ed  alla  madre 
Corse,  e trovoUì  nel  {i^ilagio  entrambi. 

La  madre  assisa  al  focolare,  e cinta 
Dalle  sue  fanti,  e con  la  destra  al  fuso. 

Lane  di  fina  porpora  torcia. 

Ma  nel  caro  suo  padre  tu  quel  che  al  grande  80 
Concilio  andava,  ove  atlandeanlo  i Capi 
De’Feacesi,  s’abbattè  ^ausica, 

£,  stringendosi  a lui , Babbo  mio  dolce, 

TJori  vuoi  tu  farmi  apparecchiar,  gU  disse, 
L'eccelso  carro  dalle  lievi  ruote, 

Acciocché  le  neglette  io  rechi  al  fiume 
Vesti  oscurate,  e nitide  le  tornì? 

Troppo  a te  si  convìen,  che  tra  ì soprani 
Nelle  consulte  ragionando  siedi, 

Seder  con  monde  vestimenta  in  dosso.  90 
Cinque  in  casa  ti  vedi  amati  figli, 

Due  già  nel  maritaggio,  e tre,  cui  ride 
Celibe  fior  di  giovinezza  in  volto. 

Questi  al  ballo  ir  vorrian  con  panni  sempre 
Giunti  dalle  lavande  alloia  allora. 

£ tai  cose  a me  sou  pur  tutte  in  cura. 

Tacquesi  a lanto  : chè  toccar  le  nozze 
Sue  giovanili  non  s’ardia  col  padre 
Ma  ei  comprese  il  tutto,  e si  rispose: 

Kè  di  questo  io  potrei,  nè  d'altro,  o figlia,  lou 
Non  Soddisfarti.  Va  : l’alto,  impalcato 
Carro  veloce  uppresteranti  i servi. 

Disse;  e gli  ordini  diede,  e pronti  i servi 
La  molar  biga  dalle  lievi  ruote 


S E A 

Tra.vser  fuori,  e allestirò,  c i forti  muli 
Vi  iniser  sotto,  e gli  accuppiaro.  Intauto 
Venia  Nautica  con  le  belle  vesti, 

Che  su  la  biga  lucida  depose. 

Cibi  graditi,  e di  sapor  diversi, 
ha  madre  collocava  in  gran  paniere,  no 

E nel  capace  sen  d’otn*  ceprigno 
Vino  iiiUmdea  siiave:  indi  alia  figlia, 

Ch’era  sul  cocchio,  perchè  dopo  il  bagno 
Se  con  le  ancelle,  che  seguianla.  ungesse, 

Porse  in  ampolla  d'òr  liquida  oliva. 

Nausica  in  man  le  rilucenti  briglie 
Prese,  prese  la  sferza,  e diè  di  questa 
Sovra  il  tergo  ai  quadrupedi  robusti, 

Che  si  moveano  strepitando,  e i passi 
Senza  posa  allungavano,  portando  120 

Le  vesti,  e la  fRiiciulia,  e non  lei  sola, 

Quando  ai  fianchi  di  lei  sedfan  le  ancelle. 

Tosto  che  fur  dell’argentino  fiume 
Alla  pura  corrente,  ed  ai  lavacri 
Di  viva  ridondanti  acqua  perenne, 

Da  cui  macchia  non  è,  che  non  si  terga, 

Sciolsero  ì muli , e al  vorticoso  fiume, 

Il  verde  a morsccchiar  cibo  soave  * 

Del  mele  al  pari,  li  mandaru  in  riva. 

Poscia  dal  cocchio  su  le  braccia  i drappi  100 
Kecavansi,  egittavanli  neironda, 

Che  nereggiava  tutta;  e in  larghe  fosse 
Gianli  con  presto  piè  pestando  a prova. 

Purgati,  e «etti  d’ogm  lor  bruttura. 

L’uno  appo  Taltro  gli  stendean  sul  lido, 

Là  dove  le  pìetrnzze  il  mar  poliva. 

Ciò  fatto,  si  bagnò  ciascuna,  e s’unse, 

K poi  del  fiume  pasteggiar  sul  margo: 

Mentre  d’alto  co'raggi  aureuluceuti 

Gli  stesi  drappi  rasciugava  il  Sole.  140 

Ma,  spento  della  mensa  ogni  desio, 

Una  palla  godcan  trattar  per  gioco, 

Deposti  prima  dalia  testa  i vefi; 

Kd  il  canto  intonava  alle  compagne 
Nausica  bella  dalle  bianche  braccia. 

Come  Diana  per  gli  eccelsi  monti 

0 del  Taigeto  muove,  o d’Krimanto, 

Con  la  taretra  agli  omeri,  premlemio 
De’rattì  cervi,  e de’cinghiai  diletto: 

Scherzan,  prole  di  Giove,  a lei  d’intorno  160 
Le  bpscherccce  Ninfe,  onde  a I.atoua 

S»*rpe  nel  cor  tacita  gioja;  ed  ella 
Va  del  capo  sovrana,  c della  fronte 
Visibilmente  a tutte  l’altre,  e vaga 
Tra  loro  è più  qual  da  lei  meno  è vinta: 

Così  spiccava  tra  le  ancelle  questa 
Da  giogo  maritai  vergine  intatta. 

Nella  stagion,  che  al  suo  paterno  tetto, 

1 muli  aggiunti,  e ripiegati  1 manti, 

Ritornar  disponea,  nacque  un  novello  160 
Consiglio  in  mente  aU’occhiglauca  Diva, 

Perchè  Ulisse  dissonnisi,  e gli  appaja 

La  giovinetta  dalle  nere  ciglia, 

Chede’Feaci  alla  cittade  il  guidi. 

Nausica  in  man  tolse  la  palla,  e ad  una 
Delle  campagne  la  scagi.ò  : la  palla 
Desviossi  dal  segno,  a cui  volava, 

K nel  profondo  vortice  cade. 

Tutte  misero  allora  un  alto  grido, 

L’er  cui  si  ruppe  incouUneueute  il  sonno  1 70 


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33 


LIBRO 

Nel  capo  a Ulisse,  che  a seder  drizaossi^ 

Tal  cose  in  sè  volgendo  : Ahi  fra  qual  gente 
Mi  ritrovo  io?  Cruda,  villana,  ingiusta, 

O amica  degli  estrani , e ai  Dii  sommessa? 
Quel,  che  rorecchio  mi  percosse,  un  grido 
Femminil  parmi  di  fanciulle  Ninfe, 

Che.de^  monti  su  i gioghi  erti,  e de*  fiumi 
Nelle  sorgenti,  e per  Terbose  valli 
Albergano.  O son  forse  umane  voci , 
die  testé  mi  ferirò?  Io  senza  indugio  iBo 
Dagli  stessi  occhi  miei  sapronne  il  vero. 

Ciò  detto,  uscia  l'eroe  fuor  degli  arbusti, 

£ con  la  man  gagliarda  in  quel,  che  uscia , 
Scemò  la  selva  d.*un  foglioso  ramo, 

Che  velame  gli  valse  ai  fianchi  intorno. 

Quale  da  natio  monte,  ove  la  pioggia 
Sostenne,  e i venti  impetuosi,  cala 
Leon,  che  nelle  sue  forze  confida: 

Foco  son  gli  occhi  suoi;  greggia,  ed  armento, 
O le  cerve  salvatiche,  al  digiuno 
Ventre  ubbidendo  , parimente  assalta , 

Nè , perchè  senta  ogni  pastore  in  guardia , 
Tutto  teme  investir  l'ovile  ancora  : 

Tal,  benché  nudo,  sen  veniva  Ulisse, 
Necessità  stringendolo,  alla  volta 
Delle  fanciulle  dal  ricciuto  crine. 

Cui,  lordo  di  salsuggine,  com'era  , 

Si  lìera  cosa  rassenibrò,  che  tutte 
Fuggirò  qua  c là  per  l’alte  rive. 

Sola  d’Àlcinoo  la  diletta  fìgUa,  2Òo 

Cui  Paliade  nell'alma  infuse  ardire  , 

E fraiuò ’d’ogni  tremito  le  membra, 
Piantossigli  di  centra,  e immota  stette. 

In  due  pensieri  ei  dividea  la  mente  : 

O le  ginocchia  strigiicre  a Nausica, 

DI  supplicante  in  atto,  o di  lontano 
Fregarla  molto  con  blande  parole. 

Che  la  città  mostrargli,  e d’una  vesta 
Rilornirlo,  volesse.  A ciò  s'attenne: 

Chè  dello  strigner  de'ginocchi  sdegno  aio 
Tornea,  che  Ìii  lei  si  risvegliasse.  Accenti 
Dunque  le  inviò  blandi,  e accorti  a un  tempo. 

Regina,  odi  i miei  voti.  Ah  degg'io  Dea 
Chiamarti , o umana  donna?  Se  tu  alcuna 
Sei  delle  Dive,  che  in  Olimpo  han  seggio. 

Alla  bcitade,  agli  atti , al  maestoso 
Nobile  aspetto,  io  l'immortal  Diana, 

Dei  gran  Giove  la  figlia,  in  tc  ravviso. 

E se  tra  quelli,  che  la  terra  nutre, 

Le  luci  apristi  al  dì,  tre  volte  il  padre  220 
Beato,  e tre  la  madre  veneranda , 

£ beati  tre  volte  i tuoi  germani, 

Cui  di  conforto  almo  s'allarga,  e brilla 
Di  schietta  gioja  il  cor,  sempre  che  in  danza 
Vegglono  entrar  sì  grazioso  germe. 

Ma  felice  su  tutti  oltra  ogni  detto 
Chi  potrà  un  dì  nelle  sue  case  addurti 
D'illustri  carca  nuziali  doni. 

Nulla  di  tal  s’offerse  unqua  nel  volto 
O di  femmina,  o d'uomo,  alle  mie  ciglia  : 200 
Stupor,  mirando,  e riverenza  tiemini. 

Tal  quello  era  bensì,  che  un  |»iorno  in  Deio, 
Presso  l’ara  d'Apollo,  ergersi  io  vidi 
Nuovo  rampollo  di  mirabil  palma  : 

Chè  a Deio  ancora  io  mi  conaussi , e molta 
Mi  seguia  gente  armata  in  quel  viaggio, 

ODISSEA. 


SESTO. 

Che  in  danno  riuscir  doveami  al  fine. 

£ com'io,  hssi  nella  palma  gli  occhi, 

Colmo  restai  dì  maraviglia,  quando 
Di  terra  mai  non  surse  arbor  sì  bello,  340 
Così  te , donna,  stupefatto  ammiro, 

£ le  ginocchia  tue  , benché  m’opprima 
Dolore  immenso , io  pur  toccar  non  oso. 

Me  uscito  deU’Ogigia  isola  dieci 
Portava  giorni  e dieci  il  vento  , e il  fiotto. 
Scampai  dall’onda  ieri  soltanto  , e un  Nume 
Su  queste  piagg<?  > a trovar  forse  nuovi 
Disastri , mi  giUÒ  : poscia  che  stanchi 
Di  travagliarmi  non  cred'jo  gli  Eterni. 

Pietà  di  me , Regina , a cui  la  prima  aSo 
Dopo  tante  sventure  innanzi  io  vegno, 

Io , che  degli  abitanti , o la  campagna 
Tengali,  o la  città  , nessun  conobbi. 

La  cittade  m'addita  , e un  panno  dammi. 

Che  mi  ricopra ^ dammi  un  sol,  se  panni 
Qua  recasti  con  te,  di  panni  invoglio. 

Pi  a te  gli  Dei , quanto  il  tuo  cor  de^a, 

Si  compiaccian  largir:  consorte,  e figli, 

K un  sol  volere  in  due  \ però  ch'io  vita 
Non  so  più  invidiabile  , che  dove  260 

La  propria  casa  con  un'dlma  sola 
Veggonsi  governar  marito  , e donna. 

Duul  grande  i tristi  n'hanno,  e gioja  i buoni  : 
Ma  quei , ch'csultan  più  , sono  i due  sposi. 

O iorestier  , tu  non  mi  sembri  punto 
Dissennato  , e dappoco  , allor  risposo 
verginetta  dalle  bianche  braccia. 

L’Olimpio  Giove  , che  sovente  al  tristo 
Non  meli,  che  al  buon  , felicità  dispensa. 
Mandò  a te  la  sciagura  , e tu  da  forte  lyo 
La  sosterrai.  Ma  , poiché  ai  nostri  lidi 
Ti  convenne  approdar,  di  veste  , o d’altro, 

Cile  ai  supplici  si  debba  , ed  ai  meschini, 

Non  |>atirai  disagio,  lo  la  cittade 
I Mostrarti  non  rnuso  . e il  nome  dirti 
; Degli  abitanti.  £ de'  Feacì  albergo 
Questa  fortunata  isola  ^ ed  io  nacqui 
Dal  magnanimo  Alcinoo,  in  cui  la  somma 
Del  poter  si  restringe,  e dell'impero. 

Tal  favellò  Nausica  ; e alle  compagne,  380 
Olà  , disse , fermatevi.  In  qual  pane 
Fuggite  voi,  perchè  v’apparse  un  uomo? 

Mirar  credeste  d’un  nemico  il  volto? 

Non  fu , non  è , non  fia  , chi  a noi  s'attenti 
Guerra  portar:  tanto  agli  Dei  siam  cari. 

Oltre  che  in  sen  dell'ondeggiante  mare 
Solitari  viviam  , viviam  divisi 
Da  tutto  l’altro  della  stirpe  umana. 

Un  misero  è costui , che  a queste  piagge 
Capiiò  errando,  e a cui  pensare  or  vuoisi.  2qo 
Gli  stranieri , vedete , ed  i mendichi 
Veiigon  da  Giove  tutù , e non  v'ha  dono 
Picciolo  sì , che  lur  non  torni  caro. 

Su  via,  di  cibo,  e di  bevanda  il  nuovo 
Ospite  soccorrete;  e pria  d'un  bagno 
Colà  nel  fiume,  ove  non  puote  il  vento. 

I/O  compagne  ristéro,  cd  a vicenda 
Si  rincoraru;  e,  come  avea  d'Alciiioo 
La  figlia  ingiunto  , sotto  un  bel  frascato 
Menaro  Ulisse  , c accanto  a lui  le  vesti  3oo 
Poser,  tunica  , e manto  , e la  rinchiusa 
Nellampolla  (leU’òr  liquida  oliva: 


ODI 

(,)uin(Vi  ad  fnlrar  col  piè  nella  corrente 
] o inanimirò.  Ma  l’eroe:  Fanciulle, 

Appartarvi  da  me  non  vi  sia  grave, 

Finche  io  questa  salsiiggine  marina 
Mi  terga  io  stesso  , e del  salubre  m’unga 
DeU’oliva  licor  , conforto  ignoto 
Da  lungo  tempo  alle  mie  membra.  Io  certo 
Non  laver<>mmi  nel  cospetto  vostro  ; 3io 
Che  tra  voi  starmi  non  ardisco  ignudo. 

Trassrr  le  ancelle  indietro  , cd  a Nautica 
Ciò  riportare.  Ki  dalle  membra  il  sozzo 
Nettunio  sai  , che  gCincrostò  le  larghe 
Spalle,  ed  il  tergo,  si  togliea  col  liuoie, 

E la  bruttura  del  leroce  mare 
Dal  capo  s’astergea.  Ma  come  tutto 
4S1  fu  lavato  , ed  unto  , c di  que’  panni 
Vestito , rh’ehbe  da  Nausica  m dono, 

J.ni  Minerva  , la  prole  alma  di  (riove,  53o 
Maggior  d'aspettu  , e più  ricolmo  in  taccia 
Fese  , e più  Iresco  , e de’  capei  lucenti. 

Che  di  giacinto  a lior  parean  sembianti, 

Su  gli  omeri  cader  gli  leo  le  anella. 

£ qual  se  dotto  mastro  , a cui  deU’arte 
Nulla  celaro  Pallade  , e Vulcano  , 

Sparge  all’argento  il  liqnid’oro  intorno 

S: , che  aU’ulliino  suo  giunge  con  l’opra: 

'J'ale^ad  Ulisse  l’Atenéa  Minerva 

Crii  omeri  , e il  capo  di  decoro  asperse,  53o 

Ad  Ulisse,  che  po.-cia  , ilo  in  disparte, 

Sii  la  riva  sedea  del  mar  canuto, 

Di  grazia  irradiato  , e di  beltade. 

La  donzella  stordiva  ; ed  aH’ancelIe 
Dal  crin  ricciuto  disse  : Un  mio  pensiero 
Nascondervi  io  non  posso.  Avversi  il  giorno, 
Che  le  nostre  aRérrò  sjwnde  beate, 

Kon  erano  a costui  funi  del  cielo 
Gli  abitatori:  egli  d’uom  vile  c abbietto 
'l’isla  m’avea  da  prima  , ed  or  simile  040 
Sembrami  a un  Dio  , che  su  l’Olimpo  slerle. 

Oli  colui  fosse  tal  , che  i Numi  a sposo 
Mi  de&linaro  ! Ed  oh  piacesse  a Im 
Fermar  qui  la  sua  stanzii  ! Orsù,  di  cibo 
Sovvenitelo,  amiche,  e di  bevanda. 

Quelle  ascoltare  con  orecchio  teso, 

F.  il  comando  seguir  : cibo  , e bexamia 

All’ospite  imbandirò;  e il  paziente 

Divino  Ulisse  con  bramose  fauci 

I.’uno,  e l’altra  prendea,  qnal  chi  gran  tempo 

Dromo  ì ristori  della  mensa  indarno.  55o 

Qui  l’occhinera  \crgine  novello 
Partito  immaginò.  Sul  vago  carro 
Le  ripiegate  vestimenta  pose, 

Aggiunse  i muli  di  forte  unghia,  e salse. 

Poi  cosi  Ulisse  confortava  : Sorgi, 

Stranier,  se  alla  cittade  ir  ti  taleiiip, 

F.  il  mio  padre  veder,  nel  cui  palagio 
S’acCoglieran  della  Feacia  i Capi. 

Ma,  quando  folle  nmi  mi  sembri  punto,  3òo 
Cotj.l  modo  terrai.  Finché  moviamo 
Dt’  buoi  tra  le  fatiche  , e de’ coloni. 

Tu  con  le  ancelle  dopo  il  carro  vieni 
Non  lentamente  ; io  ti  .sarò  per  guida* 

Come  da  presso  la  cittade  avremo, 
Divideremci.  È la  città  da  un  alto 
Muro  cerchiata,  e due  bei  porti  vanta 
D’angii.sta  foce  , un  quinci , e l’altro  quindi, 


S E A 

Su  le  cui  rive  tutti  in  lunga  fila 
Posali  dal  mare  i naviganti  legni.  . 5jo 

Tra  un  porto , e l’altro  si  distende  il  foro 
Di  pietre  quadre , e da  vicina  cava 
Condotte,  lastricato  ; e al  foro  in  mezzo 
l/antlco  tempio  di  Nettali  $1  leva. 

Colà  gli  arnesi  delle  negre  navi, 

Gi»mene  , e vele,  a racconciar  s’mtcnde, 

K i remi  a ripulir:  chè  de’  Feaci 
Non  lusingano  il  core  archi , e faretre, 

Ala  veleggiaini  e remiganti  navi, 

Su  cui  pii»>aiio  allegri  il  mar  spumante. 

Di  cotcsioro  a mio  potere  io  sfuggo 
Le  voci  amare  , lum  alcun  da  tergo 
Mi  morda  , e tal , che  s’abbaUesse  a noi, 

Della  ic('cÌH  p ù vii , Chi  è , non  dica, 

Quel  forestiero,  che  Nausica  siegue, 
hello  d’aspetto,  e grande  ? Ove  irovollo? 

Certo  è lo  sposo.  Forse  alcun  di  quelli, 

Cile  da  noi  parte  il  mar  , ramingo  giunse, 

F.d  ella  il  ricevè  , che  uscia  di  nave  : 

O da  lunghi  chiamalo  ardenti  voti  3qo 

.Scese  di  cielo  , e le  comparve  un  Nume, 

Che  seco  riterrà  lutti  i suoi  giorni. 

P«ù  bell»)  ancor,  se  andò  ella  stessa  in  traccia 
D’ijoni  d’altronde  venuto,  e a lui  donossi, 
Dappoi  che  i molti , che  rambiaiio  , illuotri 
Feaci  tanto  avanti  ebbe  in  di.Hpettu. 

Così  diriano  ; e ciudeiineiitc  uilesa 
Ne  saiia  la  mia  fama.  Io  stessa  sdegno 
Concepirei  contra  chiunque  osasse. 

De*  genitori  non  contemi  in  faccia,  4^^ 

Pria  incs<'hìarsì  con  gli  uomini , che  sorto 
Fosse  dell^  sue  no/xe  il  di  festivo. 

Dunque  a’  miei  detti  bada  ; e leggiermente 
ilitmiio,  e scorta  impetrerai  dai  padre. 

Folto  di  pioppi  , e<l  a Minerva  sacro 
Ci  s’odriià  ;>er  via  bosco  ironzuto, 

Cui  viva  fonte  bagna  , e niulli  prati 

Cingono  : ivi  non  più  dalla  cittade 

Lontan,  che  un  gridar  d’uomo,  il  bel  podere 

Giace  del  padre,  e l’orto  suo  verdeggia.  410 

Ivi  tanto,  che  a quella  , ed  ai  paterno 

Tetto  io  giunga  , 8usti*^ui  ; e allur  che  giunta 

Mi  crederai  , tu  pur  t’inurba  , e cerca 

il  palagio  del  Re.  Del  Re  il  p<«lagin 

Gli  occhi  tosto  a sé  chiama  , e uu  fanciullino 

Vi  ti  potria  condur  : chè  de’  Feaci 

Von  sorge  ostello  , che  il  paterno  adegui. 

Entrato  nel  corlil  , rapidamente 

Sino  alla  madre  mia  per  lesiijKrbe 

Camere  varca.  Ella  davanti  al  loco,  ^1.0 

Che  del  suo  lume  le  colora  il  volto, 

Siede,  e,  poggiata  a una  colonna  , torce, 

Degli  sguardi  sUipor,  purpuree  lane. 

Siedonle  a tergo  le  fantesche , e pre.sso 
S’alza  del  padre  ìi  trono  , in  ch’ei , qual  Dio, 
S’adagia  , e della  vite  il  nettar  bee. 

Declina  il  trono,  c stendi  alle  ginocchia 
Della  madre  le  braccia  ; onde  ira  poco 
Del  tuo  ritorno  alle  natie  contrade  , 

Per  remote  che  sieri,  t!  spunti  il  giorno.  43o 
Studiati  entrarle  tanto  o quanto  in  core; 

K di  non  riveder  le  patrie  .sponde, 

(Hi  alberghi  aviti , e degli  amici  il  volto  , 
Bandisci  dalla  mente  ogni  sospetto. 


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LIBRO  S 

Dello  così,  della  lucente  sferza 
Diè  su  le  groppe  ai  TÌgorosi  muli , 

Che  pronti  si  lasciaro  il  liume  addietro. 

Veiiiati  correndo,  ed  alternando  a gara, 

Dello  a vedersi , le  nervose  gainl>e; 

K la  donzella,  perchè  Ulisse  a piede  440 

Lei  con  le  ancelle  seguitar  potesse, 

Attenta  carreggiava  , e i'ea  con  arte 
Scoppiare  in  alto  della  siorza  il  suono. 

C^dea  iieil’acque  Occidentali  il  Sole, 
die  al  sacro  di  Minerva  illustre  bosco 
l'uro  'j  cd  Ulisse  ivi  s'assise.  (Quindi  ' 


E T T I M 0.  5;, 

A.  Minerva  pregava  in  tali  accenti  : 

Odimi,  invitta  deirKgì'oco  hglia  , 

Kd  oggi  almeri  la  pieni  i voli  miei 

Tu  , che  pieni  i miei  voti  uiKpia  non  festi , 4Ó0 

riuchè  su  Tonde  mi  sbalzò  Nettuno. 

Tu  dammi  , che  gradito  , r non  imlegrto 
Di  pleiade,  ai  Feaci  io  m'appresimti. 

Disse , e Falla  l'iidì  : ma  non  ancora 
Visibilmente  gli  assistea  per  trina 
Del  zio  possente  , a!  cui  tremendo  cruccio 
Kra  pria  , che  i natii  lidi  toccasse  , 

Bersaglio  eterno  il  pari  ai  Numi  Ulisse. 


LIBRO  S E T T I I\I  0 


ARGOMENTO 

\austra  giunge  alU  ciltii,  ni  alla  n^gia,  e Ulisw  p^co  ilupo,  a cui  Miperva  sotto  umana  forma  presentati, 
e cui  di  più  cose  informa,  die  ujier  gli  cnuvicno.  Stii|Nir  di  lui  alla  vista  del  {latagìo  d’Alcinoo , e descritti  n*- 
cosi  di  questo,  come  «lei  famoso  giardino.  Eutr.ito  ori  palagio,  supplica  la  Hrgina  Arrte  , dalla  cpiale  , cntn>* 
pur  dal  Re,  e dagli  altri  Capi,  è eoa  benignità  rìrrvuto.  Interrogato  dalla  Rrgiua  , che  riconobbe  le  vesti 
ch'egli  avea  indosao,  narra  in  qual  iumIo  capitò,  iasciiU  Calipso,  aiPiscU  de' Feaci. 


IVIentiik  coai  pregava  Ìl  paziente 
Divino  Ulisse  , rial  vigor  de'muli 
Portata  era  Nausics  alla  cittade. 

Giunta  d'Alcinoo  alia  magion  sublime  , 
S'arrealò  nel  vestibolo  j e i germani. 

Belli  al  par  degli  Eterni , intorno  a lei 
DVgni  parte. veniali  : sciolsero  i muli , 

E le  vesti  recaro  entro  la  reggia. 

Ma  la  fanciulla  il  piede  alla  secreta 

Movea  sua  stanza  , e raccendeale  ìl  foco  10 

Eurimedusa  , una  sua  vecchia  fante  , 

Nata  in  Epiro  , e su  le  negre  navi 
Condotta,  e al  prode  Alcinoo  ofi'erta  in  dono, 
Perchè  ai  Feaci  ei  comandava  , e luì , 

Qual  se  un  Dio  favellasse  , udian  le  genti. 
Costei  Natisica  dal  braccio  di  neve 
Rallevò  nel  palagio;  ed  ora  il  foco 
Raccendeale,  e inettea  la  rena  in  punto. 

Ulisse  intanto  sorse , e il  caminin  prese 
Della  città.  Ma  TAtenóa  Minerva  , 20 

Che  da  lui  non  torcea  Tucchio  giammai, 

Di  molta  il  cinse  impenetrabil  nebbia  , 

Onde  nessun  Feace  o di  parole. 

Scontrandolo , il  mordesse  , o il  domandasse 
Del  nome , e della  patria.  Ei  già  già  entrava 
IVelTamena  città  , quando  la  Diva 
Gli  occhi  cerulea  se  gli  fece  incontro  , 

Non  dissimile  a vergine , che  piena 
Sul  giovinetto  capo  unta  sostenti. 

Stettegli  a fronte  in  tal  sembianza,  e Ulisse  5o 
Così  la  interrogava  : O hgba  . al  tetto 
D'Alcinoo , che  tra  questi  uomini  impera , 
Vuoi  tu  condurmi  ? lo  foreAtier  di  lunge  , 

E dopo  molti  guai  venni , nè  alcuno 
Della  città  conobbi  , o del  contorno. 

Ospite  padre  , rispondea  la  Diva 
Dai  glauchi  lumi , il  tetto  desiato 
Mostrar  ti  posso  dì  Icggier  ; cliè  quello 


Del  mio  buon  genltor  per  poco  il  tocca. 

Ma  in  silenzio  tu  seguimi , e lo  sguardo  40 
\on  drizzare  ad  alcun  , non  che  la  voce. 
Render  costoro  agli  stranieri  onore 
Non  sanno  punto  , nè  accoglienze  amiche 
Trova  , o carezze  qui , chi  altronde  giunga. 
Essi,  fidando  nelle  ratte  navi, 

Ter  favor  di  Nettuno  il  vasto  mare 

1(1  un  istante  varcano  : veloci 

Come  Tale  , o il  pcnsier,  sono  i lor  legni. 

D(rtlc  tai  cose  , hettolosa  Pdlla 
Gli  entrava  innanzi,  e Torme  ei  ite  calcava.  60 
Nè  i Feaci  scorgeanlu  ondar  tra  loro  : 

Cos'i  volendo  la  pos.sente  Diva  , 

Palude  , che  al  suo  ben  sempre  iiitendea  , 

E di  sacra  TavvuUe  oscura  nube. 

Ulisse  i porti , e i ben  cuiistruttì  legni 
Maravigliava  , e le  superbe  piazze  , 

Ove  i Pienci  s’assembrano  , e le  lungUc  , 
Spettacolo  amriiirHiidu  , eccelse  mura 
Di  steccati  munite  e dì  ripari. 

Ma  non  prima  d'Alcinoo  alle  regali  60 

Case  appressare  , che  Minerva  disse  : 

Eccoti , ospite  padre  , in  faccia  il  tetto , 

Che  mi  richiedi  : là  vedrai  gli  alunni 
Di  Giove,  i Prenci , a laiilu  mensa  assìsl. 
Cucciati  dentro  , e non  temer  : l’uom  fruuco 
D’ogni  difTicultate  , a cui  s'incontri , 

Meglio  si  trae , beiiciiè  di  lunge  arrivi. 

Pria  la  Regina  , che  si  noma  Avete  , 

K coniiiu  CUI!  Alcinoo  il  sangue  vanta  , 

Ti  s'oflrirà  alla  vista.  Il  Dio,  che  scuole  70 
Del  suo  tridente  la  terrena  mole, 

Uu  bambin  ricevè  daiU  più  bella 
Donna  dì  quell'età  , du  PerìLca  , 

Figlia  minor  d'Eurimeduiite  , u cui 
De'  (Lgauii  oMxHlia  Toltracotnta 
Progenie  rea  , che  per  le  lunghe  gtiecre 


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36  ODI 

Tutta  col  BUG  He  stesso  al  fin  sVstiiise. 

^ettuD  di  lei  s’accese,  e n’ebbe  un  liglio  , 
>jausitoo  generoso  , il  qual  fu  padre 
Di  Ressenore , e Alcinoo  j e sul  Feace  8u 
Fopol  regnava.  Il  primo , a cui  f'aliia 
Prole  del  miglior  sesso , area  di  poco 
Nella  sua  reggia  la  consorte  addotta  , 

Che  Apollo  dall’argenteo  arco  il  trafisse; 

Kè  rimase  di  lui , che  una  figliuola  , 

Arete  , e questa  in  moglie  Alcinoo  tolse , 

£ vcnerolla  fieramente  : donna 
Kon  vive  in  nodi  maritali  stretta , 

Che  sì  alto  al  suo  sposo  in  mente  sieda. 

£ in  gran  pregio  non  men  l’hanno,  ed  amore  90 
Portanle  i figli , e i cittadini  ancora  , 

Che  a lei , quandunque  va  per  la  cittade , 

Gli  occhi  aizan , come  a Diva  , e con  accenti 

Festivi  la  ricevono  : chè  senno 

Nè  a lei  pur  manca  ver  chi  più  tien  caro  , 

£ le  liti  non  rado  ella  compone. 

Se  un  loco  prender  nel  suo  cor  tu  sai , 

£u  terra  , dove  i lumi  apristi  al  giorno  , 

1^  magion  de’  tuoi  padri  , e degli  amici 
1 noti  volti  riveder  confida.  100 

Detto , la  Dea , ch’è  nelle  luci  azzurra. 

Su  pel  mare  infruttifero  lanciossi , 

Lasciò  la  bella  Scheria  , e ^Maratona 
Trovò , ed  Atene  dalle  larghe  vie  , 

E nel  suo  tempio  entrò  , che  d'Erettco 
Fu  rocca  inespugnabile.  Ma  Ulisse 
AlFostello  reale  il  piè  movea  , 

£ molte  cose  rivolgea  per  l’alma  , 

Pria  ch’ei  toccasse  della  soglia  il  bronzo  : 

Chè  d’Alcinuo  magnanimo  l’augusto  110 

Palagio  chiara  , qual  di  Sole  , o Luna  , 
Mandava  luce.  Dalla  prima  soglia 
Sino  al  fondo  correan  due  di  massiccio 
Rame  pareti  risplendenti , e un  fregio 
Di  ceruleo  metal  girava  intorno. 

Porte  d’òr  tutte  la  inconcus.'^a  casa 
Cluudean  : s’ergean  dui  limitar  di  bronzo 
Saldi  stipidi  argentei,  ed  un  argenteo 
Sosteneano  architrave  , e anello  d’oro 
Le  porte  ornava  ; d’ambo  i lati  a cui  120 
Stavan  d’argento , e d'òr  vigili  cani , 

Fattura  dì  Vulcan  , che  in  ìor  ripose 
Viscere  dotte , e da  vecxhiezza  immutii 
Teroperolli , c da  morte , onde  guardalo 
Fosse  d’ Alcinoo  il  glorioso  albergo. 

£ quanto  si  stendeaii  le  due  pareti  , 

Eranvi  sedie  quinci  e quindi  afllsse 
Con  fini  pepli  sovrapposti , lunga 
Delle  donne  dì  Scheria  opra  solerte. 

Qui  de’  Feaci  s’assideano  i primi  , i5o 

La  mano  ai  cibi , ed  ai  licor  porgendo  , 

Che  lor  metteansi  ciascun  giorno  avaule: 

£ la  notte  garzoni  in  uro  sculti 
Su  piedistalli  a grande  arte  construtti 
Spargean  lume  con  faci  in  su  le  mense. 
Cinquanta  il  Re  servono  ancelle  : Tune 
Sotto  pietra  ritonda  il  biondo  grano 
Frangono  ; e l’altre  o tesson  panni,  o fusi 
Con  la  rapida  mau  rotano  assise, 

Movendosi  ad  ognor,  quali  agitate  t4o 

Dal  vento  foglie  di  sublime  pioppo. 

Splendono  i drappi  a maraviglia  intesti , 


S S E A 

Come  se  un  olio  d’òr  su  vi  scorresse. 

Poiché  quanto  i Feaci  a regger  navi 
Gente  non  han , che  lì  pareggi , tanto 
Valgon  tele  in  oprar  le  Feacesì  , 

Cui  mano  iiidustre  più , che  all’altre donne  , 
Diede  Minerva  , e più  sottile  ingegno. 

Ma  di  fianco  alia  reggia  un  orto  grande  , 
Quando  potino  in  dì  quattro  arar  due  tori,  i5o 
Stendesi , c viva  siepe  il  cinge  tutto. 

Alte  vi  crescun  verdeggianti  piante, 

Il  pero  , e il  melagrano  , e di  vermigli 
Pomi  carico  il  melo  , e col  soave 
Fico  nettareo  la  canuta  oliva. 

Nè  il  frutto  qui  , regni  la  state,  u il  verno , 
Pere  , o non  esce  fuor  ; quando  sì  dolce 
D’ogni  stagione  uu  zefiìretio  spira  , 

Che  mentre  spunta  l’un  , raltro  matura. 

Sovra  la  pera  giovane  , e su  l’uva  160 

L’uva , e la  pera  invecchia  , e i pomi  , e ì fichi 
Presso  ai  fichi , ed  ai  pomi.  Abbarbicata 
Vi  lussureggia  una  feconda  vigna  , 

De*  cui  grappoli  il  Sol  parte  dissecca 
Nel  più  aereo , ed  aprico  , c parte  altrove 
La  mali  dispicca  dai  fogliosi  tralci , 

O calca  il  piè  ne’ larghi  tini  : acerbe 
Qua  buttan  J'uve  i ndoleiiti  bori , 

K di  porpora  là  tingousi,  e d’uro. 

Ma  de)  giardino  in  sul  confili  tu  vedi  170 
D’ogni  erba  , e d’ugnì  fior  sempre  vestirsi 
hen  cuJte  ajuoJc , e scaturir  due  fonti , 

Che  non  taccion  giammai  : l’uua  per  tutto 
Si  dirama  il  giardino , e l’altra  corre , 
Passando  del  cortil  sotto  alfa  soglia  , 

Sin  davanti  al  palagio  ; e a questa  vauuo 
Gli  abitanti  ad  attignere.  Sì  bella 
Sede  ad  Alcinoo  destluaro  i Numi. 

Di  maraviglia  tacito  , e sospeso 
Ulisse  colà  stava  ; e visto  ch’ebbe  180 

Tutto  , e rivisto  con  secreta  lode, 

Nell’eccelsa  magion  ratto  sì  mise  , 

Trovò  i Feaci  Condottieri , e Prenci , 

Che  libavan  co’ nappi  all’Argicida 
Mercurio  , a cui  libar  solean  da  sezzo  , 

Come  del  letto  gli  assalta  la  brama  ; 

H innanzi  trapassò  dentro  alla  folla 
Nube , che  Palla  gli  uvea  sparsa  intorno  , 
Finche  ad  Arete  , e al  suo  marito  giunse. 
Circondò  con  le  braccia  alla  Keina 
I.e  ginocchia;  ed  in  quel  da  lui  staccossi 
l.a  nube  sacra  , e in  vento  si  dìscioUe. 

Tutti  repente  ammutolirò  , e forte 
Stiiplan  , guardando  l’uom  , che  alla  Reiua 
Supplicava  in  tal  forma  : O dei  divino 
Kessenore  figliuola  , illustre  Arete  , 

Alle  ginocchia  tue  dopo  infiniti 
Disastri  io  vegno  , veglio  al  tuo  consorte, 

K a questi  Grandi  ancor,  cui  dì  felici 
Menar  gli  Dei  concedano  , e ne’  figli  aoo 
Le  ricchezze  domestìcliH  , e gli  onori  , 

Che  s'acquisturo,  tramandare.  Or  voi 
Scorta  m’apparecchiato,  acciocché  in  breve 
Alla  patria  10  mi  renda  , ed  agli  amici , 

Da  cui  vivo  lontan  tra  ì guai  gran  tempo. 

Disse,  e andò  al  focolare  , e innanzi  ai  foco 
Sovra  l'immonda  cenere  sedette: 

Nè  alcun  fra  tanti  aptia  le  labbra.  Al  fiqo 


37 


LIBRO  S 

Parlò  Peroe  vecchio  Etenéo  » che  in  pronto 
Molte  avea  co^e  trapassate  » e tutti  aio 

Di  tacoxidia  viucea  non  meii , che  d’auni. 
Alcinoo,  disse  con  amico  petto  , 

Poco  ti  torna  ouor,  che  su  l'imtiioiida 
Cenere  il  lorcstier  sieda  j e se  nullo 
hJuovesi , egli  è,  {>erchè  un  tuo  cenno  aspetta. 
Su  via  , levai  di  terra , e in  sedia  il  poni 
Borchiettata  d'argento  j e ai  banditori 
Mescer  comanda  , onde  al  gran  Giove  ancora, 
Che  del  fulmine  gode,  c s’accompagna 
Co’  veneratuli  supplici , libiamo.  32u 

I.a  dispensiera  poi  di  quel,  che  in  serbo 
Tiene,  presenti  al  forestier  per  cena. 

Alcinoo  , udito  ciò  , lo  scaltro  Ulisse 
Prese  per  man  , dal  focolare  alzollo  , 

E l’adagiò  sovra  un  lucente  seggio  , 

P'atto  sorgerne  prima  il  più  diletto 
De’  suoi  hgliuuli , che  sedeaglt  accanto  ^ 
L’amico  di  virtù  Laodamante. 

Tosto  l’ancella  da  bel  vaso  d’oro 
Purìssim’acqua  nel  bacii  d’argento  35o 

Gli  vcr>ava  , e stendca  desco  polito  , 

Su  cui  l’onesta  dispensiera  bianchi 
Pani  venne  ad  imporre , e di  serbate 
Dapt  gran  copia.  Ma  la  sacra  possa 
Di  Alcinoo  al  banditor  : Pontunoo , il  rosso 
Licore  infondi  nelle  tazze , e in  giro 
Itecalo  a tutti , onde  al  gran  Giove  ancora  , 
Che  del  fulmine  gode  , e s’accompagna 
Co’ venerandi  supplici,  libiamo. 

Disse;  e Pontonoò  il  buon  licore  infuse,  340 
£ il  recò  , propinando  , a tutti  in  giro. 

Ma  il  Re,  come  libato  ebbero  , e a piena 
Voglia  bevuto,  in  tai  parole  uscio: 

O Condottieri  de’  Feaci , e Capi , 

Ciò  che  il  cor  dirvi  mi  consiglia  , udite. 

Già  banchettati  foste  : i vostri  alberghi 
Cercate  adunque  , e riposate.  Al  primo 
Raggio  del  Sole  in  numero  più  spessi 
Ci  adunereni , perchè  da  noi  s’unorj 
L’ospite  nel  palagio  ; e più  superbe  35o 

Vittime  immoleransi  : iodi  cou  quale 
Scorta  al  suol  patrio  , per  lontan  che  giaccia  , 
Possa  , non  pur  senza  tutica , o noja  , 

Ma  lieto  , e rapidissimo  condursi , 
Diviseremo.  Esser  dee  nostra  cura  , 

Che  danno  non  l’incolga  in  sin  ch’ei  tocco 
Non  abbia  il  suol  natio.  Colà  poi  giunto, 

Quel  sotfrirà  , che  le  severe  Parche 
Nel  dì  del  suo  natale  a lui  iilaro. 

E se  un  Dm  fosse  dall’Oiinipo  sceso  ? 360 

Altro  s’avvolgeria  disegno  in  mente 
De’  Numi  allora.  Spesso  a noi  mostrarsi 
Nell’ecatombe  piu  solenni , e nosco 
Starsi  drgnaru  a<l  una  mensa.  Dove 
Un  qtialche  viandante  in  lor  s’avvcgna  , 

Non  l’occultano  a noi , che  per  vetusta 
Origine  lor  siam  molto  vicini , 

Non  altrimenti  che  i Ciclopi  antichi , 

E de’  Giganti  la  selvaggia  stirpe. 

Alcinoo,  gli  rispose  il  saggio  Ulisse  , 370 

Muta  (questo  pensiero,  lo  deU’immeuso 
Cielo  ai  lelici  abitatori  eterni 
Nè  d’indole  somiglio  , nè  d’aspetto. 

Somiglio  ai  tigli  ùe’  mortali , e a quanti 


K T T 1 M O. 

Voi  conoscete  in  più  angoscioso  stato. 

Nè  ad  alcuno  di  lor  cedo  ne’  mali  : 

Tanti , e sì  gravi  meri  crearo  i Numi. 

Or  cenar  mi  lasciate,  ancor  che  afllitto: 
l’ero  che  nulla  io  so  di  più  molesto. 

Che  il  digiun  ventre,  dicuil’uom  malpuote  280 
dimenticarsi  per  gravezze,  o doglie. 

Nel  tondo  io  sun  ac’  guai  : pur  questo  interno 
Signor,  che  mai  di  domandar  non  resta  , 

Vuol , ch’io  più  non  rammenti  i danni  miei , 
h ai  cibi  stenda , ed  ai  licur  la  mano. 

Ma  voi , comparso  in  Oriente  il  giorno  , 
Rimandarmi  vi  piaccia,  lo  non  ricuso, 

Visti  i miei  servi , l'alte  case  , e i campi , 

Gli  occhi  al  lume  del  Sol  chiuder  per  sempre. 

Disse;  e tuttiassentUno,  e IVaii  gran  ressa,  390 
Che  io  stranier  , che  ragionò  si  bene  , 

Buona  scorta  impetrasse.  Al  fin  , libato 
Ch’ebbero , e a pica  bevuto , il  proprio  albergo 
Ciascun  cercava  , per  entrar  nel  sonno. 

So)  nella  reggia  riinaiieasi  Ulisse  , 

E presso  gli  sedean  Alcinoo  , e Arete  , 

.Mentre  le  ancelle  del  convito  i vasi 

Dalla  mensa  toglieano.  Arete  prima 

Gli  favellò  , come  colei , che  il  manto 

Riconobbe,  e la  tunica,  leggiadre  3oo 

Vesti , che  di  sua  man  tessute  avea 

Con  le  sue  fanti  ; e che  or  vedeagli  in  dosso. 

Siranier  , gli  disse  con  alate  voci , 

Di  questo  io  te  cercar  voglio  la  prima  : 

Chi  sei  tu  ? Donde  sei  ? Da  chi  tai  panni? 

Non  ci  fai  creder  tu , che  ai  nostri  lidi 
Misero,  errante,  e naufrago  approdasti? 

'£  il  saggio  Ulisse  replicolle  : Forte  , 

Regina  , i mali  raccontar,  che  molti 
M 'inviato  gli  Dei.  Quel,  che  più  brami  5io 
Sapere,  io  toccherò.  J»n(ana  giace 
Un'isola  nel  mar  , che  Ogigia  c detta. 

Quivi  d’.Vtiante  la  fallace  figlia 
Dai  ben  torti  capei , Calipso  , alberga  , 
Terribi)  Dea,  con  cui  nessun  de’  Numi 
Conversa  , o de'  mortali.  Un  Genio  iniquo  , 
Con  lei  me  solo  a dimorar  constrinse. 

Dappoi  che  Giove  a me  per  Tonde  oscure 
r.a  ratta  nave  fulgorando  sciolse. 

Tutti  morti  ne  furo  i miei  compagni  : 5io 

Ma  io,  con  ambe  mani  alla  carena 
Della  nave  abbracciatomi , per  n(»vo 
Giorni  fui  traportato,  e nella  fosca 
Decima  notte  alTisoletta  spinto 
Della  Dea , che  m'arcolse  , e amicamente 
Mi  trattava  , e nodriva  , e promettea 
Da  morte  assicurarmi  . e da  vecchiezza  : 

Nè  però  il  cor  ini  piegò  mai  nel  petto. 

Sette  anni  interi  io  nii  vedea  con  lei  , 

K di  peremii  lagrime  i divini  53o 

Tanni  bagnava  , che  mi  porse  in  dono. 

Ma  tosto  die  l'ottavo  amiu  sì  volse  , 
f.a  Diva,  u fosse  imperiai  messaggio 
Del  figlìuol  di  Saturno , o di  lei  stessa 
.Mutamento  improvviso,  alle  mie  case 
Ritornar  confortavami.  Su  travi 
Da  multiplici  nodi  in  un  congiunte 
Con  molti  doni  accommiatomini  : pane 
Candido  , e dolce  vin  diemmi , e odorate 
Vesti  vestiiuaii,  e,  ad  increspaimi  il  mare  3 io 


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38  ODI 

Un  placido  mandò  vento  innocente, 
lo  dieci  viaggiava  e sette  giorni 
8u  le  liquide  strade.  Al  nuovo  albore 
Mi  sorse  incontro  co*  suoi  monti  ombrosi 
1/isola  vostra,  e a me  infelice  il  core 
Ridea  , benché  altri  guai  m’apparecchiasse 
Nettun , che  iucitò  i venti , il  mar  commosse , 
Mi  precise  la  via  ; né  più  speranza 
Già  m’avanzava  , che  il  naviglio  frale 
Me  gemente  portasse  all'oiide  sopra.  35u 
Riippelo  al  fine  il  turbo.  A nuoto  allora 
Misurai  questo  mar,  tinchè  alla  vostra 
Contrada  il  vento  mi  sospinse,  e il  lliitto. 

Quivi  alla  terra,  neli’uscir  dell’acqtie, 
l'Vanto  un’onda  m’avria  , che  me  in  acute 
l’unte  cacciava,  e in  disamabil  riva  : 

Se  non  ch'io,  ritirandomi  dal  lido. 

Tanto  notava,  che  a un  bel  fiume  sceso 
Da  Giove  logiua-sì,  ove  opportuno  il  loco 
Parventi , e liscio;  nè  in  balia  de’  venti.  36o 
Scampai,  le  forze  raccogliendo.  Intanto 
Spiegò  i suoi  veli  la  divina  Notte, 

R i iO,  lasciato  da  una  parte  il  fiume, 

Sovra  un  letto  di  foglie  , e tra  gli  arbusti 
Giacqui,  e m’infuse  lungo  sonno  un  Dio.  | 
Dormii  l’intera  notte  in  sino  all’Alba  , 

Dormii  sino  al  meriggio  ; e già  calava 
Verso  Occidente  il  Sole,  allor  che  il  dolce 
Sanno  m’abbandonò.  Vidi  le  ancelle 
Della  tua  figlia  trastullar  su  l’erba  , Byo 

R lei  tra  quelle,  che  una  D^;a  mi  parve  , 

E a cui  preghiere  io  porsi  ; ed  ella  senno 
Mostrava  tal  , qual  non  s’atlende  mai 
L'uom  da  un’età  si  fresca,  in  cui  s’abbatta  , 
Percliè  la  fresca  età  sempre  folleggia. 

Rlla  recente  pau  , vino  possente  , 

Rlla  commodo  bagno  a me  nel  fiume, 

R i ella  vesti.  Me  infelice  il  fato 
Render  potrà  , ma  non  potrà  bugiardo. 

Ed  Alcinoo  repente  : Ospite , in  (questo  38o 
Da  mia  figlia  siàlli , che  non  condusse 
Te  con  le  ancelle  alla  magion,  quantunque 
Tu  a lei  primiera  supplicato  avessi. 

Rccelso  eroe  , non  mi  biasmar , rispose 
Lo  scaltro  Ulisse , per  cagion  sì  lieve 
La  inculpabil  fanciulla.  Ella  ni’ingiuasc 
Di  seguitarla  con  le  ancelle;  ed  io 
Men  guardai  per  timor,  che  il  tuo  vedermi 
T’iiiFiammasse  di  sdegno.  Umana , il  sai , 

Razza  noi  siamo  al  sospettare  inchina.  Squ 

Rd  Alcinoo  di  nuovo  : Ospite , un'alma 


S S E A 

Già  non  s’annida  in  me , che  fuoco  prenda 
Sì  prontamente.  Alla  ragione  io  cedo  , 

K quel  che  onesto  è più,  sempre  io  trascelgo. 
K'I  oh  piacesse  a Giove,  a Palla  e a Febo, 

Che,  qual  ti  scorgo  , c d’un  parer  con  meco 
Sposa  volessi  a te  far  la  mia  figlia, 

Genero  mio  chiamarti , e la  tua  stanza 
Fermar  tra  noi!  Case  otterresti  e beni 
Da  me  , dove  il  restar  non  ti  sgradisse:  400 

Chè  ritenerti  a forza  , e l’ospitale 
(riuve  oltraggiar  , nullo  qui  fia  che  ardisca. 
Però  così  su  l’alba  il  tuo  viaggio 
Voi  disporrem,  che  abbandonarti  al  sonno 
Velia  nave  potrai , mentre  i Feaci 
L’azzurra  calma  rumperan  co’ remi  : 

Vè  cesserau  , che  nella  Patria  messo 
T abbiaiio,  e ovunque  ti  verrà  desio, 

Foss'anco  oltre  l’Eubéa,  cui  più  lontana 
D’ogni  altra  regioii  che  alzi  dal  mare.  410 
Dicon  que’  nostri  che  la  vider  , quando 
A.  Tizio  , figlio  della  terra  , il  biondo 
Radamanto  condussero.  All’Eubóa 
S’iiidrizzàr , l’aÌP*rràr,  ne  ritoruaro 
Tutto  in  un  giorno  ; e nou  fu  grave  impresa. 
Conoscerai  quanto  sien  bene  inteste 
Le  nostre  navi,  e i giovani  gagliardi 
Nel  voltar  sottosopra  il  mar  co'reiui. 

I Gioì  a tai  detti  il  paziente  Ulisse, 

E le  braccia  levando  , o Giove  padre,  420 
Sdamò  , tutte  adempir  le  sue  promesse 
Possami  Alcinoo!  Ei  giuria  eterna  avraniie, 

Kd  io  porrò  nelle  mie  case  il  piede. 

Que.ste  correaii  tra  lur  parole  alterne, 
la  Keina  candida  le  braccia, 

.Irete,  intanto  alle  fantesche  impose 
11  letto  collocar  sotto  la  Itiggia, 

Belle  gittarvi  porporine  coltri, 

E tappeti  distendervi,  e ai  tappeti 

Hanti  vellosi  sovrapporre.  U.’>ciro  43o 

Quelle  , tenendo  in  man  lucide  faci, 

Il  denso  letto  spriniacciaro  in  fretta, 

E rientrate,  Sorgi , ospite  , or  puoi, 

Dissero  a Ulisse,  chiuder  gli  occhi  al  sonno: 

Nè  punto  al  forcstier  l’Invito  spiacque. 

Così  ei  sotto  il  portico  sonante 
l.à  s'addorinia  ne’  traforati  letti. 

-■Alcinoo  si  corcò  del  tetto  eccelso 
Ve’penctrali  ; e a lui  da  presso  Arete, 

La  cotisorte  reai , che  a sé  ed  a lui  44u 

Preparò  dì  sua  mano  il  letto  e i sonni. 


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LIBRO  OTTAVO 


ARGOMENTO 


Congresso  de'Fwri,  in  cui  *i  dclilvra  te  TUisse  debba  essere  alla  Patria  sua  ricr>m)oUo.  Alciono  dà  un  Milmne 
convito,  nel  quale  DcdukIoco  cauta  d'una  contesa  che  Ulisse  innlcviiiiu  e Acliiiie  ebbero  un  giorno  tra  loro.  Il 
primo  non  può  ritenere  le  iagriine.  Si  |ussa  ai  giuiK'lii , uv'rgli  dà  prova  di  se  al  disco,  ed  uve  UemfMÌt>cu  rama 
la  rete  di  V^ulcauo.  Doni  che  ai  fanno  ail  Ulisse.  Questi  ad  un  scomdo  convito  sente  ricordare  dallo  stesso  cantore 
« il  gran  cavallo  di  legno  e la  caduta  di  Troja  j c si  lascia  di  nuovo  cadere  il  pianto  dagli  occhi.  Alcinoo  allora 
il  sollecita  a tuanifesUrsi,  a dire  il  suo  iu>nic  , e a raccuotarc  le  sue  avventure. 


M A tosto  che  rosata  ambo  le  palme 
Comparve  in  del  l^a^gioniairice  Aurora, 

Surse  dì  letto  la  sacrata  possa 

Del  magnanimo  Alcinoo  , e il  divin  surse 

KovesciQtor  delle  cittadi  Ulisse. 

La  possanza  d’Alcinuoal  parlamento, 

Che  i Feaci  teneaii  presso  le  navi. 

Prima  d’ogni  altro  mosse.  A mano  a mano 
Veniano  i Feacesi , e so  polite 
Pietre  sedeansi.  L’tifchiglauta  Diva,  io 

Cui  d’UlisxSe  il  ritorno  in  mente  stava, 

Tolte  del  regio  banditor  le  forme, 

Qua  e là  s’avvolgea  per  la  cittade, 

K appressava  ciuM'uno,  e,  Su.  dicea, 

Su,  p*enci  e condottieri , al  loro,  al  foro, 

.Se  udir  vi  ca)  dello  strun<er  che  giunse 
Ad  Alcinoo  testé  per  multo  mare, 

K as.sai  più,  che  detl’uom,  del  Nume  ha  in  viso. 

Disse,  e tutti  eccitò.  Della  raccolta 
Gente  lùro  in  brev'ora  i seggi  pieni.  20 

Ciascun  guardava  con  le  ciglia  in  arco 
Di  Laerte  il  ligliuol  : chè  a lui  Minerva 
Sovra  il  capo  ailluse  e su  le  spalle 
Divina  grazia  , ed  in  grandezza  e in  fiore 
Crebbelo,  e in  gagliardia  , perch'ei  ne’petti 
Destar  potesse  riverenza  e affetto, 

D dehiobiii  giuochi , ove  chiamato 
Fosse  a dar  di  sè  prova  , uscir  con  vanto. 

Concorsi  tutti , e in  una  massa  uniti, 

Tra  loro  arringò  Alcinoo  in  questa  guisa  t 3o 
O condottieri  de’  Feaci , e prenci, 

Ciò  che  il  cor  dirvi  mi  comanda  , udite. 

Questo  a me  igimto  h>restier , che  venne 
Baniingo,  e ignoro  aiuor,  se  donde  il  Sole 
Nasce , o donde  tramonta,  ai  tetti  miei, 

Scorta  dimanda  pel  viaggio,  e prega 
Gii  sia  ratto  conce.Hsa.  Or  noi  l’usanza 
Non  seguirem  con  lui  ? Uomo,  il  sapete, 

Ai  tetti  miei  non  capitò,  che  mosto 
Languir  dove.sse  sovra  queste  piagge  4^ 

Per  difetto  dì  scorta  i giorni  e i mesi. 

Traggasi  adunque  nel  profondo  mare 
Legno  dali’onde  non  bàttuto  ancora, 

F s'eieggan  cinquanta  , e due  garzimi 
Tra  il  pcipul  tutto,  gli  ottimi.  Costoro, 

Varato  il  legno , e avvinti  ai  banchi  i remi. 
Subite  e laute  ad  apprestar  m'andranno 
Al  ense , che  a tutti  oggi  imbandite  io  voglio.  | 
Ala  quei  che  di  bastone  ornai)  la  mano, 

L’ospite  nuovo  ad  onorar  con  meco  5o 

Vengano  ad  una  ; e il  banditor  mi  chiami 
l/immortale  Demudoco  , a cui  Giove 
Spira  sempre  de'  canti  il  più  soave, 


Dovunque  l’estro  , che  l’infìamma , il  porti. 

Detto  , si  mise  in  via.  Tutti  i scettrali 
Segiiianio  ad  una  ; e all’immortal  cantore 
L’ataldu  indirizzavasi.  1 cinquanta 
Garzoni,  e due  , come  il  Re  imposto  area, 
Fùro  del  mar  non  seminato  a]  lido, 

Lii  nave  negra  nel  prolondo  mare  60 

Trassero,  alzare  l’albero  e la  vela. 

I lunghi  remi  assicurar  coti  forti 
r.Bcci  di  pelle,  a maraviglia  il  tutto, 

R , le  candide  vele  al  venio  aperte, 

Arrestaro  iieiralla  onda  la  nave: 

Poscia  d’Alcinoo  ritrovar  l’albergo. 

Già  i portici  s’empican , s’empieano  1 chiostri, 
Non  elle  ogni  stanza  , della  varia  gente, 

Che  s’accogiiea  , bionde  e canute  teste, 

Una  turba  infinita.  Il  Re  quel  giorno  *0 

Diede  al  .sacro  coltel  dodici  agnelle, 

Otto  corpi  di  verri  ai  bianchi  denti, 

E due  di  tori  dalle  torte  corna. 

Gli  scusar  , gli  acconciar,  ne  apparecchìaro 

Convito  invidiabile.  L’araldo 

Ritorno  feo,  per  man  guidando  il  vate, 

Cui  la  Afusa  portava  immenso  amore, 

Benché  il  ben  gli  temprasse  e il  male  insieme: 
Degli  occhi  il  vedovò,  ma  del  più  dolce 
Canto  arricchilio.  11  banditor  nel  mezzo  80 
.Sedia  d’argento  horcliiettata  a lui 
Pose,  e l’affisse  ad  una  gran  colonna  : 

Poi  la  cetra  vocale  a un  aureo  chiudo 
Gli  appese  sovra  il  capo , ed  insegiKigli, 

Come  a staccar  con  mano  indi  l’avesse. 

Ciò  fatto  , un  desco  gli  distese  avanti 
Con  patiier  sopra,  e una  capace  tazza, 

Ond’ei,  qual  volta  nel  pungea  desio, 

D*  1 vermiglio  licor  scaldasse  il  petto. 

Come  la  fame  rintuzzala  , e spenta  gc 

Fu  la  sete  in  ciascun  , l’egregio  vate, 

Che  già  tutta  sentiasi  in  cor  la  Musa, 

De’  furti  il  pregio  a risonar  si  volse. 

Sciogliendo  un  canto , di  cui  sino  al  cielo 
Salse  in  qiie’  di  la  fama.  Era  l’antica 
Tenzon  d’Ulisse  e del  Peliade  Aclidle, 

Quando  di  acerbi  detti  ad  un  solenne 
Convito  sacro  si  ferirò  entrambi. 

Il  Re  de’  prodi  Agamennóti  gioia 
Tacitamente  in  se  , visti  a contesa  100 

Venire  i primi  d<*gli  Achei  j che  questo 
Della  caduta  d'ilio  era  il  segnale. 

Tanto  da  Febo  nella  sacra  Pilo, 

Varcato  appena  delia  soglia  il  marmo, 

Predirsi  allora  udì,  che  di  uue’  mali, 

Che  sovra  i Teucri , per  voler  di  GiovC| 


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40  O D I S 

Rovesciarsi  doveano , e su  gli  Achivi, 

Sì  cominciava  a dispiegar  la  tela. 

A tal  memorie  il  Laerziade,  pre.«o 
L’ampio  ad  ambe  le  man  purpureo  manto,  i io 
Sei  trasse  in  testa  , e il  iiubil  volto  ascose, 
Vergognando  che  lagrime  i Feaci 
Vedesserlo  stillar  sotto  le  ciglia. 

Tacque  il  canfor  divino;  cd  ci,  rasciiitte 
Le  guance  in  fretta,  dalla  testa  il  manto 
Si  tolse,  e,  dato  a una  ritonda  coppa 
Li  piglio,  libò  ai  Numi.  I Feacesi, 

Cui  gioja  erano  i carmi , a ripigliarli 
Il  poeta  eccitavano,  che  apria 
Nuovamente  le  labbra  ; e nuovamente  120 
Coprirsi  il  volto  e lagrimare  Ulisse. 

Cosi,  giKciando  lagnine,  da  tutti 
Celossi.  Alcinoo  sol  di  lui  s'avvide, 

E l'adocchiò  , sedendogli  da  presso, 

Oltre  che  forte  sospirare  udillo; 

E I più  non  aspettando,  Udite  , disse, 

Leila  Feacla  condottieri  e prenci. 

Già  del  coraun  convito  , e deil’amìca 
Le*  conviti  solenni  arguta  cetra, 

Godemmo.  Usciamo,  e ne’dìversi  giuochi  i3o 
Proviamei  ; perchè  l’ospite,  com’aggia 
Rimesso  il  piè  nelle  paterne  case, 

Narri  agli  amici , che  l’iidranno  attenti. 

Quanto  al  cesto  calla  lotta,  e al  salto  e a!  corso, 
Cede  a noi , vaglia  il  vero , ogni  altra  gente. 

Lisse,  ed  entrò  in  cammino;  e i prenci  insic- 
Seguianlo.  Ma  l’araldo  , alla  caviglia  (me 
Riappiccata  la  sonante  cetra, 

Prese  il  cantor  per  mano,  e fuor  del  tetto 
Menollo:  indi  guidavaio  per  quella  140 

Strada  in  cui  posto  crasi  Alcinoo  e i capi. 
Movean  questi  veloce  al  Foro  il  piede, 

E gente  innumerabilc  ad  un  corpo 
Lor  tenea  dietro.  Kd  ecco  sorger  molta, 

Per  cimentarsi',  gioventù  forzuta. 

Sorse  Acroneo  ed  Ocialo  , Eleatréo  sorse, 

E Nauteo  e Primneo  e Anrhialo  : levo.ssl 
Eretmeo  ancor  , Poutéo , Proto  , Tnòne, 

Non  che  Anabesinéo , non  che  Amliàlo, 

Li  Polinéo  Tectonide  la  prole.  lòo 

E non  ch’Eurialu  all’omicida  Marte 
Somigliante,  e Naubolide,  che  tutti, 

Ma  dopo  il  senza  neo  Laodainante, 

Vincea  di  corpo  e di  beltà.  Nè  assisi 
I tre  restar  figli  d’Alciiioo  : desso 
X^aodamante,  Alio  , che  al  Rege  nacque 
Secondo  , e CUtonéo  pari  ad  un  Nume. 

Lei  corso  fu  la  prima  gara.  Un  lungo 
Spazio  stendeasi  alla  carriera  ; e tutti 
Lalle  mosse  volavano  in  un  groppo,  160 

Lensi  globi  di  polvere  levando. 

Avanzò  gli  altri  Clitonéo , che  , giunto 
Leila  carriera  al  fin  , la.sciolli  indietro 
Quell’intervallo  , che  i gagliardi  muli 
1 tardi  lasciai!  corpulenti  buoi, 

Se  lo  stesso  noval  tèndono  a un’ora. 

Siiccedè  al  corso  l’ostinata  lotta, 

Ed  Eurialo  prevalse.  Il  maggior  salto 
Amfialo  spiccollo  , e il  disco  lunge 
Non  iscagliò  nessun  , coui’Blatréo,  170 

Laodamantc,  il  reai  figlio  egregio, 

Nel  pugile  severo  ebbe  la  palma. 


S E A 

Fine  al  diletto  de’  certami  posto, 

Parlò  tra  lor  Laodamante:  Amici, 

Su  via  , l’estraneo  domandiam  di  queste 
Prove,  se  alcuna  in  gioventù  ne  apprese. 

Ui  buon  taglio  e’  mi  sembra;  e dove  ai  fianchi. 
Dove  alle  gambe,  e delle  mani  ai  dossi 
Guardisi , e al  fermo  collo  , una  robusta 
Natura  io  veggio,  e non  mi  par  che  ancora  180 
Degli  anni  verdi  l’abbandoni  il  nerbo. 

Ma  il  fransero  i disagi  all'unde  in  grembo; 

Che  non  è , quanto  il  mar , siccome  io  credo, 
Per  isconllgger  l’uom,  benché  assai  forte. 

X>aodainbnte  , il  tuo  parlar  fu  bello, 

Eurialo  rispondea.  Però  l'abborda 
Tu  stesso  , c il  tenta  ; e a fuori  uscir  l’invita. 

Come  d’Alclnoo  l’incolpabil  figlio 
Questo  ebbe  udito,  si  fe’ innanzi , e,  stando 
Nel  mezzo  , Orsù  , gU  disse,  ospite  padre,  190 
Tu  ancor  ne’giochi  le  tue  forze  assaggia, 

Se  alcun  mai  ne  apparasti  a’giorni  tuoi, 

E degno  è ben  che  non  ten  mostri  ignaro  : 
Quando  io  non  so  per  l’uom  gloria  maggiore, 
Che  del  piè  con  prodezza  e della  inano , 

Mentre  in  vita  nman  , poter  valersi. 

T’arrischia  dunque,  e la  tristezza  sgombra 

Dall’alma.  Pixro  il  desiato  istante 

Del  tuo  viaggio  tarderà  : varata 

Fu  già  la  nave,  e i remigi  son  pronti.  200 

Ma  cosi  gli  rispose  il  saggio  Ulisse  : 
I.aodamante  , a che  cotesto  invito  , 
Deridendomi  quasi  ? Io  più  , che  giocEi , 
Disastri  volgo  per  ralllilta  mente  , 
lo  , che  tanto  patti , sostenni  tanto  , 

E or  qui , mendico  di  ritorno  e scorta  , 
biedomi , al  Re  pregando  , e al  Popol  tutto. 

Il  bravo  Eurialo  a viso  aperto  allora  : 

Uom  non  mi  sembri  tu  , che  si  conosca 
Di  quelle  pugne  che  la  stirpo  umana  3 10 
Per  suo  diletto  esercitar  costuma. 

Tu  m’hai  vista  di  tal , che  presso  nave 
Di  molti  banchi  s’affàccendi  , capo  , 

Di  marinari  al  trafficare  intesi , 

Che  ili  mente  serba  il  carico  , ed  al  vitto 
Pensa , e ai  guadagni  con  rapina  fatti  : 

Ma  nulla  certo  dell’atleta  tieni. 

Mirollo  bieco , e replicògli  Ulisse  : 

Male  assai  favellasti , e ad  uom  protervo 
Somigli  in  tutto.  Cosi  è ver  che  i Numi  220 
Le  più  care  non  dan  doti  ad  un  solo  , 
Sembiante  , ingegno  e ragionar  che  piace. 

L’un  bellezza  non  ha , ma  della  mente 
, Gl’interni  sensi  ìii  cotal  guisa  esprime, 

Che  par  delle  parole  ornarsi  il  volto. 

Gode  chiunque  il  mira.  Ki , favellando 
Con  soave  modestia  , e franco  a un  tempo. 
Spicca  in  ogni  consesso;  e allor  che  passa 
Per  la  città , gli  occhi  a sè  attrae , qual  Nume. 
L’altro  nel  viso  e nelle  membra  un  mostra  25o 
Degl’immortali  Dei:  pur  non  si  vede 
(ìrazia  che  ai  detti  suoi  s’avvolga  intorno. 

Cosi  te  fregia  la  beltà  , nè  meglio 
Formar  sapriaii  gli  .stessi  Eterni  un  volto  : 

Se  non  che  poco  della  mente  vali. 

Mi  trafiggesti  l’aiiiina  nel  petto  , 

Villane  voci  articolando  : io  nuovo 
^^on  son  de’  giochi,  qual  tu  cianci , e credo 


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LIBRO 

Anzi,  ch’io  degli  atleti  andai  tra  i primi  , 
Finché  potei  de,’  verdi  anni  e di  queste  240 
Braccia  fidarmi.  Or  me  , che  aspre  fatiche 
Durai  , tra  l’armi  penetrando  e i’unde, 
(ìl’infortunj  domaro.  E non  pertanto 
Cimenterommi  : che  mordace  tn>ppo 
Fu  il  tuo  sermon  , nè  più  tenermi  io  valgo. 

Disse;  e co’paiini  stessi, -in  ch’era  involto, 
Laiiciossi , ed  atl'crrò  massiccio  disco  , 

Che  quelli , onde  giocar  solean  tra  loro  , 

Molto  di  mole  soverchiava  , e pondo. 

Kotollo  in  aria  , e con  la  man  robusta  25o 
Lo  spinse  : sonò  il  sasso  , ed  i Feaci , 

<Jue’  naviganti  celebri,  que’  forti 
Remigatori , s’abbattero  in  terra 
Per  la  foga  del  sasso  , il  qual , partito 
Da  sì  valida  destra,  i segni  tutti 
Rapidamente  sorvolò.  Minerva , 

Vestite  umane  forme,  il  segno  pose, 

E all’ospite  conversa  , Un  cieco,  disse. 

Trovar  , palpando  , tei  potrla  : che  primo  , 

Nè  già  di  poco  , e solitario  sorge.  260 

Per  questa  prova  dunque  alcun  timore 
Non  t’anga  : lunge  dal  passarti , alcuno 
Tra  i Feaci  non  ha  che  ti  raggiunga. 

Rallegrossi  a tai  voci , e si  compiacque 
Il  Laerziade  , che  nel  circo  uom  fosse 
Che  tanto  il  favoria.  Quindi  ai  Feaci 
Più  mollemente  le  parole  volse  ; 

Quello  arrivate  , o damigelli , e un  altro 
Pari , o più  grande  , fulminarne  in  breve 
Voi  mi  ved.vte , io  penso.  Ed  anco  in  altri  270 
Certami , o cesto  , o lotta  , o corso  ancora, 

Chi  far  periglio  di  sè  stesso  agogna  , 

Venga  in  campo  con  me:  poiché  di  vero 
Mi  provocaste  oltre  misura.  Uom  vivo 
Tra  i Feacesi  io  non  ricuso,  salvo 
Lnodamante  , che  ricetto  dammi. 

Chi  entrar  vorrebbe  con  l’amico  in  giostra? 
Stolto  e da  nulla  è senza  dubbio  , e tutte 
Storpia  le  imprese  sue,  chiunque  in  mezzo 
D’un  popolo  strauier  con  chi  l’alberga  280 
Si  presenta  a contendere.  Degli  altri 
Nessun  temo  , o dispregio  , e son  con  tutti 
Nel  dì  più  chiaro  a misurarmi  pronto  , 

Come  colui  che  non  mi  credo  imbelle, 

Quale  il  cimento  sia.  L’arco  lucente 
Trattare  appresi  : imbroccherei  primajo  , 
Saettando  un  gnerrier  dell’oste  avversa  , 
Benché  turba  d’amici  a me  d’intorno 
Contra  quell’oste  disfrenasse  i dardi. 

Sol  Filottete  mi  vincea  dcll’arro  , ago 

Mentre  a gara  il  tendean  sotto  Ilio  i Greci: 
Ma  quanti  su  la  terra  or  v’ha  mortali , 

Cui  la  forza  del  pane  il  cor  sostenta  , 

Io  di  gran  lunga  superar  mi  vanto  : 

Chè  non  vo’  pormi  io  già  co’  prischi  eroi. 

Con  Eurito  d’Ecalia  , o con  Alcide, 

Che  agli  Dei  stessi  di  scoccar  nell’arte 
Si  pareggiato.  Che  ne  avvenne?  Giorni 
Sorser  pochi  ad  Eurito , e le  sue  case 
Noi  viaero  invecchiar  : poscia  che  Apollo  3oo 
Forte  si  corrucciò , che  disfidato 
L’avesse  all’arco  , e di  sua  man  l’uccise. 
Dell’asta  poi , quanto  nessun  di  freccia 
Saprebbe  , io  traggo.  Sol  nel  corso  io  temo, 

ODISSEA. 


OTTAVO.  41 

Non  mi  vantaggi  alcun  : chè , tra  che  molto 
M’aillisse  il  mare,  e che  non  fu  il  min  legno 
Sempre  vettovagliato  , a me  , qual  prima, 

Non  ubbidisce  l’infedel  ginoccliio. 

Ammutolì  ciascuno,  e Alcinoo  solo 
Rispose:  Forestier,  la  tua  favella  3 10 

Sgradir  non  ci  potea.  Sdegnato  a dritto 
De’ motti  audaci,  onde  colui  ti  morse, 

La  virtù  mostrar  vuoi , che  t’accompagna, 
Virtù  , che  or  da  chi  tanto  o quanto  scorga. 

Più  biasmata  non  iia.  Ma  tu  m’ascolta  : 
Acciocché  un  dì,  quando  nel  tuo  palagio 
Sederai  con  la  sposa , e i figli  a mensa, 

E quel , che  di  gentile  in  noi  s’annida. 
Rimembrerai,  possi  a un  illustre  amico 
Favellando  narrar  : quali  redammo  520 

Studi  dagli  avi  per  voler  di  Giove. 

Non  siam  né  al  cesto,  né  alla  lotta  egregi  : 

Ma  rapidi  moviam,  correndo,  i passi, 

E a maraviglia  navighiamo.  In  oltre 
Giocondo  sempre  il  banchettar  ci  torna. 
Musica  , e danza,  ed  il  cangiar  di  veste, 
l tepidi  lavacri , e i letti  molli. 

Su  dunque  voi , che  tra  i Feaci  il  sommo 
Pregio  dell’arte  della  danza  avete, 

Fate  , che  Io  straniero  a’  suoi  più  cari,  33o 
Risalutate  le  paterne  mura, 

Piacciasi  raccontar,  quanto  anche  al  ballo. 
Non  che  al  nautico  studio  ed  alla  corsa , 

Noi  da  tutte  le  genti  abbiam  vantaggio. 

E tu,  Pontonoo,  per  l’arguta  cetra. 

Che  nel  palagio  alla  colonna  pende. 

Vanne  , e al  divin  Demodoco  la  reca. 

Sorse  , e partì  l’araldo  ; e al  tempo  stesso 
Sorsero  i nove  a presedere  ai  giuochi 
fliudici  eletti  dai  comuni  voti,  340 

Kd  il  campo  agguagliaro  , e dilataro. 

Rimosse  alquanto  le  persone  , il  circo. 

Tornò  l’araldo  con  la  cetra  , e in  mano 

I.a  pose  di  Demodoco  , che  al  circo 

S’adagiò  in  mezzo.  Danzatori  allora  ' 

D’alta  eccellenza,  e in  sul  fiorir  degli  anni, 

Feano  al  vate  corona  , ed  il  bel  circo 

Co’presti  piedi  percoteano.  Ulisse 

De’  frettolosi  piè  gli  sfolgorìi 

Molto  lodava  ; e non  si  riavea  33o 

Dallo  stupor  , che  gl’ingorabrava  il  petto. 

Ma  il  poeta  divin  , citareggiando, 

Del  bellicoso  Marte , e della  cinta 
Di  vago  serto  il  crin  Vener  Ciprigna  , 

Prese  a cantar  gli  amori , ed  il  furtivo 
Lor  conversar  nella  superba  casa 
Del  Re  del  fuoco , di  cui  Marte  il  casto 
Letto  macchiò  nefandamente,  molli 
Doni  offerti  alla  Dea  , con  cui  le  vinse. 
Repente  il  Sole , che  la  colpa  vide  , 3Go 

A Vulcan  nunzìolla  ; e questi , udito 
L’annunzio  doloroso  , alla  sua  negra 
Fucina  corse  , un’immortal  vendetta 
Macchinando  nell'anima.  Sul  ceppo 
Piantò  una  magna  incude  ; e col  marfello 
Nodi , per  ambo  imprigionarli , ordia 
A frangersi  irapossioili , o a disciorsi. 
Fabbricate  le  insidie,  ei , contra  Marte 
D’ira  bollendo  , alla  secreta  stanza. 

Ove  steso  giaceagU  il  caro  letto  , 370 


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O U I ì 

S’avviò  in  fretta  , e alla  lettiera  bella  i 

Sparse  per  tutto  i lini  lacci  intorno  , 

B molli  sospendeane  all’alte  travi , 

Quai  fila  suttilissiine  d’aragna, 

Con  tanta  orditi , e sì  ingegnosa  fraude, 

Che  nè  d’nn  Dio  li  potea  l’occhio  torre. 

Poscia  (The  tutto  degl’industri  inganni 
Circondato  ebbe  il  letto  , ir  finse  in  Lenno  , 
Terra  ben  fabbricata  , e più  che  ogni  altra 
Cittade  , a lui  diletta.  In  questo  mezzo  58o 
Marte  , che  d’oro  i corridori  imbriglia, 

Alle  vedette  non  isiata  indarno. 

Vide  partir  l’egregio  fabbro  , e , sempre 

Kel  cor  portando  la  di  vago  serto 

Cìnta  il  capo  Ciprigna  , alla  magione 

Del  gran  mastro  de’f'uochi  in  fretta  mosse. 

Ritornata  di  poco  era  la  Diva 

Dal  Saturnlde  onnipossente  padre 

Nel  conjijgale  albergo;  e Marte,  entrando. 

La  tiovò  , che  posava  , e lei  per  mano  5go 
Prese  , e a nume  chiamò  : Venere  , disse  , 
Ambo  ci  aspetta  il  solitario  letto. 

Di  casa  usci  Vulcano:  altrove,  a Lenno 
Vassene  , e al  Sintii  di  selvaggia  voce. 

Piacque  l’invito  a Venere  , e su  quello 
Salì  con  Marte  , e si  corcò  : ma  i lacci 
I.or  s’avvolgeano  per  cotal  guisa  intorno  , 

Che  stendere  una  man  , levare  un  piede  , 

Tutto  era  indarno  ; e s’accurgeano  al  fine  , 
Non  aprirsi  di  scampo  alcuna  via.  400 . 

S’avvicinava  intanto  il  fabbro  illustre, 

Che  volta  dìè  dal  suo  viaggio  a Lenno; 
Perocché  il  Sole  spiator  la  trista 
Storia  gli  racconto.  Tutto  dolente 
(riunse  al  suo  ricco  tetto  , ed  arrestossi 
Nell’atrio  : immensa  ira  l'invase  , e tale 
Dal  petto  un  grido  gli  scoppiò  , che  tutti 
Ddi'Olim  l’udir^gli  abitatori. 

O Giove  padre  , e voi , disse  , beati 

Numi , che  d’immortal  vita  godete , 4>t> 

Cose  venite  a rimirar  da  riso  , 

Ma  pure  insopportabili  : Ciprigna , 

Di  Giove  figlia,  me  , perchè  impedito 
De’  piedi  son  , cuupre  d’infamia  ognora  , 

£d  il  suo  cor  m'U’umicida  Marte 
Pone  , come  in  colui , che  bello  , e sano 
Nacque  di  gambe,  dove  io  mal  mi  reggo. 

Chi  sen  vuole  incolpare  ? Non  forse  i soli , 

Che  tal  non  mi  dovean  mettere  in  luce , 

Parenti  miei  ? Testimon  siate  , o Numi , ^2,0 
Del  lur  giacersi  uniti , e dell'ingrato 
Spettacol , che  oggi  sostener  m’è  forza. 

Ma  ìnl'redderan  nelle  lor  voglie  , io  credo  , 
Benché  si  accesi , e a cotai  sonni  in  preda 
Più  non  vorranno  abbandonarsi.  Certo 
Non  si  svilupperun  d’este  catene  , 

Se  tutti  prima  non  mi  torna  il  padre 
Quei , ch’io  posi  in  sua  man  , doni  dotali 
Per  la  fanciulla  svergognala  : quando 
Bella  , sia  loco  al  ver , figlia  ei  possiede,  4^^ 
Ma  del  proprio  suo  cor  non  donna  punto. 

Disse  ; e i Dei  s’adunaro  alla  fondata 
Sul  rame  casa  di  Vulcano.  Venne 
Nettuno  , il  Dio  , per  cui  la  terra  trema  , 
Mercurio  venne  de'  mortali  amico  , 

Venne  Apollo  dal  grande  arco  d’argento. 


S E A 

Le  Dee  non  già  : chè  nelle  stanze  loro 
Riteneale  vergogna.  Ma  i datori 
D’ogni  bramato  Den  Dei  sempiterni 
Nell’atrio  s’adunàr  : sorse  tra  loro  440 

Un  riso  inestinguibile  , mirando 
Di  Vulcan  gli  artifici  ; e alcun  , volgendo 
Gli  occhi  al  vicino  , in  tai  parole  uscia  : 
Fortunati  non  sono  i nequitosi 
Fatti , e il  tardo  talor  l’agile  arriva. 

Ecco  Vulcan  , benché  sì  tardo  , Marte  , 

Che  di  velocità  tutti  d’Olimpo 
Vince  gli  abitator , cogliere  : il  colse, 

Zoppo  essendo  , con  l’arte;  onde  la  multa 
Dell’adulterio  gli  può  torre  a dritto.  460 

Àllor  così  a Mercurio  il  gajo  Apollo  : 

Figlio  di  Giove  , messaggiero  accorto  , 

Di  grate  cose  dispensier  cortese  , 

Vorrestu  avvinto  in  sì  tenaci  nodi 
Dormire  all’aurea  Venere  da  presso? 

Oh  questo  fosse,  gli  rispose  il  Nume 
Licenzioso  , e ad  opre  turpi  avvezzo  , 

Fosse  , o Sir  dall’argenteo  arco  , e in  legami 
Tre  volte  tanti  io  mi  trovassi  avvinto  , 

E intendessero  i Numi  in  me  lo  sguardo  460 
Tutti , e tutte  le  Dee  ! Non  mi  dorria 
Dormire  all’aurea  Venere  da  presso. 

Tacque;  e in  gran  riso  i Sempiterni  dlero. 
Ma- non  ridea  Nettuno  , anzi  Vulcano  , 

L’inclito  mastro , senza  fin  pregava  , 

Liberasse  Gradivo , e con  alate 
Parole  gli  dicea  : Scioglilo.  Io  t’entro 
Mallevador  , che  agl’immortali  in  faccia 
Tutto  ei  compenserà  , com’è  ragione. 

Questo  , rispose  il  Dio  dai  piè  distorti  47® 
Al  Tridentier  dalle  cerulee  chiome. 

Non  ricercar  da  me.  Triste  son  quelle 
Malleverie,  che  dannosi  pe’ tristi. 

Come  legarti  agl’immortali  in  faccia 
Potrei,  se  Marte,  de’suoi  lacci  sciolto  , 

Del  debito , fuggendo , anco  s’afFranca  ? 

Io  ti  satisfarò  , ripreso  il  Nume  , 

Che  la  terra  circonda  , e fa  tremarla. 

£ il  divin  d’ambo  i piè  zoppo  ingegnoso  : 
Bello  non  fora  il  ricusar  , nè  lice.  4®® 

Disse  , e d’uii  sol  suo  tocco  i lacci  infranse. 

Come  liberi  fur  , saltaro  in  piede  , 

E Marte  in  Tracia  corse:  ma  la  Diva 
Del  riso  amica  , riparando  a Cipri , ' 

III  Pafo  si  fermò  , dove  a lei  sacro 
Frondeggia  un  bosco  , ed  un  aitar  vapora. 

Qui  le  Grazie  lavaro  , e del  fragrante 
Olio  , che  la  beltà  cresce  de’ Numi , 

Unsero  a lei  le  delicate  membra  : 

Poi  così  la  vestir  , che  maraviglia  40® 

Non  men,  che  la  Dea  stessa,  era  il  suo  manto. 

Tal  cantava  Demodoco  ; ed  Ulisse  , 

E que’  remiga tor  forti , que’ chiari 
Navigatori  , di  piacere  , udendo  , 

Le  vene  ricercar  sentiansi , e Fossa, 

Ma  di  Laodamante  , e d’Alio  soli  ,* 

Chè  gareggiar  con  loro  altri  non  osa  , * 

Ad  Alcinoo  mirar  la  danza  piacque. 

Nelle  man  tosto  la  leggiadra  palla 

Si  recaro  , che  ad  essi  uvea  l’industre  5oo 

Polibo  fatta  ; e colorata  in  rosso. 

L’uu  la  palla  gittava  in  ver  le  losche 


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I.  1 n R o 

Nubi , ciirrato  indietro  ; e TaUro  , un  tallo 
Spiccando  , ricereala  , rd  ai  compagno 
La  rispìngca  tenza  fatica  , o sforzo. 

Pria  che  di  nuovo  il  tuoi  col  piè  toccatke. 
Gittata  in  alto  ia  vermìglia  palla  , 

La  nutrice  di  molti  amica  terra 
Co*  dotti  piedi  cumincìaro  a battere , 

A far  volte , e rivolte  alterne , e rapide , 5io 
IVrentre  lor  s’applaudia  dagli  altri  giovani 
Nei  circo  , e acute  al  ciel  grida  t alzavano. 

Così  ad  Alcinoo  i'itacese  allora: 

O de’  mortali  il  più  famoso  , e grande  y 
Mi  promettesti  danzatori  egregi  . 

K ingannato  non  m’hai.  Chi  può  mirarli 
Senza  inarcar  dello  stiipor  le  ciglia? 

Gioì  d'Alcinoo  la  sacrata  possa , 

E ai  Feaci  rivolto  , Udite  , aisse , 

Voi,  che  per  sangue,  e merto  i primi  siete.  52o 
Saggio  assai  parmi  il  forestiero  , e degno  , 

Che  di  ricchi  rorniam  doni  ospitali. 

Dodici  reggon  questa  gente  illustri 
Capi , e tra  loro  io  tredicesmo  siedo. 

Tunica  , e manto  , ed  un  talento  d’oro 
Fresentiamgli  ciascuno,  e tosto,  e a un  tempo: 
Ond’ei , cosi  donato,  alla  mia  cena 
Con  più  gio)a  m‘l  cor  veglia  , e s’assida. 
Hurialu  , che  il  ferì  d’acerbi  motti , 

Co’  doni  , e in  un  con  le  parole,  il  plachi  53o 
Assenso  diè  ciascuno  , e un  banditore 
Mandò  pe’  doni  ; e cosi  Eurialo  : Alcinoo  , 

11  più  famoso  de’  mortali  , e grande  , 

L’ospite  io  placherò  , come  tu  imponi. 

Gli  ofit'irò  questa  di  temprato  rame 
Fedele  spada  , che  d’argento  ha  l’elsa  , 

La  vagina  d’avorio  ; e lu  l’avorio 
Tagliato  dall’artefice  di  fresco. 

Non  l’avrà  , io  penso,  il  forestiere  a sdegno. 

Ciò  detto,  a Ulisse  in  man  la  spada  poso  640 
Con  tali  accenti  : Ospite  padre , salve. 

•Se  dura  fu  profTcrta  , e incauta  voce  , 

Prendala  , e seco  il  turbine  la  porti. 

K a tc  della  tua  donna  , % degli  amici , 

Donde  lungi , e tra  i guai , gran  tempo  vìvi , 
Giove  conceda  i desiati  aspetti. 

Salve  , gli  replicò  subito  Ulisse  , 

Amico  , e tu.  Gli  abitator  d'Olimpo 
Diami  felici  dì  ; nè  mai  nel  petto 
Per  volger  d’anni  uo{>o  , o deslr  ti  nasca  55<* 
Di  questa  spada  , ch’io  da  te  ricevo, 

Benché  placato  già  sol  da’  tuoi  detti. 

Tacque;  e il  buon  brando  agli  omeri  sospese. 

Già  dechinava  il  S<jle  , einnanzi  a Ulisse 
Stavano  i doni.  Gli  onorati  araldi 
Nella  reggia  portaro  i doni  eletti , 

Che  dai  figli  del  Re  tolti , e all’augusta 
Madre  davante  collocati  furo. 

Alcinoo  entrò  alla  reggia  , e seco  i Prenci , 

Che  altamente  sederò  ^ e del  Re  il  sacro  5Co 
Valore  in  forma  tal  parlò  ad  Arete  :• 

Donna  , su  via  , la  più  sald’arca  , e bella, 

Fuor  traggi , ed  una  tunica  vi  stendi , 

B un  manto  , di  cui  nulla  oiTenda  il  lustro. 
Scaldisi  in  oltre  allo  sranier  nel  cavo 
Rame  sul  £oco  una  purissim’onda  , 

Perch’ei , le  membra  asterse,  e visti  in  bello 
Oidin  riposti  de*  Feaci  i <Umi , 


OTTAVO.  4’> 

Meglio  il  cibo  gli  sappia , e più  gradito 
Scendagli  al  core  per  l'orecchio  il  canto.  670 

10  questa  gli  darò  di  pregio  eccelso 

Mia  coppa  d’oro  , acciò  non  sorga  giorno  , 
Ch’ei  d'Alcinoo  non  pensi,  al  Saturnide 
Libando  nel  suo  tetto  , e agli  altri  Numi. 

Disse  ; ed  Arate  alle  sue  fanti  ingiunse 
Porre  il  treppiede  in  su  le  brace  ardenti. 
Quelle  il  treppiede  in  su  le  ardenti  brace 
Posero  , e versar  l’onda  , c le  raccolte 
Legne  accendeanvì  sotto  : il  cavo  rame 
Cingean  le  fiamme,  e si  scaldava  il  fonte.  480 
Arete  fuor  delia  secreta  stanza 
Trasse  delTarcbe  la  più  .salda  , e bella  , 

K tutti  con  la  tunica  , e col  manto 
Vi  allogò  i doni  in  vcstimenta  , e in  oro. 

Iodi  assennava  l’ospite  : 11  coverchio 
Metti  tu  stesso  , e bene  avvolgi  il  nodo , 

Non  forse  alcun  ti  nuoccia  , ove  le  il  dolco 
Sonno  cogliesse  nella  negra  nave. 

L’accorto  eroe  , che  non  lulilla  indarno , 
Mise  il  coverchio  , e l’iiitricatu  nodo  djo 
Prestamente  formò,  di  cui  mostrato 
Gli  ebbe  il  secreto  la  Dedalea  (^irce. 

R qui  ad  entrar  la  dispensiera  onesta 
L’invitava  nel  bagno.  Ulisse  vide 
I lavacri  fumar  tanto  più  lieto  , 

Che  tai  conforti  s’accostàr  di  rado 
Al  suo  corpo  dal  dì  che  della  Ninfa 
Le  grotte  più  noi  ritenean  , dov’era 
D’ogni  cosa  adagiato  al  par  d’un  Nume. 

Lavato  ed  unto  per  le  scorte  ancelle  , 600 

E di  manto  leggiadro  e di  leggiadia 
Tunica  cinto,  alla  gioconda  mensa 
Da’  tepidi  lavacri  Ulisse  giva. 

Nausica  , cui  splendea  tutta  nel  volto 
l..a  beltà  degli  Dei , della  superba 
Sala  fermossi  alle  lucenti  porte. 

Sguardava  Ulisse  , e Pammirova  , é queste 
Mandavagli  dal  sen  parole  alate  : 

Felice  , ospite  , vivi , e ti  ricorda  , 

Come  sarai  nella  natia  tua  terra  , 610 

Di  quella  , onde  pria  venne  a le  salute. 

Nausica  , del  prò’  Alcinoo  ìnclita  figUfl  , 
Ulisse  rispondeale , oh  ! così  Giove  , 
L’altitonante  di  Giunon  marito , 

Voglia  die  il  dì  del  mio  ritorno  spunti  p 
Cum’io  nel  dolce  ancor  nido  nativo 
Sempre  , qual  Dea , t’onorerò  : che  fosti 
La  mia  salvezza  tu  , fancnilla  illustre. 

Già  le  carni  partiansi , e nelle  coppe 
Gli  umidi  vini  si  mesceano.  Ed  ecco  620 

11  bandttor  venir  , guidar  per  mano 
L’onorato  da  tutti  amabil  vate , 

£ adagiarlo  , facendogli  d'un’alta 
Colonna  appoggio  . ai  convitati  in  mesxo» 
Ulisse  allor  dall’abbrostita  c ghiotta 
Schiena  di  pingue , dentibianco  verro 
Tagliò  un  florido  brano  ,.ed  all’araldo , 

Te’,  disse,  questo,  e al  vate  il  porta  , ood’io 
Rendagli , benché  afllitto  , un  qualche  onore. 
Chi  è che,  in  pregio  c in  riverenza  i vati  63o 
Non  tenga  ? i vati , che  ama  tanto,  e a cui 
Si  dolci  melodie  la  Musa  impara» 

Portò  Taraldo  il  dono , e il  vate  il  preie^ 

E per  l’alma  gli  andò  tacita  gioja» 


44  O D 1 S 

Alle  vivande  intanto  e alle  bevande 
Porgean  ia  mano  ; e iùro  spenti  appena 
DelEi  fame  i desiri  e della  sete , 

Che  il  saggio  Ulisse  tati  accenti  sciolse: 
Uemodocu  , io  te  sopra  ogni  vivente 
Sollevo  , te , che  la  canora  figlia  64^ 

Del  sommo  Giove  , o Apollo  stesso  inspira. 

Tu  i casi  degli  Achivi , c ciò  che  opraro  , 

Ciò  che  soffrirò , con  estrema  cura , 

Quasi  visto  l’avessi , o da  que’  prodi 
Guerrieri  udito  , su  la  cetra  poni. 

Via  y dunque  , siegui , e l’edihzio  canta 
Del  gran  cavallo  , che  d’inteste  travi , 

Con  Pallade  al  suo  fianco  ^ £pèo  cuiistrusse» 

£ Ulisse  penetrar  feo  nella  rocca 
Dnrdauia  pregno  (stratagemma  insigne!)  65u 
Degli  eroi , per  cui  Troja  andò  in  faville. 

Ciò  fedelmente  mi  racconta  , e tutti 
Sciamar  m’udranno , ed  attestar  che  il  petto 
Dì  tutta  la  sua  fiamma  il  Dio  t’accende. 

Demodoco , che  pieno  era  del  Nume, 

D’alto  a narrar  prendea , come  gU  Achivi , 
Gittate  il  foco  nelle  tende  , i legni 
Parte  salirò  , e aprir  le  vele  ai  venti , 

Parte  sedean  col  valoroso  Ulisse 

!Ne’  fianchi  del  cavallo  entro  la  rocca.  6C0 

1 Troi,  standogli  sotto  in  cerchio  assisi, 

IMolte  cose  diccan,  ma  incerte  tutte, 

D in  tre  sentenze  divjdeansi  : o il  cavo 
Degno  intagliato  lacerar  con  l’armi , 

O addurlo  111  cima  d’una  rupe , e quindi 
Precipitarlo,  o il  simulacro  enorme 
Agli  adirati  Numi  ofiVire  in  voto. 

Questo  prevalse  alfìn  : poiché  destino 
£ra  che  allor  perisse  Ilio  superbo  , 

Che  ricettata  nel  suo  grembo  avesse  C70 

L'immensa  mole  intesta  , ove  de’  Greci , 
jVIorte  ai  Troi  per  recar  , sedeano  i capì. 
Narrava  pur  , come  de’  Greci  i figli , 

Puor  di  quella  versatisi,  e lasciate 
Le  cave  insidie  , la  cìttade  a terra 
Gittaro}  e come,  mentre  i lor  compagni 
Giiastavan  qua  e là  palagi  e templi, 

Ulisse  di  DeiTobo  alla  casa 

Col  diviii  Menelao  corse  , qual  Marte  , 

E un  duro  v'ebbe  a sostener  conflitto , 680 

Donde  usci  vincitore  , auspice  Palla. 

A tali  voci , a tai  ricordi  Ulisse 
Struggeasi  dentro  , e per  le  smorte  guance 
Piovea  lagrime  giù  dalle  palpebre. 

Qual  donna  piange  il  molto  amato  sposo  , 

Che  alla  sua  terra  innanzi , e ai  cittadini 
Cadde  e ai  pargoli  suoi  , da  cui  lontano 
Volea  tener  l’ultimo  giorno  ; ed  ella  , 

Che  moribondo  il  vede  e palpitante, 

Sovra  lui  s’abbandona  , ed  urla  e stride  , G<jo 
Mentre  ha  di  dietro  chi  dell’asta  il  tergo 
Le  va  battendo,  e gli  omeri , e le  intima 
Schiavitù  dura  , e gran  fatica  e strazio  , 

Si  che  già  del  dolor  ia  inisereila 
Smunto  ne  porta  e disfiorato  il  volto  : 

Cosi  Ulisse  dì  sotto  alle  palpebrQ 
Consumatrici  lagrime  piovea. 


S E A 

Pur  del  suo  pianto  non  s’accorse  alcuno  , 

Salvo  Re  Alcinoo , che  sedeagli  appresso  , 

£ gemere  il  seiitia  : però  ai  Feaci , 700 

Udite , disse  , o Condottieri , e Prenci. 
Deponga  il  vate  la  sonante  cetra: 

Chè  a tutti  il  canto  suo  grato  non  giunge. 

Dal  primo  istante , ch’ei  toccolla  , in  pianto 
Cominciò  a romper  l’ospite  , a cui  siede 
Certo  un’antica  in  sen  cura  mordace. 

La  mano  adunque  dalle  corde  astenga; 

E lieto  allo  straiiier  del  par  , che  a noi . 

Che  il  ricettammo  , questo  giorno  cada, 
Consiglio  altro  non  v’ha.  Per  chi  tal  festa?  710 
Per  chi  la  scorta  preparata  , c i doni , 

D’amistà  pegni , e le  accoglienze  oneste  ? 

Un  supplice  straniero  ad  uum  , che  punto 
Scorga  diritto  , è di  fratello  in  vece. 

Ma  tu  di  quel , ch’io  domandarti  intendo , 
Nulla  celarmi  astutamente:  meglio 
Torneranne  a te  stesso.  11  nome  dimmi , 

Con  che  il  padre  solea  , solea  la  madre, 

E ì cìttadiii  chiamarti , ed  ì vicini  : 

Chè  senza  nome  uom  non  ci  vìve  in  terra  , 720 
Sia  buono , o reo , ma  come  aperse  gii  occhi , 
Da’genitori  suoi  l’acquista  in  fronte. 

Dimmi  il  tuo  suol , le  genti  e la  cictade , 

Sì  che  la  nave  d’intelletto  piena 

Prenda  la  mira  , e vi  li  poni.  I legni 

Della  Feacia  di  nocchier  mestieri 

Non  han  , nè  di  timon  : mente  hanno , e tutti 

Sanno  i disegni  di  chi  stavvi  sopra  , 

Conoscon  le  cìttadì  e i pingui  campì , 

£ senza  tema  di  mina  o storpio , 73o 

Rapidissimi  varcano , e di  folta 
Nebbia  coverti , le  marine  spume. 

Bensì  al  padre  Nausitoo  io  dire  intesi , 

Che  Nettun  contra  noi  forte  s’adira  , 

Perchè  illeso  alla  Patria  ogni  mortale 
Riconduciamo;  e che  un  de’ nostri  legni 
Ben  fabbricati , al  suo  ritorno , il  Dio 
Struggerà  nelle  fosche  onde;  e la  nostra 
Cittane  coprirà  d’alta  montagna. 

Ma  effetto  abbiano,  o no,  queste  minacce,  740 
Tu  mi  racconta  , nè  fraudarmi  il  vero  , 
l mari  scorai  e i visitati  lidi. 

Parlami  delle  genti , e delle  terre 
Che  di  popol  ridondano,  e di  quanto 
Veder  t’avvenne  nazioni  agresti  , 

Crudeli , ingiuste  , o agli  stranieri  amiche  , 

E a cui  timor  de’Numi  alberga  in  petto. 

Nè  mi  tacer,  perchè  secreto  piangi 
Quanto  il  fato  di  Grecia  e d'ilio  ascolti. 

Se  venne  dagli  Dei  strage  cotanta  , 760 

Lor  piacque  ancor  che  degli  eroi  le  morti 
Fossero  il  canto  dell’età  future, 
fi  perì  forse  un  del  tuo  sangue  a Troja  , 
Genero  prode  , o suocero  , i più  dolci 
Nomi  al  cor  nostro  dopo  i figli  e ì padri  ? 

O forse  un  fido  , che  nell'alma  entrarti 
Sapea  , compagno  egregio  ? È qual  fratello 
i/uom  , che  sempre  usa  teco  , e a cui  fornirò 
D’alta  prudenza  rintelletto  i Numi. 


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LIBRO  NONO 


ARGOMENTO 

Llisse  incomiiKia  il  ra^'coDtu  delle  avventure  sue  H«<]m  la  sua  partenza  di  Tmja.  nAttaglia  en* Cleoni  ^ rhe 
avean  succorso  i Trojani.  Arrivo  al  |taesc  ^ o sia  mangiatori  del  loto,  Deacrixioiie  d’uoa  tingoLare 

isoletta  , c della  S|ieluuca  del  Ciclupo  Polifemo.  Questi  gli  divora  »ei  du’ com{iagQÌ  j cd  egli,  <U^h>  averlo  aociecalo, 
si  salva  cou  gli  altri , inediaute  uno  strategeuuua  nuovo  che  seppie  ioveutare. 


Alcinoo  Rege  , che  ai  mortali  tutti 
Di  grandezza  e di  gloria  innanzi  vai , 

Bello  è l’udir , gli  replicava  Ulisse, 

Cantor , come  Demndoco  , di  cui 
Pari  a quella  d’un  Dio  suona* la  voce  : 

Nè  spettacof  più  grato  havvi , che  quando 
Tutta  una  gente  si  dissolve  in  gioja, 

Quando  alla  mensa  , che  il  cantor  rallegra  , 
Molti  siedono  in  ordine,  e le  lanci 
Colme  di  cibo  son  , di  vino  l’unie , io 

Donde  coppier  neU’auree  tazze  il  versi , 

K ai  convitati  assisi  il  porga  in  giro. 

Ma  tu  la  storia  de’  miei  guai  domandi, 
Perch’io  rinnovi  ed  inacerbi  il  duolo. 

Qual  pria  dirò , qual  poi , qual  nell’estremo 
Racconto  serberò  dell^  sventure. 

Che  gravi  e molle  m’iuviaro  i Numi  ? 

Prima  il  mio  nome  ; acciò , se  vita  un  giorno 
Ali  si  concede  riposata  e l'erma  , 

Dell’ospitalità  ci  unisca  il  nodo  , 3o 

Renelle  quinci  lontan  sorga  il  mio  tetto. 
Ulisse , il  figlio  di  Laerte , io  sono , 

Per  tutti  accorgimenti  al  Mondo  in  pregio, 

£ già  noto  per  t'ama  in  sino  agli  astri. 

Abito  la  serena  Itaca , dove 
Lo  scuutitronde  Nérito  si  leva 
Superbo  in  vista  , ed  a cui  giaccìon  molte 
Non  lontane  tra  loro  ìsole  intorno , 

Dnlichio  , Same,  e la  di  selve  bruna 
Zacinto.  All’orto  e al  mezzogiorno  queste,  5o 
Itaca  al  polo  st  rivolge  , e meno 
Dal  continente  fugge:  aspra  di  scogli , 

Ala  di  gagliarda  gioventù  nutrice. 

Deh  qual  giammai  l’uom  può  della  natia 
Sua  contrada  veder  cosa  più  dolce? 

Calipso  , inclita  Diva,  in  cave  grotte 
Mi  l'itenea  , mi  ritenea  con  arte 
Nelle  sue  case  la  Dedalea  Circe , 

Desiando  d'avermi  entrambe  a sposo. 

Ma  nè  Calipso  a me  , nè  Circe  il  core  40 
Piegava  mai  ; che  di  dolcezza  tutto 
La  Patria  avanza  , e riulla  giova  un  ricco 
Splendido  albergo  a chi  da’ suoi  disgiunto 
Vive  in  estranea  terra.  Or  tu  mi  chiedi 
Quel  che  da  Troja  prescriveami  Giove 
Lucrimabil  ritorno;  ed  io  tei  narro. 

Ad  Isinaro  , de'  C coni  alla  sede  , 

Me  , che  lasciava  Troja  , il  vento  spìnse. 
Saccheggiai  la  città,  strage  menai 
• Degli  abitanti;  e sì  le  molte  robe  5o 

Dividemmo , e le  donne  , che  alla  preda 
Ciascuno  ebbe  ugual  parte.  Io  gli  esortava 
Partir  subito  e in  fretta  ; e i forsennati , 
Dispregiando  il  mio  dir,  pecore  pingui, 
Pingui  a scannar  tortocornuli  tori , 

£ larghi  nappi  ad  asciugnr  sul  Udo.  * 


S’alìontanaro  in  questo  mezzo  , e voce 
Diero  ì Cleoni  ai  Ciconi  vicini , 

Che  più  addentro  abitavano.  Costoro  , 

Che  in  numero  vincean  gli  altri,  ed  in  forza,  Co 
H battagliare  a piè , come  dal  carro  , 

Sapean  del  pari  , maitutini , e tanti , 

Quante  son  fronde  a primavera  e fiori , 
Vennero  ; e allor  di  cielo  a noi  meschini 
Riversò  addosso  un  gran  sinistro  Giove. 

Stabile  accanto  alle  veloci  navi 

Pugna  si  coromettea  : d’ambo  le  parti  ' 

VuTavan  le  pungenti  aste  omicide. 

Finché  il  mattili  durava  , e il  sacro  Sole 
Acquistava  del  cici , benché  più  «carsi , 70 

Sostenevam  della  battaglia  i)  nembo. 

Ma  come  il  Sol  , calandosi  all’Occasu  y 
L’ora  menò  , che  dal  pesante  giogo 
Si  disciolgono  i buoi , l’Achìva  forza 
Fu  dall’aste  de’ Ciconi  respinta. 

Sei  de’  compagni  agli  schinieri  egregi 
Perde  ogni  nave  : 10  mi  salvai  col  resto. 

Lieti  nel  cor  della  schivata  morte  , 

F de’ compagni  nella  pugna  uccisi 
Dolenti  in  un  , ci  allargavam  dal  lido:  80 

Ma  le  ondivaghe  navi  il  lor  cammino 
Non  proseguian  , che  tre  fiate  in  prima 
Non  si  fosse  da  noi  chiamato  a nome 
Ciascun  di  quei  che  giaceaii  freddi  addietro. 
L’adunator  de’  nembi  olimpio  Giove 
Contro  ci  svegliò  intanto  una  feroce 
Tempesta  borea! , che  d’atre  nubi 
La  terra  a un  tempo  ricoverse,  e il  mare, 

K la  notte  di  cielo  a piombo  scese. 

Le  vele  ai  legni , che  moveansi  obbliqui , 90 

Squarciò  in  tre  e quattro  parti  il  forte  turbo. 
Noi  dei  timore  ammainammo  , e ratto 
( navigli  affrettammo  in  ver  la  spiaggia  y 
Ove  due  giorni  interi , e tante  notti 
Posavam  lassi , e addolorati  e muti. 

Ma  come  l’Alba  dai  capelli  d’orp 
Il  dì  terzo  recò  , gli  alberi  alzati , 

F dispiegate  le  candide  vele. 

Filtro  i navigli  sedevam  , fa  cura 
Al  timonier  lasciandone  , ed  al  vento.  100 
Tempo  era  quello  da  toccar  le  amale 
Sponde  natie  : se  non  che  Borea  , e un’aspra 
Corrente  me,  che  la  Maléa  girava  , 

Respinse  indietro  , e da  Citerà  svolse. 

Per  nove  infausti  dì  sul  mar  pescoso 
I venti  rei  mi  traportaro.  Al  fine 
Nel  decimo  sbarcammo  in  su  le  rive 
De’ Lotofagi , un  popolo  , a cui  cibo 

d’una  pianta  il  florido  germoglio. 

Filtrammo  nella  terra,  acqua  attignemmo,  1 1<> 
V.  pasteggiamo  appo  le  navi.  Estinti 
Un'Ila  faine  i desiri  e Rr-lla  sete  , 


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45  ODI 

10  due  scelgd  de’  nostri , a cui  per  terzo 
Giungo  un  araldo,  e a investigar  li  mando: 
Quai  mortali  il  paese  alberghi  e nutra. 

Partirò  , e s’aQrontaro  a quella  gente  > 

Che , lunge  dal  voler  la  vita  loro  , 

11  dolce  loto  a savorar  lor  porse. 

Chiunque  Tesca  dilettosa  e nuova 

Gustato  avea,  con  le  novelle  indietro  no 
Non  bramava  tornar  : colà  bramava 
Starsi , e , mangiando  del  soave  loto  , 

La  contrada  natia  sbandir  dal  petto. 

È ver,  ch’io  lagrimosi  al  mar  per  forza 
Li  ricondussi,  entro  i cavati  legni 
Li  cacciai , gli  annodai  di  sotto  ai  banchi  : 

£ gli  altri  risalir  con  gran  prestezza 
Le  negre  navi  comandai , non  forse 
Ponessealcun  nel  dolce  loto  il  dente» 

£ la  patria  cadessegli  dal  core.  l5o 

Quei  le  navi  saliano , e sovra  i banchi 
Sedean  l’un  dopo  l’altro , e gian  battendo 
Co’  pareggiati  remi  il  mar  canuto. 

Ci  portammo  oltre  , e de’  Caclopi  altieri , 
Che  vivon  senza  leggi , a vista  fummo, 
uesti,  lasciando  ai  Numi  ogni  pensiero», 
è ramo , o seme  por , nè  soglinn  gleba 
Col  voinero  spezzar  } ma  il  tutto  viene 
Non  seminato  , non  piantato  o arato , 

L’orzo,  il  frumento  e la  gioconda  vite,  i4o 
Che  si  carca  di  grosse  uve  . e cui  Giove 
Con  pioggia  tempestiva  educa  e cresce. 

L'oggi  non  han , non  radunanze , in  cui 
Si  consulti  tra  lor:  de’  munti  eccelsi 
Dimoran  per  le  cime,  o in  antri  cavi  ; 

Su  la  moglie  ciascun  regna  e su  i Bgli , 

Nè  l’uno  all’altro  tanto  o quanto  guarda. 

Ai  Ciclopi  di  contra,e  nè  vicino 
Troppo  , nè  lunge,  un'isoletta  siede 
Di  loreste  ombreggiata  , ed  abitata  l5o 

Da  un’iufìnita  nazion  di  capre 
Silvestri.,  onde  la  pace  alcun  non  turba  ; 

Chè  il  cacciator , che  per  burroni  e boschi 
Si  consuma  la  vita , ivt  non  entra , 

Non  aratore,  o mandrìan  v’alberga. 

Manca  d’umani  totalmente,  e solo 
Le  belanti  caprette  , inculta  , pasce* 

Però  che  navi  dalle  rosse  guance 
Tu  cerchi  indarno  tra  i Ciclopi , indarno 
C-trchl  fabbro  di  nave  a saldi  ban.:UÌ , l6u 
Su  cui  passare  i golB , e le  straniere 
Città  trovar  , qual  delle  genti  è usanza  , 

Che  spesso  van  l’una  dell’altra  ai  lidi , 

£ all’isola  deserta  addur  coloni. 

Malvagia  non  è certo,  e in  sua  stagione 
Tutto  darebbe.  MullL  e irrigui  prati 
Spiegansi  in  riva  del  canuto  mare. 

Si  vestirlan  di  grappi  ognor  le  viti , 

£ cosi  un  pingue  suolo  il  vomer  curvo 
Kiceveria  , che  altissima  troncarvi  170 

PotrUsì  al  tempo  la  bramata  messe. 

Che  del  porto  dirò?  Non  v’ha  di  fune 
Nè  d’àncora  mestieri  j e chi  già  entrovvì  , 
Tanto  vi  può  indugiar,  che  de'  nocchieri 
Le  voglie  si  raccendano  , e secondi 
Spirino  i venti.  Ma  del  porto  in  cima 
S’apré  una  grotta  , sotto  cui  zampilla 
L’argentina  onda  d’una  fonte  , e a coi 


S S E A 

Fan  verdissimi  pioppi  ombra  e corona. 

Là  smontavamo  , e per  l'oscura  notte,  180 
Noi , spenta  ogni  veduta  . un  Dio  scorgea  : 

Chè  una  densa  caligine  alle  navi 
Stava  d’ intorno , nè  splendea  dì  cielo 
La  Luna,  che  d'un  nembo  era  coverta. 

Quindi  nessun  l'isola  vide,  e i vasti 
Flutti  al  lido  volventisi , che  prima 
\pprodati  non  fossimo.  Approdati , 

Tutte  le  vele  raccogliemmo  , uscimmo 
Sul  lido  , e l’Alba  dalle  rosee  dita  , 

Nel  sónno  dlsciogUendoci , aspettammo.  190 

Sorta  la  figlia  del  mattino  appena  , 
L’isoletta,  cìie  in  noi  gran  maraviglia 
Destò  , passeggiavamo.  Allor  le  Ninfe  , 
l'role  cortese  ilelTEgioco  Giove, 
l^er  fornir  di  convito  i miei  compagni  , 

Q ielle  capre  levaro.  E noi  repente  , 
foresi  i curvi  archi,  e le  asticciuole  acute  » 

E tre  schiere  di  noi  fatte  , in  tal  guisa 
Il  monte  fulminammo  , e il  bosco  tutto  , 

Ch’io  non  so  , se  dai  Numi  in  s\  brev’ora  3oo 
Fu  concessa  giammai  caccia  si  ricca. 

Dodici  navi  mi  seguìano , e nove 
Capre  ottenne  ciascuna:  io  dieci  n'ebbi. 

Tutto  quel  giorno  sedevamo  a mensa 
Tra  carne  immense  e prezioso  vino  : 

Poiché  restava  su  le  navi  ancora 
D?1  licore,  onde  molte  anfore  e molte 
Riempiuto  evevam  , quando  la  sacra 
Dispogliammo  de’  Ciconi  cittade. 

E de’  Ciclopi  nel  vicin  paese  aio 

Levate  intanto  tenevam  le  ciglia  » 

E salili  vedevam  il  fumo  , e miste 
Col  belo  dell’agnelie  e delle  capre 
Raccoglievam  le  voci.  Il  Sole  ascoso  » 

£d  apparse  le  tenebre,  le  membra 
Sul  maria  lido  a riposar  gettammo. 

Ma  come  del  mattili  la  figlia  sorse. 

Tutti  chiamati  a parlamento  , Amici 
.Dissi , vi  piaccia  rimaner  , mentr’io 
Defila  gente  a spiar  vo’  coi  mio  legno  » 330 

Se  ingiusta,  soperclilevole,  selvaggia  » 

O di  core  ospitai  siasi , ed  a cui 
Timor  dei  Numi  si  racchiuda  in  petto. 

Detto  , io  montai  la  nave  , e ai  remiganti 
Montarla  ingiunsi , e liberar  le  fune. 

E quei  ratto  ubbidirò  ^ e già  su  i banchi 
Sedean  l’un  dopo  l’altro , e gian  battendo 
Co’  pareggiati  remi  il  mar  canuto. 

Giunto  alla  terra  , che  sorgeaci  a fronte 
Spelonca  eccelsa  nell’estremo  fianca  u5o 

Di  lauri  opaca  , e al  mar  vicina  , io  vidi. 

Entro  giaceavi  innuinerabll  greggia  » 

Pecore  e capre  ; e di  recise  pietre 
Composto , e di  gran  pini  e querce  ombrose  ^ 
Alto  recinto  vi  correa  d’intorno. 

0om  gigantesco  abita  qui,  che  lunge 
Pasturava  le  pecore  soliiigo. 

In  disparte  costui  vivea  aa  tutti, 

£ cose  inique  nella  mente  cruda 

Covava  : orrendo  mostro , nè  sembiante  340 

Punto  alla  stirpe  die  di  pan  si  nutre. 

Ma  più  presto  al  cucuzzolo  selvoso 
D’una  montagna  smisurata  , dove 
Non  gli  s’alzi  da  presso  altro  cacume. 


47 


LIBRO 

Lascio  i compagni  della  nare  a guardia , 

K con  dodici  sol,  che  i più  robusti 
Mi  pareano  , e più  arditi , in  via  mi  pongo , 
Meco  in  otre  caprili  recando  un  negro 
Licor  nettareo,  che  ci  diè  Marone 
I)*£vantéu  figlio  , e sacerdrte  a Febo , 3Òo 
Cui  d'iamaro  le  torri  erano  in  cura. 
Soggiornava  del  Dio  nel  verde  bosco  , 

£ noi  di  .santa  riverenza  tocchi 

Con  la  iiiogiic  il  salvammo , e con  la  prole. 

Quindi  ei  mi  porse  incliti  doni  : sette 

lalenti  d'òr  ben  lavorato,  un’urna 

D’argento  tutta  , e dodici  d'un  vino 

Soave  , incorruttibile  , celeste 

Anfore  coirne  ; un  vin  , ch’egli , la  casta 

Moglie  e la  fida  dispensiera  solo  , aCo 

Non  donzelle  sapeanio  , e non  ancelle. 

Quandunque  ne  bevean  , chi  empiea  la  tazza , 

Venti  metri  iiiloiinea  d'acqua  di  fonte, 

R tal  dall’urna  scoverchiata  odore 
Spirava , e sì  diviii . che  somma  noia 
Stato  sarìa  non  confortarne  il  petto, 
lo  deiralma  bevanda  un’otre  adunque 
Tenea  , teiiea  vivande  a un  zaino  in  grembo  : 
Chè  ben  dicearoi  il  cor,  quale  di  strana 
F'orza  dotato  le  gran  membra  , e insieme  270 
Debil  conuscitor  di  leggi  e dritti , 

Salvatic’uom  mi  si  farebbe  incontra. 

Alla  spelonca  divenuti  in  breve, 

Lui  non  trovammo  , che  per  l’erte  cime 
Le  pecore  lanigere  aderbava. 

Entrati , gli  occhi  stupefatti  in  giro 
Noi  portavam  : le  aggraticciate  corbe 
Cedeano  al  peso  de*  formaggi , e piene 
D’agnelli  e ai  capretti  eraii  le  staile  j 

i più  grandi,  1 mezzani,  i nati  appena,  2S0 
Tutti , come  l’etade  , avean  del  pan 
Lor  propria  stanza  ; e ì pastorali  vasi , 

Secchie  , conche  , catini , ov’ei  le  poppe 
Premer  solea  delle  feconde  madri , 

Entro  il  siero  notavano.  Qui  forte 
I compagni  pregavaumi  che,  tolto 
Pria  di  quel  cacio  , si  tornasse  addietro  , 
Capretti  s’adducessero  ed  agnelli 
Alla  nave  di  fretta  , c in  mar  s’entrasse. 

Ma  io  non  volli , benché  il  meglio  fosse  : 2qo 
Quando  io  bramava  pur  vederlo  in  faccia  , 

£ trar  doni  da  luì , che  riuscirci 
0^pite  sì  inamabile  dovea. 

Racceso  il  foco  , un  sagrihzio  ai  Numi 
Fetnmo,  e assaggiammo  del  rappreso  latte: 
ludi  l’attendevam  nell'antro  assisi. 

Venne  , pascendo  la  sua  greggia  , c in  collo 
Pondo  non  lieve  di  risecca  selva  , 

Che  la  cena  cocessegli , portando. 

Davanti  aU’atitro  gitiò  il  carco  , e tale  3oo 
Levossene  un  romor,  che  sbigottiti 
Nel  più  interno  di  quel  ci  ritraemmo. 

£i  dentro  mise  le  feconde  madri , 

£ gl’irchi  a cielo  aperto  , ed  i montoni 
Nella  corte  lasciò.  Poscia  una  vasta 
Sollevò  in  allo  ponderosa  pietra  , 

Che  ventiduo  da  quattro  ruote  e forti 
Carri  di  loco  non  avrUno  smossa  , 

£ l’ingresso  acciecò  della  spelonca. 

Fatto , le  ygiiclle , assiso , c le  belanti  3io 


NONO. 

I Capre  mugnea , tutto  serbando  il  rito , 

I £ a questa  i parti  mettea  sotto,  e a quella. 

I Mezzo  il  candido  latte  insieme  strinse , 
y.  su  i canestri  d’intrecciato  vinco 
I Collocollo  ammontato  : e l’altro  mezzo, 

Che  dovea  della  cena  esser  bevanda  , 

1)  riceverò  i pastorecci  vasi. 

Di  queste  sciolto  cotidiane  cure  , 

Mentre  il  foco  accemlea  , ci  scòrse  , e disse  : 
Forestieri , chi  siete  ? E da  quai  lidi  3ao 
Prendeste  a frequentar  i'umide  strade  ? 

Siete  voi  trafiiianti  ? O errando  andate, 

Come  corsali,  che  la  vita  in  forse. 

Per  danno  altrui  recar  , mettuii  su  ì flutti  ? 
Della  voce  al  rimbombo  , ed  all’orrenda 
Faccia  del  mostro,  ci  s’infranse  il  core. 

Pure  io  così  gli  rispoiidea  : Siam  Greci, 

Che  di  Troja  partili  e trabalzati 
Su  pel  ceruleo  mar  da  molti  venti , 

Cercando  il  suo]  natio , per  altre  vie , 53o 

£ con  viaggi  non  pensati , a queste, 

Cosi  piacque  agli  Dei , sponde  aHèrrammo. 
«Seguimmo  , e ceu  vaniiam , per  nostro  capo 
QuelJ’Atride  Agamennone  , che  il  mondo 
£mpieo  della  sua  fama  , ei  , che  distrusse 
Città  si  grande,  e tante  genti  ancise. 

£d  or,  prostesi  alle  ginocchia  tue, 

Averci  tj  preghiam  d’ospiti  in  grado, 

£ d’un  tuo  dolio  rimandarci  lieti. 

Ah  ! temi , o potentissimo  , gli  Del  : .^40 

Che  tuoi  supplici  siam  , pensa , e che  Giove 
li  supplicante  vendica  , e l’estrano  , 

Giove  ospita) , che  l’accompagna  , e il  rendo 
Venerabile  altrui.  Ciò  detto  , 10  tacqui. 

£d  ei  con  atroce  alma  : O ti  fallisce , 
Straniero,  Ì1  senno,  o tu  di  lunge  vieni. 

Che  vuoi  che  ì Numi  io  riverisca  e teina. 

L’Egidarmato  di  Saturno  figlio 

Non  temono  i Ciclopi , o gli  altri  Iddìi  / 

Chè  di  loro  siam  noi  molto  più  forti.  35o 
Nè  perchè  Giove  inimicarmi  io  debba, 

A te  concederò  perdono,  e a questi 
Compagni  tuoi,  se  a me  il  mio  cor  noi  detta. 

Ma  dimmi  : ove  approdasti?  All’orlo  estremo 
Di  questa  terra,  o a più  propinquo  lido? 

Cosi  egli  tastommi  ; ea  io , che  molto 
D'esperienza  ricettai  nel  petto, 

Ravvistomi  del  tratto,  incontanente 
Arte  in  tal  modo  gli  rendei  per  arte: 

Nettuno  là /ve  termina,  e s’avanza  36o 
La  vostra  terra  con  gran  punta  in  mare, 

Spinse  la  nave  mia  cuntra  uno  scoglio, 

E le  spezzate  tavole  per  l’onda 

Sen  portò  il  vento.  Ddll’estremo  danno 

Con  questi  pochi  io  mi  sottrassi  appena. 

Nulla  il  barbaro  a ciò;  ma,  dando  un  lancio, 
Le  man  ponea  sovra  i compagni,  e due 
Brancavane  ad  un  tempo,  e,  quai  cagnuoli, 
Fercoteali  alla  terra,  e ne  spargea 
Le  cervella  ed  il  sangue.  A brano  a brino  370 
Diiacerolli,  e s’imbandì  la  cena. 

Qual  digiuno  leon,  che  in  monte  alberga, 

Carni  ed  interiora,  ossa  e midolle, 

Tutto  vorò,  consumò  tutto.  £ noi 
A Giove  ambo  le  man  tra  il  pianto  alzammo, 
Spettacol  miserabile  scorgendo 


ODISSEA 


48 

Con  gli  occhi  nostri,  e disperatulo  suini  po. 

Poiché  la  gran  veiitraja  empiuto  s’obbe, 
Pasteggiando  dell’uomo,  e puro  latte 
Tracannandovi  sopra,  in  fra  le  agiielle  58o 
Tutto  quant’era  ei  si  distese,  e giacque, 
lo,  di  me  ricordandomi,  pensai 
Fermigli  presso,  e la  pungente  spada 
Tirar  nuda  dal  banco,  e al  petto,  dove 
La  corata  dal  fegato  si  cinge. 

Ferirlo.  Se  non  ch’io  vidi , che  certa 
Morte  noi  pure  incontreremmo,  e acerba: 

Chè  non  era  da  noi  tor  dall’immenso 
Vano  dell’antro  la  sformata  pietra  , 

Che  il  Ciclope  fortissimo  v’impose.  590 

Però,  gemendo,  atlendevam  l’Aurora. 

Sorta  l’Aurora,  e tinto  in  roseo  il  cielo. 

Il  foco  ei  raccendea,  mugnea  le  grasse 
Pecore  belle,  acconciamente  il  tutto, 

£ i parti  a (juesta  mettea  sotto,  e a quella. 

Kè  appena  tu  delle  sue  cure  uscito, 

Che  altri  due  mi  ghermì  de'  cari  amici, 

£ carne  umana  desinò.  Satollo, 

Cacciava  il  gregge  fuor  dell'antro,  tolto 
Senza  fatica  il  disonesto  sasso , 400 

Che  dell’antro  alla  bocca  indi  ripose, 

Qual  chi  a faretra  il  suo  coverchio  assesta. 

Poi  su  pel  monte  si  mandava  il  pingue 
Gregge  davanti,  alto  per  via  bschlamk). 

£d  io  tutti  a raccolta  i miei  pensieri 
Chiamai,  per  iscoprir,  come  di  lui 
Vendicarmi  io  potessi,  e un  immortale 
Gloria  comprarmi  col  favor  di  Palla. 

Ciò  al  fin  mi  parve  il  meglio.  Uu  verde  enorme 
Tronco  d’oliva  , che  il  Ciclope  .svelse  410 
Di  terra,  onde  fermar  con  quello  ì passi, 

Entro  la  stalla  a inaridir  giacca. 

Albero  scorger  credevam  di  nave 
X<arga,  mercanteggiante , e l’onde  brune 
Con  venti  remi  a valicare  usata  : 

Sì  lungo  era  e sì  grosso,  lo  ne  recisi 
Quanto  è sei  piedi , e la  recisa  parte 
Diedi  ai  compagni  da  polirla.  Come 
Polita  fu  , da  un  lato  10  l’afillai , 

L’abbrustolai  nel  foco , e sotto  il  fimo  , 4^^ 

Ch’  ivi  in  gran  copia  s’accoglìea  , l’ascosi. 
Quindi  a sorte  tirar  coloro  io  teci , 

Che  alzar  meco  dovessero , e al  Ciclope 
L’adusto  palo  conficcar  nell'occhio  , 

Tosto  che  i sensi  gli  togliesse  il  sonno. 

Fortuna  i quattro , ch’io  bramava , appunto 
Doriommi,  e il  quinto  io  fui.  Cadea  la  sera , 

£ dai  campi  tornava  il  ber  pastore, 

Che  la  sua  greggia  di  lucenti  lane 

Tutta  introdusse  nel  capace  speco  : 45o 

O di  noi  sospettasse  , o prescrivesse 

Così  il  Saturnio.  Nuovamente  imposto 

Quel , che  rimosso  avea , disconcio  masso , 

Pecore  e capre  alla  tremula  voce 

Mungea  sedendo , a maraviglia  il  tutto , 

£ a questa  mettea  sotto  , e a quella  i parti. 
Fornita  ogni  opra,  m’abbrancò  di  nuovo 
Due  de’  compagni , e cenò  d’essi  il  mostra. 
Allora  io  trassi  avanti , e,  in  man  tenendo 
D’edra  una  coppa  , Te’,  Ciclope , io  dissi  : 440 
Poiché  cibasti  umana  carne,  vino 
Devi  ora,  c impara , qual  su  Tonde  salse 


bevanda  carreggiava  il  nostro  legno. 

Questa  , con  cui  libar,  recarti  io  volli , 

Se  mai , compunto  di  nuova  pleiade  , 

Mi  rimandassi  alle  paterne  case. 

Ma  il  tuo  furor  passa  ogni  segno.  Iniquo  I 
Chi  più  tra  gTinfiniti  uomini  in  terra 
Fia  che  s’accosti  a te  ? Male  adoprasti. 

La  copfta  ei  tolse,  e bebbe,  ed  un  supremo  4S0 
Del  soave  iicor  prese  diletto  , 

E un  altra  volta  men  chiedea  s Straniero  , 
Darmene  ancor  ti  piaccia  , e mi  palesa 
Subito  il  nome  tuo,  perch’io  ti  porga 
L’ospilal  dono,  che  ti  metta  in  festa. 

Vino  ai  Ciclopi  la  feconda  terra 
Produce  col  lavor  di  tempestiva 
Pioggia,  onde  Giove  le  nostre  uve  ingrossa: 
Ma  questo  è ambrosia  e nettare  celeste. 

Un’altra  volta  io  gli  stendea  la  coppa.  460 
Tre  volte  io  la  gli  stesi  ; ed  ei  ne  vide 
Nella  stoltezza  sua  tre  volte  il  fondo. 

Quando  m’accorsi  che  saliti  al  capo 
Del  possente  licor  gli  erano  i fumi  , 

Voci  blande  io  drizzavagli  : Il  mio  nome, 
Ciclope,  vuoi  ? L’avrai  : ma  non  frodarmi 
Tu  del  promesso  a me  dono  ospitale. 

Nessuno  è il  nome  : me  la  madre  e il  padre 
Chìaman  Nessuno , e tutti  gli  altri  amici. 

Èd  ei  con  fiero  cor  : L’ultimo  , ch’io  470 
Divorerò  , sarà  Nessuno.  Questo 
Riceverai  da  me  dono  ospitale. 

Disse,  e diè  indietro  , e rovescion  cascò. 
Giacca  nell’antro  con  la  gran  cervice 
Ripiegata  su  l’omero  ; e dal  sonno  , 

Che  tutti  doma  -,  vinto  , e dalla  molta 
Crapula  oppresso , per  la  gola  fuori 
Il  negro  vino  , e della  carne  i pezzi , 

Con  sonanti  mandava  orrendi  rutti. 
Immantinente  dclTulivo  il  palo  4Si» 

Tra  la  cenere  io  spinsi  j e in  questo  gli  altri 
Rincorava , non  forse  alcun  per  tema 
M’abbandonasse  nel  miglior  dell’opra. 

Come , verde  quantunque  , a prender  fiamma 
Vicin  mi  parve,  rosseggiante  il  trassi 
Dalle  ceneri  ardenti , e al  mostro  andai 
Con  intorno  i compagni  : un  Dio  per  fermo 
D’insolito  ardimento  il  cor  mi  armava. 

Quelli  afferrar  l’acuto  palo , e in  mezzo 
Dell’occhio  il  conficcaro  ; ed  io  di  sopra  , 49<^ 
Levandomi  su  i piè , movealo  in  giro. 

E come  ailor  che  tavola  di  nave 
Il  trapano  appuntato  investe  e fora  , 

Che  altri  il  regge  con  mano , altri  tirando 
Va  d’ambo  ì lati  le  corregge,  e attorno 
L’instancabile  trapano  sì  volve: 

Sì  nell’ampia  lucerna  il  trave  acceso 
Noi  giravamo.  Scaturiva  il  sangue, 

La  pupilla  bruciava,  ed  un  focoso 
Vapor , che  tutta  la  palpebra  e il  ciglio  5oo 
Struggeva  , uscia  della  pupilla , e l’irne 
Crepitarne  io  seiitia  rotte  radici. 

Qual  se  fabbro  talor  nell’onda  fredda 
Attufiò  un'ascia  o una  stridente  scure, 

E temprò  il  ferro  , e gli  diè  forza  ; tale 
L’occhio  intorno  al  troncoji  cigola  e frigge. 

Urlo  il  Ciclope  sì  tremendo  mise, 

£ tanto  l’antro  rimbombò  , che  noi 


49 


I.  1 B R O 

Qua  e là  ci  spargemmo  impauriti.  ! 

Ki  fuor  cavos&i  aell^>cchiaJa  il  trave,  5io  | 
K da  se  lo  scagliò  di  sangue  lordo,  ' 

Furiando  per  doglia:  indi  i Ciclopi, 

Che  non  lontani  le  ventose  cime 
Abitavan  de’  monti  in  cave  grotte, 

Con  voce  alia  chiamava.  £d  i Ciclopi 
Quinci  e quindi  accorrean,  la  voce  udita, 

K,  snfTermando  alla  spelonca  il  passo  , 

Bella  cagione  il  richiedean  del  auolo. 

Fer  quale  oilhsa.,  o Polifeino,  tanto 
Gridastu  mai  ? Perche  così  ci  turbi  620 

La  balsamica  notte  e i dolci  sonni? 

Furati  alcun  la  greggia?  o uccider  forse 
Con  inganno  ti  vuole,  o a forza  aperta? 

£ Puliiemo  dal  protondo  speco: 

Nessuno,  amici , uccidemì,  e ad  inganno, 

Non  già  con  la  virtude.  Orse  nessuno 
Ti  nuoce  , rispondeano , e solo  alberghi , 

Da  Giove  è il  morbo.e  non  v'ha  scampo.  Al  padre 
Puoi  bene , a Re  Neltun,  drizzare  1 prieghi. 
Bopo  ciò  , ritornar  su  ì lor  vestigi  : 55o 

£<l  a me  il  cor  ridea , che  sol  d’un  nome 
Tutta  si  fosse  la  mia  frode  ordita. 

Poliremo  da  duoli  aspri  crucciato. 
Sospirando  altamente  , e brancolando 
Con  le  mani , il  petroli  di  loco  tolse. 

Poi,  dove  l’antro  vaneggiava,  assiso 
Starasi  con  le  braccia  aperte  e stese, 

Se  alcun  di  noi , che  tra  le  agnelle  uscisse  , 
Giungesse  ad  aggrappar  : tanta  eì  credea 
Semplicitade  in  me.  Ma  io  gli  amici  .640 

£ me  studiava  riscattar,  correndo 
Per  molle  strade  con  la  mente  astuta  : 

Chè  la  vita  ne  andava  , e già  pendea 
Su  le  teste  il  disastro.  Al  hiie  in  questa  , 

Bopo  molto  girar  , iVaude  io  m’arresto. 
Mortoli)  di  gran  mole , e pingui  e belli , 

Bi  folta  carchi  porporina  lana, 

Rinchiiidea  la  caverna,  lo  tre  per  volta 
Prendeane  , e in  un  gli  unla  tacitamente 
Co’  vinchi  attorti,  sopra  cui  solca  55o 

Polifemo  dormir  : quel  ch’era  in  mezzo  , 
Portava  sotto  il  ventre  un  de’  compagni, 

Cui  fean  riparo  i due  ch’ivan  da  lato  , 

E così  un  uomo  conducean  tre  bruti. 

Indi  afferrai  pel  tergo  un  ariete 
Maggior  di  tutti , e della  greggia  il  fiore  j 
Mi  rivoltai  sotto  il  lanoso  ventre  , 

£,  le  mani  avvolgendo  entro  at  gran  velli, 

Con  fermo  cor  mi  v’attenea  sospeso. 

Così,  gemendo,  aspettavam  l’Aurora.  5Go 

Sorta  l’Aurora,  e tinto  in  roseo  il  cielo, 
Fuor  della  grotta  i maschi  alla  pastura 
Gittavansi  j e le  femmine  non  munte  , 

Che  gravi  molte  si  sentian  le  poppe , 

Riempian  di  belati  i lor  serragli. 

11  padron  , cui  ferìan  continue  duglie, 

B ogni  montone , che  dìritto  stava, 

Palpava  il  tergo  ; e non  s’avvide  il  folle 

Che  dalle  pance  del  velluto  gregge 

Pendean  gli  uomini  avvinti.  Ultimo  uscla  670 

Be’ suoi  velli  bellissimi  gravato 

L'ariete  , e di  me , cui  molte  cose 

S’aggiravaii  per  l’alma.  Polifemo 

Tai  detti , brancicandolo , gli  voUe  : 

ODISSEA 


N O N O. 

Aliete  dappoco,  e perchè  fuori 
C<i8Ì  da  sezzo  per  la  grotta  m’esci  ? 

Già  non  solevi  deU’agne Ile  addietro 
Restarti  : primo  , e dì  gran  lunga , i molli 
Fiori  del  prato  a lacerar  correvi 
Con  lunghi  |)assi  ; degli  argentei  fiumi  5Ba 
Infimo  giungevi  alle  correnti  ; primo 
Ritornavi  da  sera  al  tuo  presepe: 

£d  oggi  ultimo  sei.  Sospiri  forse 

L’oct  hio  del  tuo  signor?  Tocihio,  che  un  tristo 

Mortai  mi  svelse  co*  suoi  rei  compagni, 

Poiché  doma  col  vin  m’ebbe  la  inmte , 

Nessuno,  ch’io  mm  credo  in  salvo  ancora. 

Oh  ! se  a parte  venir  de’  miei  pensieri 
Potessi , e , voci  articuiando,  dirmi , 

Dove  dalla  mia  foiza  ei  si  ricovra,  Sqo 

Ti  giuro,  che  il  cervel  dalla  percossa 
Testa  schizzato  scorreria  per  l’antro, 

Kd  io  qualche  riposo  avrei  da’  Diali , 

Che  Nessuno  recummi,  un  uum  da  nulla. 

Dis>e}  edasè  lo  spingea  Inori  al  pasco. 

Tosto  che  dietioa  noi  l’infame  speco 
Lasciato  avemmo  , ed  il  cortile  ingiusto  , 

Tardo  a sciormi  io  mm  lui  daHaiiete  , 

E poi  gli  altri  a slegar,  che , ragmiate 
Molte  in  gran  fretta  picdilunghe  agnelle,  600 
Cacciavaiisde  avanti  in  sino  al  mare. 

Desiati  apparimmo,  c come  u:=cili 
Dalle  fauci  di  31orte,  a quei  che  in  guardia 
Hiniascr  della  nave  , e che  i compagni, 

Che  non  vedeaiio,  a lagrimar  si  diero. 

Ma  io  non  consenlialo  , e con  le  ciglia 
Cenno  lor  fea  dì  ritenere  il  pianto , 

E comandava  lor,  che  , messe  in  nave 
Le  molte  in  pria  vellosplcnderiti  agnelle, 

Si  lendessero  i flutti.  E già  il  naviglio  610 
SaUan  , sedean  su  i bancni , e percolendo 
Gian  cu’ remi  concordi  il  bianco  mare. 

Ma  come  fummo  uu  gridar  d’uom  luntaDÌ , 
Così  il  Ciclope  io  motteggiai  : Ciclope  , 

Color  che  nel  tuo  cavo  antro , le  grandi 
Forze  abusando  , divorasti , amici 
Non  eran  dunque  d’un  mortai  da  nulla  , 

E il  mal  te  pur  coglier  dovea.  Malvagio  \ 

Che  la  carne  cenar  nelle  tue  case 
j Non  temevi  degli  ospiti.  Vendetta  620 

Perù  Giove  ne  prese,  e gli  altri  Numi. 

A queste  voci  Polifemo  in  rabbia 
Montò  più  alta  , e con  istrana  possa 
Scagliò  d’iin  monto  la  divelta  cima  , 

Che  d’avanti  alla  prua  caddemi  : al  tonfo 
L’acqua  levossì , ed  innondò  la  nave, 

Che  alla  terra  crudel , dai  rifluenti 
Flutti  portata  , quasi  a romper  venne. 

Ma  io  , dato  di  piglio  a un  lungo  palo. 

Ne  la  staccai , puntando  ; ed  i compagni  63o 
D'incurvarsi  sul  remo , e in  salvo  addursi , 
Più  de 'cenni  pregai , che  della  voce  : 

E quelli  tutte  ad  inarcar  le  terga. 

Scorso  di  mar  due  volte  tanto  , ideiti 

Polifemo  io  rivolgea  di  nuovo  , 

Benché  gli  amici  con  parole  blande 
D’ambo  i lati  tenessermì  : Infelice  l 
Perchè  la  fera  irritar  vuoi  più  aucora  ? 

Così  poc''anzì  a saettar  si  mise , 

Che  tre  dita  manco , che  rUospìnto  C40 

7 


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5o  ODI 

Non  nercotesse  al  continente  il  legno. 

Fa  , che  gridare  o favellar  ci  senta  , 

E voleià  per  l’aere  un’altra  rupe, 

Che  le  nostre  cervelle , e in  un  la  nave 
Sfracellerà  : tanto  colui  dardeggia. 

L’alto  mio  cor  non  si  piegava.  Quindi , 
Ciclope  , io  dissi  con  lo  sdegno  in  petto  , 

Se  della  notte  , in  che  or  tu  giaci , alcuno 
Ti  chiederà  , gli  narrerai  che  Ulisse  , 

D’itaca  ubitaior  , figlio  a Laerte  , 63u 

Sruggitor  di  cittadi , il  dì  ti  tolse. 

Egli  allora  , ululando  , Oimò  ! rispose , 

Da’  prischi  vaticinj  eccomi  còlto. 

Indovino  era  qui , prode  uomo  e illustre  | 
Telemo,  figliuol  d’Eurimo,  che  area  , 
Dell’arte  il  pregio,  ed  ai  Ciclopi  in  mezzo 
Frofetaudu  invecchiava.  Ei  queste  cose 
2VTi  presagi  : mi  presagì  che  il  caro 
Lume  dell’occhio  spegneriami  Ulisse. 

8e  non  ch’io  sempre  uom  gigantesco  bello,  CGo 
E di  forze  invincibili  dotato  , 

Kimirar  m’aspettava:  ed  ecco  in  vece 
La  pupilla  smorzarmi  un  picculetto 
Greco  , ed  imbelle,  che  co)  vin  mi  vinse. 

Ma  qua  , su  via , vientene  Ulisse , ch’io 
Ti  purga  l’ospiial  dono,  e Nettuno 
Di  fortunare  il  tuo  ritorno  prieghi. 

Io  di  lui  nacqui , ed  eì  sen  vanta  , e solo  , 
Voglia! , mi  sanerà  , non  altri , io  credo , 

Tra  imortalinel mondo, oinciel tra  iNuoii  670 
Oh  ! così  potess’io  , ratto  ripresi, 

Te  spogliar  della  vita  , e negli  oscuri 
Precipitar  regni  di  Fiuto,  come 
Nè  da  Nettuno  ti  verrà  salute. 

Ed  ei , le  palme  alla  stellata  volta 
Levando  , il  supplicava  : O chiomazzurro, 

(/he  la  terra  circondi , odi  un  mio  voto. 

Se  tuo  pur  son  , se  |>adre  mio  ti  diiami , 

Di  tanto  mi  contenta  : in  patria  Ulisse, 
D’itaca  abitator,  figlio  a Laerte,  68< 

Struggitor  di  cìitadi , unqua  non  rieda. 

E dove  il  natio  suolo , e le  paterne 


S S £ A 

Case  il  destili  non  gli  negasse , almeno 
Vi  giunga  tardi  e a stento,  e in  nave  altrui  , 
Perduti  in  pria  tutti  i compagni } e nuove 
Nell’avita  magìon  trovi  sciagure. 

Fatti  le  preci , e da  Nettuno  accolte  , 

Sollevò  un  masso  di  più  vasta  mole, 

K , rotandol  nell’aria  , e una  più  grande 
Forza  immensa  imprimendovi , Iduciollo.  690 
Cadde  dopo  la  poppa  , e del  timone 
La  punta  rasentò  : levossi  al  tonfo 
L’onda  , e il  legno  coprì , che  all’isolctta  , 
Spinto  dal  mar,  subitamente  giunse. 

Quivi  eran  l’altre  navi  in  su  l’arena , 

£ i compagni , che  assisi  ad  esse  intorno 
Ci  attendean  sempre  con  agli  occhi  il  pianto. 
Noi  tosto  in  secco  la  veloce  nave 
Tirammo  , e fuor  n’uscimmo  , e,  del  Ciclope 
' Trattone  il  gregge,  il  dividemmo  in  guisa,  700 
Che  parte  ugual  n’rbbe  ciascuno.  H vero 
Che  voUer  che  a me  sul , partite  i'agne , 

Il  superbo  ariete  anco  toccasse, 
lo  di  mia  mano  al  Saturnide.  al  cìnto 
D’oscure  nubi  Corrertor  del  Mondo , 
f/’uccisi  e n’arsi  le  fiorite  cosce. 

Ma  non  curava  i sacrifizi  Giove  , 

Che  anzi  tra  $è  voigea , com’io  le  navi 
Tutte,  e tutti  1 compagni  al  fin  perdessi. 
L’intero  dì  sino  al  calar  de)  Sole  710 

Sedevam  banchettando  : U Sole  ascoso, 

£d  apparse  le  tenebre  , le  membra 
Sul  marin  lido  a riposar  g^^ttammo. 

Ma  come  del  mattiu  la  figlia , l’Alba 
Ditirosate  in  Oriente  sorse  , 

1 compagni  esortai , comandai  loro 
Di  rimbarcarsi  , e liberar  le  funi. 

R quei  si  rimbarcavano  , e su  i banchi 
Sedean  l’un  dopo  l’altro,  e percotendo 
Gian  co’  remi  concordi  il  bianco  mare.  720 
Così  noi  lieti  per  lo  scampo  nostro  , 

K (>er  l’altrui  sventura  in  un  dolenti , 

Del  mar  di  nuovo  solca  vani  le  spume. 


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LIBRO  DECIMO 


ARGOMENTO 

UlÌMf  giunge  aU'isola  Eolia.  Eolo  gli  Ci  il  dono  J'un  otre,  io  cui  tutti  i venti)  non  comprcfovì  refim  , 
rinchiusi.  I com^goi  sciolgono  rutre;  e i venti  ne  sruppanO)  e riportano  Utiaie  ad  £oIu  ^ che  il  disracria  da 
sè.  Passa  alla  citta  dr’f>Mtrigoni , po|v»Io  anclic  questo  autropnfago,  e perde  la  più  parte  de'compagni  e le  navi» 
eccetto  una)  con  la  quale  arriva  alì'isula  di  Circe.  Costei  gli  trasfurma  in  porci  la  metà  de'compagni,  salvo  uno, 
che  viene  a darne  la  nuos'a.  Ulisse  con  Tcrha  Moli,  che  Mercurio  gli  diede,  scioglie  l'incanto.  Stato  un  anno 
roD  Circe  questa  il  consiglia  d'ire  allacasa  di  Ptulone  ^ ed  et  s apparecchia,  perduto  uno  de*  cumpagai,  ad  ubbidirla. 


CjTiUNCEMMo  nplPEolta  , ove  il  diletto 
Agl’imniortali  Dei  d’ipputa  figlio, 

£olo  , abitava  in  isola  natante  , 

Cui  tutta  un  muro  d’intiangibtl  rame^ 

C una  liscia  circonda  eccelsa  rupe. 

Dodici , sei  d’un  sesso  e sei  dell’altro. 

Gli  nacquer  figli  in  casa  ; ed  ei  congiunse 
Per  nodo  maritai  suore  e fratelli , 

Che  avean  degli  anni  il  più  bel  fior  .sul  volto. 
Costoro  ciascun  d'i  siedon  tra  il  padre  io 

Caro  , e l’augusta  madre  , ad  una  mensa 
J)ì  varie  carca  diiiratr  dapi. 

Tutto  il  palagio  , finché  il  giorno  splende , 
^pira  fragranze,  e d’armonie  risuona. 

Poi , caduta  su  l’isola  la  notte  , 

Chiudono  al  sonno  le  bramose  ciglia 
In  traforati  e attappezzati  letti 
Con  le  donne  pudiche  i fidi  sposi. 

Questo  il  paese  fu  , questo  il  superbo 
Tetto , in  CUI  me  per  un  intero  mese  ao 

Co’  modi  più  gentili  Eolo  trattava. 

Di  molte  cose  mi  chiedea  : di  Troja, 

Del  navile  de’  Greci , e del  ritorno  j 
E il  tutto  io  gli  narrai  di  punto  in  punto. 

Ma  come,  giunta  del  partir  mio  l’ora,  . 
Parole  io  mossi  ad  impetrar  licenza  , 

Ei  , non  che  dissentir  , del  mio  viaggio 
Pensicr  sì  tolse  e cura  , e della  pelle 
DI  bue  novenne  presentommi  uu  otre  , 

Che  imprigionava  i tempesto.si  venti  : 3o 

Poiché  de’  venti  dispensier  supremo 
Fu  da  Giove  nomato;  ed  a sua  voglia 
Stringer  lor  puote,  o rallentare  il  freno. 
D’otre  nel  fondo  del  naviglio  avvinse 
Con  funicella  lucida  d’argento  , 

Che  non  ne  uscisse  la  più  picrioi’aura  ; 

£ sol  tenne  di  fuori  un  opportuno 
Zefiro , cut  le  navi  e i naviganti 
Diede  a spìnger  su  l’onda.  Eccelso  dono, 

Che  la  nostra  follia  volse  in  disastro  ! /«o 

Nove  dì  senza  posa  , e tante  notti 
Veleggiavamo;  e gi.i  veniaci  incontro 
Nel  decimo  la  patria  , e ornai  vicini 
Quei  vedevamciv;  racccndeano  i fochi; 

Quando  me  stanco,  perch’io  regger  volli 
Della  nave  il  timon  , nè  in  mano  altrui , 

Onde  il  corso  affrettar  , lasciarlo  mai , 

Sorprese  il  sonno.  I miei  compagni  intanto 
Favellavan  tra  loro  , e fean  pensiero  , 

Che  argento  , ed  oro  alle  mie  ca.se  , doni  5o 
Del  generoso  Ippotade,  io  recassi. 

Numi  ! come  di  sè,  dicea  taluno 
Rivolto  al  suo  virin  , tutti  innamora 
Cistiti,  dovunque  navigando  arriva  t 


Molti  da  Troja  dispogliata  arredi 
Riporta  belli  e preziosi  ; e noi , 

Che  le  vie  stesse  misurammo , a casa 
'Porniam  con  le  man  vote.  In  oltre  questi 
r.Tpputade  gli  diè  pegni  d'amore. 
Orsù.veggiam  quanto  m suo  grembo  asconda  Go 
D'oro  e d’argento  la  bovina  pelle. 

Cosi  prevalse  il  mal  consiglio.  L’otre 
Fu  preso  e sciolto  ; e immantinente  tutti 
Con  furia  ne  scoppiar  gli  agili  venti. 

La  subitanea  orribile  procella 
I.i  rapia  dalla  patria , e li  portava 
.'sospirosi  nell’alto.  Io  , cui  l’infansto 
.*>onno  si  ruppe  , rivolgea  nell’alma. 

Se  di  poppa  (lovessi  in  mar  lanciarmi , 

O soffrir  muto  , e rimaner  tra  i vivi.  70 

Soffrii , rimasi  : ma  , coverto  il  rapo  , 

('iù  nel  fondo  io  giacea  , mentre  le  nari , 

I Che  i compagni  di  lutto  empieano  indarno, 
Ricacciava  in  Eolia  il  fiero  turbo. 

Scendemmo  a terra  , acqua  attignemmo,  <*  a 
Presso  le  navi  ci  adagiammo.  Estinta  (incuba 
Del  cibarsi  e de]  ber  i’innata  voglia  , 
lo  con  un  de*  compagni  e con  l’araldo 
'Vl’ìnviai  d’Eoto  alla  magion  superba  ^ 

K tra  la  dolce  sposa  e i figli  cari  80 

Banchettante  il  trovai.  Sul  limitar* 

Sedevam  della  porta.  Alto  stupore 
Mostrare  i figli , e con  parole  alate  , 

Ulisse , mi  dicean  , come  ventsMi  ? 

Qual  Cassali  demone  avverso  ? Certo 
Cosa  non  fu  da  noi  lasciata  indietro, 

Perchè  alia  patria  e al  tuo  palagio , e ovunque 
Ti  talentasse  più  , salvo  giungessi. 

ICd  io  con  petto  d’amarezza  colmo: 

T'risti  compagni,  e un  sonno  infausto  a tale  qo 
Condotto  m’iianno.  Or  voi  sanate,  amici  p 
Che  il  potete  , tal  piaga.  In  questa  guisa 
Le  anime  loro  io  raddolcir  tentai. 

Quelli  ammutirò.  Ma  il  crucciato  padre > 

Via  , rispose , da  questa  isola  , e tosto  , 

O degli  uomini  tutti  il  più  malvagio  : 

Cbè  a me  nè  ancor  , nè  rimandar  con  doni 
Lìce  un  mortai  che  degli  F.terni  « in  ira. 

Via  , poiché  l’odio  lor  qua  ti  condusse. 

Cosi  Eolo  sbandia  me  dal  suo  tetto  , 100 

Che  de’ gemiti  mici  tutto  sonava. 

Mesti  di  nuovo  prendevam  dell'alto  j 
Ma  si  stancavan  di  lottar  con  l’onda  , 
Remigando , i compagni , e del  ritorna 
Moria  la  speme  ne’ dogliosi  petti. 

.Sei  di  navigavamo,  e notli  sei  ; 

E rol  settimo  Sol  della  sublime  % 

Città  di  Lamo  dalle  larghe  porte,. 


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52  ODI: 

Di  Lestrigonia,  pervenimmo  a visfa. 

Quivi  pastor,  che  a sera  entra  col  gregge,  i io 
Chiama  un  altro , che  fuor  con  l*armeuto  esce. 
Quivi  uomo  insonne  avria  doppia  mercede  , 
X.*una  pascendo  i buoi , l'altra  le  agoelie 
Dalla  candida  lana  : si  vicini 
isono  il  diurno  ed  il  notturno  pasco. 

Bello  ed  ampio  n’è  il  porto  j eccelsi  scogli 
Cerchiando  d’ogni  parte  , e tra  due  punte , 

Che  sporgon  fuori  e ad  incontrar  si  vanno  , 
is'apre  uidangusta  bocca.  1 miei  compagni , 

Che  nel  concavo  porto  a entrar  fur  pronti,  120 
Propinque  vi  tcnean  le  ondivaganti 
Knvi , e avvinte  tra  lor  ; quando  nè  grande 
Vi  s’alza  mai , nè  picciola  onda  , e sempre 
Una  calma  vi  appar  tacita  e bianca. 

10  sol  rimasi  col  naviglio  fuori , 

Che  al  sasso  estremo  con  ìnt/srta  fune 
Baccomandai:  poi , su  la  rupe  asceso. 

Quanto  si  discopria  , mirava  intorno. 

Davor  di  bue  non  si  srorg«*a  , nè  d’uomo  : 

Sul  di  terra  salir  vcdeasi  un  fumo.  i5o 

Scelgo  aliar  due  compagni , e con  l’araldo 
IVlandoli  a investigar  , quali  l’ignota 
Terra  produce  abitatori  e nutre. 

via  diritta  seguitar,  per  dove 
3 carri  ronduceaiio  alla  cittade 
Dagli  alti  monti  la  troncata  selva; 

D s’abbattero  a una  reai  fanciulla  , 

Del  Lestrigone  Antifate  alla  figlia  , 

Che  de)  fonte  d'Actacia  , onde  costuma 

11  cittadino  attignere  , in  quel  punto  140 
Alle  pure  scendca  linfe  d’argento. 

De  si  féro  da  presso  , e chi  del  loco 
He  fosse,  e su  qual  gente  avesse  impero , 

Da  dumendaro  ; ed  ella  pronta  l’alto 
Doro  additò  con  man  tetto  del  padre. 

Tocco  ne  avcano  il  limitare  appena  , 

Che  femmina  trovar  di  si  gran  mole, 

Cile  rassembrava  una  montagna  ; e no  gelo 
ISi  sentirò  d’orror  correr  pel  sangue. 

Costei  di  botto  Antifate  chiamava  i5o 

Dalia  pubblica  piazza  , il  rinomato 
jMarito  suo,  che  disegnò  lor  tosto 
Worte  barbara  e orrenda.  Uno  ail’erronne , 

Che  gli  fu  cena  ; gli  altri  due  con  fuga 
Precipitosa  giunsero  alle  navi. 

Di  grida  la  cittade  intanto  emplea 
‘Antifate.  1 Lestrigoni  Tudlro, 

B accorreaii  chi  da  un  lato  e chi  daU’altro  , 
Furti  di  braccio  , in  numero  infiniti , 

£ giganti  alla  vista.  Immense  pietre  l6i> 

Cosi  (lai  monti  a fulminar  si  diero, 

Che  d’uomini  spiranti , e ìniranti  legni 
Morse  nel  porlo  un  suoii  tetro  e confuso. 

£d  alcuni  infilzali  eran  con  l'aste, 

Quali  pesci  guizzanti , e alle  ferali 

iMense  future  riserbatt.  Mentre 

Tal  segala  strage  , io,  sguainato  il  brando  , 

£ la  fune  recisa  , a’  miei  compagni 
Dar  di  forza  nel  mar  co’  remi  ingiunsi , 

.Se  il  fuggir  morie  premca  loro  ; e quelli  170 
Di  tal  modo  arrancavano  , che  i gravi 

, Cile  piovean  d’alto,  il  mio  naviglio 
Lietamente  schivò  ; ma  gli  altri  tutti 
Colà  restaro  sf  racella  ti  e spersi. 


S E A 

Contenti  dello  scampo , e in  un  dogliosi 
Per  lì  troppi  compagni  in  sì  crudele 
Guisa  penti  , navigammo  avanti , 

E su  l’isola  Eéa  sorgemmo  , dove 

Circe,  Diva  terribile,  dal  crespo 

Crine  e dal  dolce  canto  , avi-a  soggiorno.  J 80 

Suora  germana  del  prudente  lieta, 

Dal  Sole  aggiornator  nacque  , e da  Persa 
Dell’antico  Oceàn  figliuola  illustre. 

Taciti  a terra  ci  accostammo  , entrammo. 

Non  senza  un  Dio  che  ci  guidasse , il  cavo 
Porto , e sul  lido  uscimmo  ; e qui  due  giurai 
Giacevamo , e due  notti , il  cor  del  pan 
La  stanchezza  rodendoci  e la  doglia. 

Come  recato  ebbe  il  dì  terzo  l’Alba  , 

Io , presa  l’asta  ed  il  pungente  brando  , 1 90 

Rapidamente  andai  sovra  un’altezza , 

Se  d’uomo  io  vedessi  opra , o voce  udissi. 
Fermato  il  piè  su  la  scoscesa  cima  , 

Scòrsi  un  fumo  salir  d’infra  una  selva 
Di  querce  annose  , che  in  un  vasto  piano 
Di  Circe  alia  magìon  sorgeano  intorno. 

Entrar  disposi  senza  indugio  in  via, 

E il  paese  cercar  : poi  , ripensando  , 

Al  legno  in  vece  rivoltare  i passi , 

Cibo  dare  ai  compagni , e alcuni  prima  :zoo 
A esplorare  inviar,  mi  parve  il  meglio. 

Già  tra  la  nave  e me  poco  restava: 

Quando  ad  un  de*  Celesti,  in  cui  pietade 
Per  quella  solitudine  io  desiai , 

Grosso  ed  armato  di  ramose  corna 
Drizzare  alla  mia  volta  un  cervo  piacque  , 
Spinto  dal  Sole  , che  il  cuocea  co’  raggi , 

De’  paschi  uscia  della  foresta  , e a)  liume 
Soendea  con  labbra  sitibonde;  ed  io 
Su  la  spina  lo  colsi  a mezzo  il  tergo  aio 

Sì , che  tutto  il  passò  l'asta  di  rame. 

Nella  polve  cade  , mandando  un  grido  , 

E via  ne  volò  l’alma.  Accorsi , e , il  piede 
Pontando  in  esso,  dalla  lomla  piaga 
Trassi  il  cerro  sanguigno,  ed  il  sanguigno 
Cerro  deposi  a terra  : indi  virgulti 
Divelsi  e giunchi , attorcigliaili , fune 
Sei  spanne  lunga  ne  composi , e i morti 
l’iedi  ne  strinsi  dell’enorme  fera. 

Al  fin  sul  collo  io  la  mi  tolsi  , c mossi  , 220 

Su  la  lancia  poggiandomi , al  naviglio  : 

Che  mal  potuto  avrei  sovra  una  sola 
Spalla  portar  così  sformata  belva. 

Presso  la  nave  scaricaila  ; e ratto 
Con  soavi  parole  i miei  compagni, 

A questo  rivolgendomi  ed  a quello  , 

Cosi  tentai  rianimare:  Amici, 

Prima  del  nostro  di  d’Aidealle  porte 
Non  calerem  , benché  ci  opprima  il  duolo. 

Su  , hnehè  cibo  avemo  , avem  licore  , a5o 
Non  mettiamii  in  obbllo  ; nò  airimpurtuna 
Fame  lasciainci  consumar  di  dentro. 

Quelli , ubbidendo  alle  mie  voci,  uscirò 
Delie  latebre  loro,  e,  in  riva  al  mare, 

Che  frumento  non  genera,  venuti , 

.Stupian  del  cervo  : sì  gran  corpo  egli  era  1 
E come  sazj  del  mirarlo  furo  , 

Ne  apparecchiaro  non  vulgar  convito  , 

Sparse  prima  di  chiara  onda  le  palme. 

Così  tutto  quel  di  sino  aH’Ok  caso  241* 


55 


I.  I B K O DECIMO. 


D*>  rame  opima  e ili  fumoso  yìho 
L'alma  ricoiilurlanimo  : il  Sol  CHduto, 

E comparse  le  tenebre  , nei  sonno 
Ci  seppellimmo  al  mormorio  dell'onde. 

Ma  , sorta  del  roattm  la  rosea  hglia  ^ 

Tutti  io  raccolsi  a parlamento , e dissi  : 
Compagni , ad  onta  di  guai  tanti,  udite. 

Qui , d’onde  TAustro  spira  , o l’Aquilone  , 

E in  qual  parte  il  Sole  alza , in  qual  decliina, 
Uoto  non  è.  Pur  consultare  or  vuoisi , a5o 
Qual  consiglio  da  noi  prender  si  debba  , 

Se  v’ha  un  consiglio  : di  che  forte  io  temo. 

Io  d’in  su  alpestre  poggio' i.sula  vidi 
Cinta  da  molto  mar,  che  bassa  giace , 

E nel  cui  mezzo  mi  nereggiante  lumu 
D'ìnfra  un  bosco  di  querce  al  eie!  si  volve. 

Rompere  a questo  sì  sentirò  il  core , 
D’Antilate  menibrando  , e del  Ciclope 
La  ferocia  , i misiatti , e le  nefande 
Della  carne  dell’uom  mense  imbandite. 

Strida  metteano,  e discioglieansi  in  pianto. 
Ma  del  pianto  che  prò  ? che  delle  strida  ? 
Tutti  in  due  schiere  uguali  io  li  divisi, 

E diedi  ad  ambo  un  duce:  all’una  il  saggio 
Euriioeo , e me  all’altra.  Indi  nel  cavo 
Rame  (lellVImo  agiiavam  le  sorti , 

Ed  Euriloco  uscì , che  in  via  si  pose 
Senza  dimora.  Veiitidue  compagni 
Lagrimando  , il  seguìan  \ nè  all'atto  asciutte 
Di  noi , che  rimanemmo  , eran  le  guance.  270 

Edificata  con  lucenti  pietre 
Di  Circe  ad  essi  la  magion  s’offerse  , 

Che  vagheggiava  una  feconda  valle. 

Montani  lupi , e leon  falbi , ch’ella 
Mansuefatti  avea  con  sue  bevande. 

Stavano  a guardia  del  palagio  eccelso, 

!Nè  lor  già  s’avventavano;  ina  in  vece 
l/usingandu  sco'can  le  lunghe  code  , 

E su  banche  s’ergeann.  E quale  i cani 
Blandiscono  il  signor,  che  dalla  mensa  280 
Si  leva,  e ghiotti  bocconcelii  ha  in  mano; 

Tal  quelle  di  forte  unghia  orride  belve 
(y!i  ospiti  nuovi , che  smarriti  al  primo 
Vederle  s’arrctraro,  Ivan  blandendo. 

•Giunti  alle  porte,  la  DeesAa  udirò 
Dai  ben  torti  capei , Circe , che  dentro 
Canterellava  con  leggiadra  voce  , 

Ed  un’ampia  tessea  , lucida,  lina, 
Maravigliosa , immortai  tela  , e quale 
Della  man  delle  Dive  uscir  può  solo.  290 
Polite  allor,  d’uomini  capo  , e molto 
Più  caro  e in  pregio  a me  , che  gli  altri  tutti , 
Sciogliea  tai  detti  : Amici  in  queste  mura 
Soggiorna  , io  non  so  ben  , se  donna  o Diva, 
Che  j tele  oprando  , del  suo  dolce  canto 
Tutta  fa  risentir  la  casa  intorno. 

'''^oce  mandiamo  a lei.  Disse , e a lei  voce 
Mandato  ; e Circe  di  là  tosto  , ov’era  , 

Levossi , e aprì  le  luminose  porte  , 

E ad  entrare  invitavali.  In  un  groppo  3oo 
La  seguian  tutti  incautamente,  salvo 
Euriloco,  che  fuor,  di  qualche  inganno 
Sospettando  , resto.  La  Dea  li  pose 
Sovra  splendidi  seggi  ; e lor  nif'.s<-ea 
Il  Pramnio  vino  con  rappreso  latte  , 

Rianca  farina  e me!  recente  ; e un  succo 


Giungeavi  esizìal  , perchè  con  questo 
Della  Patria  l’obblio  ciascun  bevesse. 

Preso  e votato  da^  meschini  il  nappo  , 

Circe  batteali  d’una  verga  , e in  vile  5io 
Stalla  chiudeali  : avean  di  ;>orco  testa  , 

Corpo  , setole , voce  ; ma  lo  spirto 
Serbavan  dentro  , qua!  da  pnina  , intégro. 

Così  rinchiusi , sospirando  , furo  : 

Ed  ella  innanzi  a lor  del  cornio  i frutti 
Gettava,  e della  rovere  e dellelce, 

De’  verri  accovacciati  usato  cibo. 

Nunzio  verace  dell’infausto  caso 
Venne  rapido  Euriloco  alla  nave. . 

Ma  non  potea  per  iterati  sforzi  3ao 

Jja  lìngua  disnodar  : gonfì  portava 
Di  pianto  i lumi , e un  violento  duolo 
L'alma  gli  percotea.  Noi,  figurando 
Sventure  nel  pensier,  con  maraviglia 
1/ interrogammo.:  ed  ei  l’eccidio  al  fine 
De’ compagni  nariò:  Nubile  Ulisse, 
Attraversato  delle  querce  il  bosco  , 

Come  tu  comandavi , eccoci  a fronte 
Magion  construtta  di  politi  marmi. 

Che  di  mezzo  a una  valle  alto  s’ergea.  35o 
Tessea  di  dentro  una  gran  tela , e canto , 
Donna  o Dive  chi  ’l  sa  ? stridulo  alzava. 

Voce  mandato  a lei.  Levossi , e aperse 
Le  porte , e ne  invitò.  Tutti  ad  un  corjio 
Nella  magion  di.'avvedutamcnte 
Scguianlii  : io  no  , che  sospettai  di  frode. 
Svanirò  insieme  tutti  ; « per  i.starmi 

I. uugo  ch’io  feci , ad  esplorare  assiso  , 

Traccia  d’alcun  di  lor  più  non  m’appnrve. 

Disse  ; ed  io  grande  alle  mie  spalle,  e acuta 
S|)ada  d’argento  bullettata  appe:»i , ( 340 

Appesi  un  valid’arco , e ingiunsi  a lui , 

(.'he  innanzi  per  la  via  stessa  mi  gisse. 

Ma  Euriloco  , i ginocchi  ad  ambe  mani 
Stringendomi,  e piangendo,  Ahi  mal  imo  grado, 
(!on  supplici  gridò  parole  alate  , 

Là  non  guidarmi , o del  gran  Criove  ahinim , 
Donde  , non  che  altri  ricoiidur,  tu  stesso 
Ritornar  non  potrai.  Fuggiam:  fuggiamo 
Senza  indugio  con  questi , e la  vicina  35o 
l’arca  schiviam,  finché  schivarla  è dato. 

Euriloco  , io  risposi , e tu  rimanti , 

Di  carne  e vino  a riempirti  il  ventre  , 

Lungo  la  nave.  Io  , cui  severa  stringe 
Necessitate,  andrò.  Ciò  detto  , a tergo 

J. ,a  nave  negra  io  mi  lasciava , e il  mare . 

Già  per  le  sacre  solitarie  valli 
Delia  Maga  possente  alTalta  casa 
Presso  io  mi  fea  , quando  Mercurio,  il  Nome 
Cile  arma  deU’aureo  cadùcèo  la  destra,  5óo 
ili  forma  di  garzone,  e cui  fiorisce 
Di  lanuggine  molle  il  mento  appena  , 

Mi  venne  incontro,  e per  la  man  mi  prese , 

E,  misero!  diss’eicon  voce  amica. 

Perchè  ignaro  de'  lochi , c tutto  solo, 

Muovi  così  per  queste  balze  a caso? 

Sono  in  poter  di  Circe  i tuoi  compagni , 

K li  cliiudon  , quai  verri , anguste  stalle. 
Venìstu  forse  a riscattarli?  Uscito 
Dell’immagine  tua  penso  , che  a terra 
Tu  anror  cadrai.  Se  non  che  trarti  io  voglio 
Fuor  d’oggi  storpio,  e in  salvo  poj  ii.  l’r«  «idi 


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S S E A 


54  ODI 

Questo  mirabil  farmaco,  die  II  tristo 
Giorno  dal  capo  tuo  storni , e con  esso 
Trova  il  tetto  di  Circe  . i cui  perversi 
Consigli  tutti  io  t’aprirò*  Bevanda 
Mista , e di  succo  esiziale  Inlusa  , 

Colei  t’appresterà  : ma  le  sue  tazze 
Centra  il  tarmaco  mio  nulla  varranno. 

Più  oltre  intendi.  Come  te  la  Diva  38a 

Percosso  avrà  d'una  sua  lunga  verga, 

Tu  cava  il  brando,  che  ti  pende  al  Hanco, 

£ , di  ferirla  in  atto,  a lei  t’avventa. 

Circe,  compresa  da  timor,  sue  nozze 
T’oifrirà  pronta  : non  voler  tu  il  ietto 
Della  Dea  ricusare,  acciò  ti  sciolga 
Gli  amici , e amica  ti  si  reuda.  Solo 
Di  giurarti  costringila  col  grande 
D ^gi'iuimortali  Dei  giuro,  che  nulla 
Più  non  sarà  per  macchinarti  a danno:  390 

Onde,  poiché  t’avrà  Tarmi  spogliate, 

Del  cor  la  forza  non  ti  spogli  ancora. 

Finito  il  ragionar,  l’erba  salubre 
Porsemi  già  dal  suol  per  lui  divelta , 

£ la  natura  divisonne  : bruna 
N’è  la  radice  ; il  fior  bianco  di  latte  ; 

Moli  i Numi  la  chiamano  : resiste 
Alla  mano  mortai , che  vuol  dal  suolo 
Staccarla  ; ai  Dei , che  tutto  ponno , cede. 
Detto  , dalla  boscosa  isola  il  Nume  400 

Alle  pendici  dell’Olimpo  ascese  ; 

£d  io  vèr  Circe  andai;  ma  di  pensieri 
In  gran  tempesta  m'ondeggiava  il  core. 

Giunto  alla  Diva  dalle  belle  trecce  , 

La  voce  alzai  dalTatrio.  Udimmi , e ratta 
Levossì , e apri  le  luminose  porte, 

£ m’invitava;  io  la  segtiia  non  lieto. 

Sovra  un  distinto  d’argentini  chiovi 
Seggio  a grand’arre  fatto  , e vago  assai , 

Mi  pose:  lo  sgabello  i piè  reggea. 

Quindi  con  alma  , che  pensava  inali , 

La  mista  preparommi  in  aureo  nappo 
Bevanda  incantatrice  , ed  io  la  presi 
Dalla  sua  mano , e bebbi  ; e non  mi  nocque. 
Però  in  quel  che  la  Dea  me  della  lunga 
Verga  percosse  , e , Vanne  , disse  , e a terra 
Co’  tuoi  compagni  nella  stalla  giaci , 

Tirai  da)  fianco  il  brando  , e contra  lei, 

Di  trafiggerla  in  atto,  10  mi  scagliai. 

Circe  , mandando  una  gran  voce  . corse  410 
Hapida  sotto  Ì1  colpo  , e le  ginocchia 
Con  le  braccia  ati'errommi , e queste  alate 
Parole  mi  drizzò , non  senza  pianto  : 

Chi  sei  tu  ? donde  sei  ? la  patria  dove  ? 

Dove  i parenti  a te  ? Stupor  m’ingombra , 

Che  l’incanto  bevuto  in  le  non  possa  . 

Quando  io  non  ridi , cui  passasse  indarno 
Per  la  chiostra  de’ denti  il  mio  veleno. 

Certo  un'anima  invitta  in  petto  chiudi. 

Saresti!  forse  quel  sagace  Ulisse , 45  ) 

Che  Mercurio  a me  sempre  iva  dicendo 
Dover  d’ilto  venir  su  negra  nave  ? 

Per  fermo  sei.  Nella  vagina  il  brando 
Kiponi , e sali  il  letto  mio  : dui  cure 
D’entrambi  ogni  sospetto  amor  bandisca. 

Circe  , risposi , che  da  me  richiedi  ? 

Io  cortese  ver  te  , che  in  sozze  belve 
Mi  trasformasti  gli  uomini  ? Rivolj^i 


Tacite  frodi  entro  te  stessa  ; ed  io 

La  tua  penetrerò  stanza  segreta  , 440 

Onde  , poiché  m’avrai  i’armi  S{>ugliate  , 

Dei  cor  la  forza  tu  mi  spogli  ancora  ? 

No  , se  non  giuri  prima , e con  quel  grande 
Degl’immortali  Dei  giuro  , che  nulla 
l’iù  non  sarai  per  macchinarmi  a danno. 

Oissi  ; e la  Dea  giurò.  Di  Circe  allora 
Le  belle  io  salsi  maritali  piume. 

Quattro  serviano  a lei  n^l  suo  palagio 
Di  quelle  Ninfe  che  dai  buschi  nate 
60110  , o dai  fonti  liquidi , o dai  sacri  , 460 

(./he  devolvonsi  al  mar,  rapidi  fiumi, 
l.’una  gittava  su  i politi  seggi 
Bei  tappeti  di  porpora,  cui  sotto 
Bei  tappeti  mettea  di  bianco  lino  : 

J/altra  mense  d'argento  iiinauzi  ai  seggi 
6piegava  , e d’oro  v’impouea  canestri  : 

Mescea  la  terza  neli'argentee  brocche 
Soavissimi  vini , e d’auree  tazze 
Copria  le  mense  : ma  la  quarta  il  fresco 
Fonte  recava  , e raccendea  gran  fuoco  ^Oo 
Sotto  il  vasto  treppiò  , che  l’onda  cape. 

(ria  fervea  questa  nel  cavato  bronzo  , 

K me  la  Ninfa  guidò  ai  bagno  , e l’onda 
Pel  capo  mollemente  e per  le  spalle 
Spargermi  non  cessò  , ch’io  mi  sentii 
Di  vigor  nuovo  rifiorir  le  membra. 
i-«avato  ed  unto  di  licor  d’oliva  , 

K di  tunica  , e clamide  coverto  , 

Sovra  un  distinto  d’argentini  chiovi 

Seggio  a grand'arte  fatto  , e vago  assai , 470 

Mi  pose  : Jo  sgabello  i piè  reggea. 

£ un’altra  Ninfa  da  bel  vaso  u’uro 
Punssim’acqua  nel  bacii  d’argento 
Mi  versava  , e stendeaini  un  liscio  desco  , 

Che  di  candido  pane , c di  serbate 
D-ipi  a fornir  la  dispcnsirra  veuiie. 

Cibati , mi  dicea  la  veneranda 
Dispeiisiera,  ed  instava  ; ed  io  , d’ogul  esca 
Schivo  , in  altri  pensieri , e tutti  foschi  , 

Tenea  la  mente  , pur  sedendo  , inhssa.  480 
Circe  , ratto  che  avvidesi  ch’io  mesto 
Non  mi  curava  delia  mensa  punto  , 

Con  queste  m’appressò  voci  sul  ’abbro  : 

Perché  così , qual  chi  non  ha  favella  , 

Siedi , Ulisse  , struggendoti , e vivanda 
Non  tocchi  , nè  bevanda  ? In  te  sospetto 
S'annida  forse  di  novello  inganno  ? 

Dopo  il  mìo  giuramento  a torto  temi. 

Éd  io  : Circe , qual  mai  retto  uomo  e saggio 
Vivanda  toccheria  prima,  o bevanda,  491 
Che  i suoi  vedesse  riscattati  e salvi  ? 

Fa  che  lib'^ri  10  scorga  i miei  compagni , 

Se  vuoi  che  deila  mensa  io  mi  sovvegna. 

Circe  uscì  tosto  con  in  man  la  verga  , 

E della  stalla  gTinfelici  trasse  , 

Che  di  porci  novenni  avean  l’aspetto. 

Tutti  le  stavan  di  rincontro  ; e Circe, 

D'uno  all’altro  passando  , un  prezioso 
Sovra  lor  distendea  benigno  unguento. 

Gli  odiati  peli , che  la  tazza  infesta  5oo 

Produsse,  a terra  dalle  membra  loro 
Cadevano  ; e ciascun  più  , che  non  era  , 
(brande  apparve  di  corpo  , e as.^ai  più  fresco 
D ctade  in  faccia  , e di  bclu  più  adorno. 


Digitizea  oy  Citiuglt: 


55 


LIBRO  DECIMO. 


Mi  ravvisò  ciascuno  , ed  aflerrommi 
I>a  destra  ; e un  così  tenero  e sì  ione 
Compianto  si  levò  , che  la  magione 
Ne  risonava  orrendamente,  e punta 
Sentiasi  di  pietà  la  stessa  Maga. 

Ella,  standomi  al  fianco , O sovrumano 5 io 
Di  Laerte  figliuol , provvido  Ulisse  , 

Corri , diceami  alla  tua  nave,  e in  secco 
La  tira  , e cela  nelle  cave  grotte 
Le  ricchezze  e gli  arnesi  : indi  a me  torna , 

£ i diletti  compagni  adduci  teco. 

M’entrò  il  suo  dir  nell’alma.  Al  lido  iocorsi, 
£ i compagni  trovai , che  appo  la  nave 
Di  lagrime  nutriansi  e di  sospiri. 

Come  , se  riedon  le  satolle  vacche 
Dai  verdi  prati  al  rusticale  albergo  , Ò2o 

I vitelli  saltellano  , e alle  madri , 

Chè  più  serraglio  non  ritieni!  o chiostra  , 

Con  frequente  muggir  corrono  intorno  : 

Così  con  pianto  a me , vistomi  appena , 
Intorno  s’aggiravano  i compagni , 

£ quei  mostravan  sulla  faccia  segni , 

Che  vi  si  scorgerian  , se  il  dolce  nido  , 

Dove  nacquero  e crebbero , se  l’aspra 
Itaca  avesser  tocca.  O , lagrimando 
Dicean  , di  Giove  alunno  , una  tal  gioja  53o 
Sarebbe  a stento  in  noi  , se  ci  accogliesse 
D’itaca  il  porto.  Ma  , su  via  , l’acerbo 
Fato  degli  altri  raccontar  ti  piaccia. 

Ed  io  con  dolce  favellar  : La  nave 
Si  tiri  in  secco  , e nelle  cave  grotte 
Le  ricchezze  si  celino  e gli  arnesi. 

Poi  seguitemi  in  fretta  ; ed  i compagni 
Nel  tetto  sacro  dell’illustre  Circe 
Vedrete  assisi  ad  una  mensa,  in  cui 
Di  là  d’ogni  desìo  la  copia  regna.  5^o 

Pronti  obbedito.  Ripugnava  Euriloro 
Solo  , ed  or  questo  m’arrestava  , or  quello  , 
Gridando,  Sventurati  , ove  ne  andiamo  ? 

G'tal  mai  vi  punge  del  disastro  sete  , 

Che  discendiate  alla  Maliarda  , e vòlt! 

Siete  in  leoni  , in  lupi , o in  sozzi  verri  , 

II  suo  palagio  a custodir  dannati  ? 

L’ospizio  avrete  del  Ciclope  , quando 
Calato  i nostri  nella  grotta  , e questo 
Prode  Ulisse  guidavali , di  cui  55o 

Morte  ai  miseri  lu  lo  stolto  ardire. 

Così  Euriloi  o ; ed  io  la  lunga  spada 
Cavar  pensai  della  vagina  , e il  capo 
Dal  busto  ai  piè  sbalzargli  in  su  la  polve  , 
Benché  vincol  di  sangue  a me  Punisse. 

Ma  tutti  quinci  riteneanuii , e quindi 
Con  favella  gentil  ; Di  Giove  alunno  , 

Costui  sul  lido  ; se  ti  piace , in  guardia 
Della  nave  nmangasi  , e alla  sacra 
Magion  noi  guida.  Detto  ciò  , dal  mare  5Go 
Meco  veniali,  uè  restò  quegli  indietro  : 

Tanto  della  minaccia  ebbe  spavento. 

Cura  prendeasi  Circe  in  questo  mezzo 
Degli  altri  che  lavati , unti , e di  buone 
’J'iiniche  cinti  e di  bei  manti  fòro. 

Seduti  a mensa  li  trovammo.  Come 
Si  sguardarcrl’un  l’altro  , e sul  passato 
Con  la  mente  tornare  , in  pianti  e in  grida 
Davano;  e ne  gemean  pareti  e volte. 

M 'appressò  allora  , e mi  parlò  in  tal  guisa  5yo 


L’inclita  tra  le  Dive  : O di  I.aerte 
Gran  prole  , o ricco  di  consigli  Ulisse , 

Modo  al  dirotto  lagrimar  si  ponga. 

Noto  è a me  pur,  quanti  nel  mar  pescoso 
Duraste  ailànni , e so  le  crude  uOese , 

Che  vi  recare  in  terra  uomini  ostili. 

Su  via  , gioite  ornai , finché  nel  petto 
Vi  rinasca  l’ardir  , ch’era  in  voi , quando 
Itaca  alpestre  abbandonaste  in  prima. 

Bassi  or  gli  spirti  avete,  e freddo  il  sangue,  58o 
Per  la  memoria  de' viaggi  amari 
Nelle  menti  ancor  viva  , e l’allegrezza 
Disimparaste  tra  cotanti  guai. 

Agevolmente  ci  arrendemmo.  Quindi 
Pel  continuo  rotar  d’un  anno  intero 
Giorno  non  ispuntò  , che  a lauta  mensa 
Me*  non  vedesse  e i miei  compagni  in  festa. 

Ma  , rivolto  già  l’anno  , e le  stagioni 
Tornate  in  sé  col  variar  de’  mesi , 

Ed  il  cerchio  dei  dì  multi  compiuto,  5qo 
I compagni  , traendomì  in  disparte  , 

Infelice  ! mi  dissero  , del  caro 
Cielo  nativo  e delle  avite  mura 
Non  ti  rammenterai , se  vuole  il  fato 
Che  in  vita  tu  rimanga  , e la  rivegga  ? 

Sano  avviso  mi  parve.  Il  Sol  caduto  , 

E coverta  di  tenebre  la  terra , 

Quei  si  corcaru  per  le  stanze;  ed  io, 

Salito  il  letto  a maraviglia  belio 

Di  Circe  , siippliclievoli  drizzai  Coo 

Alla  Dea  , che  m’udì , queste  parole; 

Attirmmi , o Circe,  le  impromesse , e al  caro 
Rendimi  natio  ciel , cui  sempre  vola  , 

Non  pure  il  mio  , ma  de’  compagni  il  core, 

De’  compagni , che  stanno  a me  d'intorno , 
Sempre  che  tu  da  me  t’apparti , e tutta 
Con  le  lagrime  lor  mi  struggon  l’alma. 

O di  Laerte  sovrumana  prole, 

La  Dea  rispose,  ritenervi  a forza 
Io  più  oltre  non  vu’.  Ma  un’altra  via  fi  io 
Correre  in  prima  è d’uopo  ; è d’uopo  i foschi 
Di  Fiuto  e di  Pruserpina  soggiorni 
Vedere  in  prima  , e interrogar  lo  spirto 
Del  Teban  vate , che  , degli  occhi  cieco  , 

Puro  conserva  delia  mente  il  lume  ; 

Di  Tiresia  , cui  sol  diè  Proserpina 
Tutto  portar  tra  i morti  il  senno  antico. 

Gli  altri  non  son  che  vani  spettri  ed  ombre. 

Rompere  il  core  io  mi  sentii.  Piaguea, 

Su  le  piume  giacendomi,  nè  i raggi  6zo 

Volea  del  Sol  più  rimirare.  Al  fine  , 

Poiché  del  pianger  mio  , del  mio  voltarmi 
Su  le  piume  io  fui  sazio,  Or  qual , ripresi , 

Di  tal  viaggio  sarà  il  duce.  All’Orco 
Nessun  giunse  finur  su  negra  nave. 

Per  difetto  dì  guida  , ella  rispose  , 

Non  t’aniiujar.  L’albero  alzato  , e aperte 
Le  tue  candide  vele  , in  su  la  poppa 
T’assidi  , e spingerà  Borea  la  nave. 

Come  varcato  TÓceàno  avrai , C5o 

Ti  appariranno  i bassi  lidi,  e il  folto 
Di  pioppi  eccelsi  e d’infecondi  salci 
Bosco  di  Proserpina  : e a quella  piaggia 
Che  i’Oceàit  gorghiprofondo  batte  , 

Ferma  il  navìglio  , e i regni  entra  di  Pluto. 
Rupe  ivi  s’alza  , presso  cui  due  fiumi 


ODISSEA 


56 

S’urtan  tra  lor  romoreggiaiido , e miìtì 
Nell’Acheronte  cadono  : Cucito  , 

Kamo  di  Stige,  e Pirillegetonte. 

Appréssati  alla  rupe , ed  una  fossa  , 64>> 

Che  un  cubito  si  steuda  in  lungo  e in  largo  , 
Scava  y o prode  , tu  stesso  ; e niel  con  vino , 
Indi  vin  puro  e limpidissìm’onda 
Vèrsavi , a onor  de’  trapassati , intorno, 

£ di  bianche  Tarine  il  tutto  aspergi. 

Poi  degli  estinti  prega  i frali  e vóti 
Capi  y e prometti  lor  che  nel  tuo  tetto , 
Entrato  con  la  nave  in  porto  appena  y 
Vacca  infeconda , dell’armento  nore , 

Lor  sagrìficherai , di  doni  il  rogo  65u 

Riempiendo  ; e che  al  sol  Tiresia  , e a parte , 
Immolerai  nerissimo  at'iete  y 
Che  deila  greggia  tua  pasca  il  più  bello. 
Compiute  ai  Mani  le  preghiere,  uccidi 
Pecora  bruna , ed  un  nionton  » che  aU'Orco 
Volgan  la  fronte:  ma  converso  tieni 
Del  hume  alla  corrente  in  quella  Ìl  viso. 

Molte  ombre  accorreranno.  A’  tuoi  compagni 
Le  già  sgozzate  vìttime  e scojate 
Mettere  allor  sovra  la  bamma,  e ai  Numi,  6Go 
Al  prepotente  Pluto,  e alla  tremeuda  - 
Proserpina  drizzar  voti  comanda. 

E tu  col  brando  sguainato  siedi  y 
Nè  consentir , che  anzi , che  parli  al  vate , 

I Mani  al  sangue  accostinsi.  Repente 

II  profeta  verrà , Duce  di  genti . 

Che  sul  viaggio  tuo , sul  tuo  ritorno 
Pel  mar  pescoso  alle  natie  contrade 

Ti  darà  , quanto  basta  , indizio  e lume. 

Così  la  Diva  ; e d’in  su  l’aureo  trono  670 
L’Aurora  comparì.  Tunica  e manto 
Circe  stessa  vestimmi  ; a sè  ravvolse 
Bella , candida  y bua  ed  ampia  gonna  ; 

Si  strinse  al  banco  un’aurea  fascia,  e un  vago 
Su  i ben  torti  capei  velo  s’impose. 


Ma  io,  passando  d’una  in  altra  stanza  y 
Confortava  i compagni  , e ad  uno  ad  uno 
Con  molli  detti  gli  abbordava  : Tempo 
Non  è più  da  sdorare  i dolci  sonni. 

Partiamo  , e tosto.  Il  mi  consiglia  Circe.  680 

Si  levaro,  e obbedirò.  Ahi  che  nè  quinci 
Mi  si  concesse  ricondurli  tutti  l 
Un  Elpenure  v’era  , il  qual  d’etate 
Dopo  gli  altri  venia,  poco  nell’armi 
Forte  , nè  troppo  della  mente  accorto. 

Caldo  del  buon  licore  » onde  irrigossi, 

Si  divise  dagli  altri , ed  al  palagio 
Mi  si  corcò , per  rinfrescarsi , in  cima. 

Udito  il  suoli  della  partenza,  e il  moto. 
Riscossesi  ad  un  tratto  , e , per  la  lunga  690 
Scala  di  dietro  scendere  obbl'iando  , 

Mosse  di  punta  sovra  il  tetto  , e cadde 
Precipite  dall'alto:  il  collo  ai  nodi 
Cli  s’mfranse , e volò  l’anima  a Dite. 

Ragunatisi  i miei , Forse , io  lor  dissi , 

Alle  patrie  contrade  andar  credete. 

Ma  un  altro  pria  la  venerabil  Diva 
Ci  destinò  cammìn , che  ai  foschi  regni 
Di  Piuto  e di  Proserpina  conduce  , 

Per  quivi  interrogar  del  rinomato  700 

Teban  Tiresia  i'indovino  spirto. 

Buoi  mortale  gli  assalse  a questi  detti. 
Piangeauo,  e fermi  rimaneau  lì  lì  y 
£ la  chioma  stracciavansi  : ma  indarno 
Lo  strazio  della  chioma  era  , ed  il  pianto. 

Mentre  al  mar  tristi  tendevamo  , e spesse 
Lagrime  spargevam  , Circe  y che  in  via 
Pur  s’era  posta,  alla  veloce  nave 
Legò  la  bruna  pecora  e il  montóne. 

Ci  oltrepassò , che  non  ce  ne  avvedemmo,  710 
Con  piè  leggiero.  Chi  potria  de’  Numi 
Scorgere  alcun  che  qua  o là  si  mova  , 

Quando  dall’occhio  umau  vogliou  celarsi  ? 


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LIBRO  U N D E C I M 0 


argomento 

TJlute , caDtiotU5do  la  «ua  Bamaioae  ^ giuoge  ai  Cimtnerj  f e va  neU'Ioferno  Conpiute  1«  debile  ecrimonte, 
gli  ippariscooo  le  Ombre  de*  morti  ^ e (|uella  d'Elpeoure  è la  prima  eoo  cui  favella.  Poi  Tiresia  riofortna  de* 
venturi  suoi  casi  y e griosegoa  come  su|)erarli.  Ap|urùioo  della  madre  y dalla  quale  intende  lo  stato  della  propria 
famiglia.  Vengoo  poi  le  antiche  eroine  ^ e ap|krcssugli  eroi , tra  i quali  Agameooone  ^ Achille  ed  Aiace.  Finaimeola 
vede  Minosse,  Tiaio , Xaiitalu , Siulu  ed  Ercole:  0ocliè  , preso  da  tuuore,  rituroa  in  lìelU  alla  nave. 


Ctiunti  b1  divino  mare , il  negro  legno 
Prima  varammo  , albero  ergemmo  e vele, 

£ prendemmo  le  vittime , e nel  cavo 
Legno  le  introducemmo  : indi  coi  molto 
Terrore  e pianto  , v’entravam  noi  stessi. 

I..a  dal  crin  crespo  , e dal  canoro  labbro 
Dea  veneranda  un  gontiator  di  vela 
Vento  in  poppa  mandò  , che  fedelmente 
Ci  accompagnava  per  Pondosa  via  : 

Tal  che  oziosi  nella  ratta  nave  io 

Dalla  cerulea  prua  gìacean  gli  arnesi , 

JE  noi  tranquilli  setlevam  , la  cura 
Al  timonier  lasciandone , ed  al  vento. 

Quanto  il  dì  risplendè , con  vele  spase 
Navigavamo.  Spento  il  giorno , e d'ombra 
Bicoperte  le  vie  , dcll'Oceàno 
Toccò  la  nave  ì gelidi  conhni , 

Là  've  la  gente  de’  Cimmerj  alberga , 

Cui  nebbia  e bujo  sempiterno  invoive. 

Monti  pel  cielo  stelleggiato  , o scenda  , lo 
Lo  sfavillante  d’or  Sole  non  guarda 
Quegl'infelici  popoli , rhe  trista 
Circonda  ognor  periiiz'iosa  notte. 

Addotto  in  su  l’arena  iì  buon  naviglio, 

£ il  montone  e la  pecora  sbarcati , 

Alia  corrente  dell'Oceano  ìn  riva 
Camminavam,  fìnchò  venimmo  ai  lochi 
Che  la  Dea  c'insegnò.  Quivi  per  mano 
Kuriloco  teneano  e Perìmede 
Le  due  vi!  time  ^ ed  io , fuor  tratto  il  brando,  5o 
Scavai  la  fossa  cubitale  , e mele 
Con  vino , indi  vin  puro  e lucid’onda 
Versàivi , a onor  de’  trapassati , intorno, 

K di  bianche  farine  il  tutto  aspersi. 

Fui  degli  estinti  le  debili  teste 
Pregai , promisi  lor  che  nel  mìo  tetto  , 
Entrato  con  la  nave  in  porto  appena  , 

Vacca  infeconda,  dell'armento  bore , 

Lor  sagrìHcherei,  di  doni  il  rogo 
Kiempieado;  e che  al  sol  Tiresia,  e a parte,  40 
Immolerei  nerissimo  ariete , 

Che  della  greggia  mia  pasca  il  più  bello. 

Fatte  ai  Mani  le  preci , ambo  all'errai 
I/O  vittime  , e sgozzàìle  in  su  la  fossa  , 

Che  tutto  riceveane  il  sangue  oscuro. 

Ed  ecco  sorger  della  gente  morta 
Dal  più  cupo  dell'Èrebo  , e assembrarsi 
Le  pallid'Ombre  : giovanetto  spose, 

Garzoni  ignari  delle  nozze,  vecchj 
Da  nemica  fortuna  assai  vessati , 5o 

£ verginelle  tenere , che  impressi 
Portano  i cuori  di  recente  lutto  ; 

£ molti  dalle  acute  aste  guerrieri 
Nel  campo  un  dì  feriti , a cui  rosseggia 
Sul  petto  ancor  l’insanguinato  usbergo. 

ODISSEA. 


Accorrean  quinci  e quindi , e tanti  a tondo 
Aggiravan  la  fossa  , e con  tai  grida  , 

Ch’io  ne  gelai  per  subitana  tema. 

Pure  a Kuriloco  ingiunsi , e a Perìmede 
Le  già  scannate  vittime  e scojate  60 

Por  su  la  bamma  y e multi  ai  Dei  far  voti , 

Al  prepotente  Fiuto,  e alla  tremenda 
Pruserpina  : ma  io  col  brando  ignudo 
Sedea  , nè  consenlla  che  al  vivo  sangue , 

Pria  ch’io  Tiresia  interrogato  avessi , 
S’accustasser  deil'Ombre  i vóti  capi. 

Primo  ad  ofirirsi  a me  fu  il  simulacro 
D’filpennre,  di  cut  non  rìnchiudea 
La  terra  il  corpo  nei  suo  grembo  ancora. 
Lasciato  in  casa  l’avevam  di  Circe  70 

Non  sepolto  cadavere  e non  pianto  : 

Chè  incalzavaci  allor  diversa  cura. 

Piansi  a vederlo , e ne  sentii  pietade , 

E , con  alate  voci  a lui  converso , 

Elpenore  , dìss’io  , come  scendesti 

Nell’oscura  caligine?  Venisti 

Più  ratto  a piè  , ch’io  su  la  negra  nave. 

Ed  ei , piangendo  : O di  Laerte  egregit^ 
Prole,  sagace  Ulisse  , un  nequitoso 
Demone  avverso  , e il  molto  vin  m’olFese.  80 
Stretto  dal  sonno  alla  magione  in  cima , 

Men  disciolsi  ad  un  tratto  { e , per  la  lunga 
Di  calar  non  membrando  interna  scala  , 

Mossi  di  punta  sovra  il  tetto  , e d'alto 
Precipitai  : della  cervice  i nodi 
Ruppersi , ed  io  volai  qua  con  lo  spirto. 

Ora  IO  per  quelli , da  cui  lunge  vivi , 

Por  la  consorte  tua  , pel  vecchio  padre  , 

Che  a tanta  cura  t'allevò  bambino  , 

Pel  giovane  Telemaco  , che  dolce  9-' 

Nella  casa  lasciasti  unico  germe  , 

Ti  prego  , quanto  io  so  , cne  alla  Circóa 
Isola  il  legno  arriverai  di  nuovo , 

Ti  prego  che  di  me  , signor  mio  , Togli 
Là  ricordarti , ond’io  non  resti , come 
Della  partenza  spiegherai  le  vele , 

Senza  lagrime  audietro  e senza  tomba  , 

E tu  veiighi  per  (questo  ai  Numi  in  ira. 

Ma  con  quell’armi , ch'io  vestia  , sul  fuco 
Mi  poni , e in  riva  dei  canuto  mare  100 

A un  misero  guerrìer  tumulo  innalza  , 

Di  cui  favelli  la  ventura  etade. 

Queste  cose  m’adempìi  ; ed  Ì1  buon  remo  , 
Ch'io  tra  i compagni  miei , mentre  vivea. 
Solca  trattar , sul  mio  sepolcro  infìggi. 

Sventurato  , io  risposi , a pìen  fornita 
Sarà  , non  dubitarne  , ogni  tua  voglia. 

Così  noi  sedevam  , meste  parole 
Parlando  alternamente  , io  con  la  spada 
Sul  vivo  sangue  ognora , e a me  di  con  tra  1 10 


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t.s  ODI.' 

I<a  rm  ma  lieve  ilei  compagno  , a cui 
Soggeria  multi  accenti  il  suo  disastra. 
Comparve  in  questo  dell’antica  madre 
L'Ombra  sottile  , d’Antichlca  , che  nacque 
Dal  magnanimo  Autolico  « e a quel  tempo 
Era  tra  i vivi , ch’io  per  Troja  sciolsi. 

La  vidi  appena  , che  pietà  mi  strinse , 

E il  lagrimar  non  tenni  : ma  nè  a lei  , 
Quantunque  meiidolesse)  io  permettea 
Al  sangue  atro  appi  esser,  se  il  vate  prima  120 
Favellar  non  s’uclia.  Levossi  al  line 
Con  laureo  scettro  nella  man  famosa 
L'alma  Tcbana  di  Tirosla , e ratto 
Mi  riconobbe , e dis.se  : Uomo  infelice , 

Perchè  , del  Soie  abbandonati  i raggi , 

Le  dimore  inamabili  de'  morti 
Scendesti  a visitar  ? Da  questa  fossa 
Ti  scosta  , e torci  in  altre  parte  il  brando  , 

Si  ch’io  beva  del  sangue , e il  ver  ti  narri. 

Il  piè  ritrassi , e invaginai  l'acuto  i5o 

D’argentee  borcliie  tempestato  brando. 

Ma  ei , poiché  bevuto  ebbe,  in  tal  guisa 
Movca  le  labbra:  Rinomato  Ulisse  , 

Tu  alla  dolcezza  del  ritorno  aneli , 

E un  Nume  invidioso  il  ti  conieiide. 

Come  celarti  da  Nettun  , che  grave 
Contra  te  concepì  sdegno  nel  petto 
Pel  figlio  , a cui  spegnesti  in  fronte  l’occhio? 
Pur  ) sebbene  a gran  pena  , Itaca  avrai , 

Sol  che  te  stesso  e i tuoi  compagni  ai}'reui,.i4^ 
Quando  , tutti  dei  mar  vinti  i perigli, 
Approderai  col  ben  formato  legno 
Alla  verde  Trinacria  isola  , in  cui 
Pascoli  del  Sol , che  tutto  vede  , ed  ode  , 

] nitidi  montoni  e i buoi  lucenti. 

Se  pasciTanno  illesi , e a voi  non  caglia, 

Che  della  patria,  il  rivederla  dato, 

Benché  a stento , vi  fia.  Ma , dove  osiate 
I.ana  o corno  toccargli,  eccidio  a’ tuoi , 

P.  alla  nave  io  predico , ed  a te  stesso.  i5o 
E ancor  che  morte  tu  schivassi,  tardo 
Fora , ed  iiifaiusto , e senza  un  sol  compagno, 

K su  nave  straniera,  il  tuo  ritorno. 

Mali  oitra  ciò  t’aspetteranno  a casa  : 

Protervo  stuol  di  giovani  orgogliosi. 

Che  ti  spolpa , ti  mangia . e alla  divina 
Moglie  con  doni  aspira.  É ver  che  a lungo 
Koti  rimarrai  senza  vendetta.  Uccisi 
Dunque  o per  frode,  o alla  più  chiara  luce , 

Nel  tuo  palagio  i temerarii  amanti,  160 

Prendi  un  ben  fatto  remo,  e in  via  ti  meUi  : 

Nè  rattenere  il  piè  che  ad  una  nuova 
<rente  non  sii , che  nou  conosce  il  ma*re , 

Nè  cosperse  di  sa!  vivande  gusta  , 

Nè  delle  navi  dalle  rosse  guance, 
de' politi  remi , ale  di  nave , 

Notizia  vanta.  Un  manifesto  segno 
D'esser  nella  contrada  io  ti  prometto* 

Quel  di , che  un'altro  pellegrino , a cui 
T’abbatterai  per  via  , te  quell’arnese  , 1 70 

Con  che  al  vento  su  l’aja  il  gran  si  sparge, 
Portar  dirà  su  la  gagliarda  spalla  , 

Tu  repente  nel  suol  conficca  il  remo. 

Poi , vittime  perfette  a re  Nettuno 
Svenate  , un  loro , mrariele  , c un  verro  , 

Piedi  ; e de!  cielo  agli  abiUiili  tuUi 


.S  S E A 

Con  l'ordine  dovuto  oflri  ecatombe 
Nella  tua  reggia  , ove  a te  fuor  del  mare, 

E a poco  a poco  da  muta  vecchiezza 
Mollemente  consunto,  una  cortese  180 

Sopravverà  morte  tranquilla  , mentre 
Felici  intorno  i popoli  vivranno. 

L'oracol  mio  , che  non  t’inganna , è questo. 

Tiresia  , io  rispondea,  cosi  prescritto, 

(Chi  dubbiar  ne  potrebbe?)  hanno  i Celesti. 

Ma  ciò  narrami  ancora  : io  della  madre 
L'anima  scorgo  , che  tacente  siede 
Appo  la  cava  fossa  , e d’uno  sguardo  , 

Nou  che  d'un  motto , il  suo  iigliuol  non  degna. 
Che  far  degg’io,  perchè  ini  riconosca?  190 
Ed  egli  : Troppo  bene  io  nella  mente 
Lo  ti  porrò.  Quai  degli  spirti  al  sangue 
Non  dileso  da  tc  giunger  potranno , 

Sciorran  parole  non  bugiarde:  gli  altri 
Da  te  si  ritrarran  taciti  indietro. 

Svelate  a me  tai  cose  , in  seno  a Dite 
Del  profetante  Re  l'alma  s’immerse. 

Ma  io  di  là  non  mi  togliea.  La  madre 
S’accostò  intanto,  nè  del  negro  sangue 
i’rima  bevè  , che  ravvisommi,  e queste  200 
Mi  drizzò  lagritnando  alate  voci  : 

Deh  come,  hgliuol  mio,  sceudestu  vivo 
Sotto  l'atra  caligine  ? Chi  vivé, 

Difficilmente  questi  alberghi  mira  , 

Però  che  vasti  fiumi  e paurose 
Correnti  ci  dividono , e il  temuto 
Oceàn  , cui  varcare  ad  uom  non  lice , 

Se  noi  trasporta  una  dedalea  nave. 

Forse  da  Troja  , e dopo  molli  errori , ’ 

Con  la  nave  e i compagni  a questo  bujo  210 
Tu  vieni  ? Nè  trovar  sapesti  ancora 
luca  tua?  nè  della  tua  consorte 
Riveder  nel  palagio  il  Cc«ro  volto? 

O madre  mia  , necessità , risposi , 

L’alma  iudoviua  a interrogar  m’addusse 
Del  Tebano  Tiresia,  Il  suolo  Acheo 
Non  vidi  ancor,  nè  i liti  nostri  attinsi  ; 

Ma  vo  ramingo  , e dalle  cure  oppresso, 

Dappoi  che  a Troja  ne’  puledri  bella 
Seguii,  per  disertarla,  il  primo  Atride.  220 
Su  via  , mi  narra  , e schiettamente , come 
Te  la  di  lunghi  sonni  apportatrice 
Parca  domò.  Ti  vinse  un  lungo  morbo, 

O te  Diana,  faretrata  assalse 
Con  improvvisa  non  amata  freccia  ? 

Vive  l’antico  padre,  il  figlio  vive, 

Che  in  Itaca  io  lasciai?  Nelle  man  loro 
Kesta , o passò  ad  altrui  la  mia  ricchezza , 

K ch’io  non  rieda  più , si  fa  ragione  ? 

K la  consulte  mia  qual  cor  , qual  mente  23o 
.Serba  ? Dimora  col  fanciullo  , c tutto 
G-elosamente  custodisce  , o alcuno 
Tra  i primi  degli  Achei  forse  impalmoUa? 

Riprese  allor  la  veneranda  madre  : 

I.a  moglie  tua  non  lasciò  mai  la  soglia 
Del  tuo  palagio  ; e lentamente  a lei 
Scorron  nel  pianto  i di , scorron  le  notti. 
.Stranier  nei  tuo  retaggio,  in  sin  ch'io  vissi , 
Non  entrò  : il  figlio  su  i paterni  campi 
Vigila  in  pace,  e alle  più  illustri  mense  , 240 
Cui  l’invita  ciascuno  , e che  non  dee 
Chi  nacque  al  regno  dispregiar,  s’asside. 


50 


LIBRO  UNDECIMO. 


IVTa  in  villa  i di  passa  Laerte  , e mai 
A cittade  non  vien  : colà  non  letti , 

Non  cidtri , o strati  sontuosi , o manti. 

Di  vestimeiita  ignobili  coveno 

Dorme  tra  i servi  al  l’ocolare  il  verno 

Su  la  pallida  cenere  ; e se  torna 

L'arida  estade,  o il  verdeggiante  autunno, 

Lettucci  umili  di  raccolte  i'ogiie  a5o 

Stesi  a luì  qua  e là  per  la  l'ecoiida 

Sua  vigna  preme  travagliato,  e il  duolo 

Nutre  piangendo  la  tua  sorte:  arrogi  , 

l.a  vecchiezza  increscevole  che  il  colse. 

Non  altrimenti  de’  miei  stanchi  giorni 
Giunse  il  termine  a me  , cui  non  Diana, 
Sagittaria  infallibile  , di  un  sordo 
(^)uadrelio  assalse,  o di  que' morbi  invase, 

Che  soglion  trar  delle  consunte  membra 
l.'anìma  fuor  con  odiosa  tabe  : 2C>> 

]VTa  il  desio  di  vederli , ma  l’ailànno 
Della  tua  lontananza  , ma  i gentili 
Modi  e costumi  tuoi , nobile  Ulisse, 

La  vita  un  dì  sì  dolce  hannomi  tolta. 

lo  , pensando  tra  me  , l’estinta  madre 
Volea  stringermi  al  sen  : tre  volte  corsi , 

<)uale  il  mio  cor  mi  sospingea  , vèr  lei , 

È tre  volte  m’uscì  fuor  delle  braccia , 

Come  nebbia  sottile , o lieve  sogno. 

Cura  più  acerba  mi  trafisse  ; e ratto,  270 
Ahi , madre  , le  diss’io , perchè  mi  sfuggi 
D’abbracciarti  bramoso  , onde  anco  a Dite, 

3^e  man  gittando  l’un  dell’altro  al  cullo  , 

Di  duol  ci  satolliamo  ambi , e di  pianto  ? 
Fantasma  vano  , acciò  più  sempre  io  m’anga  , 
Forse  l’alta  Proserpina  mandommi  ? 

O dogli  uomini  tutti  il  più  infelice, 

La  veneranda  genitrice  aggiunse  , 

No  , l'egregia  Proserpina  , di  Giove 
La  figlia  , non  t’inganna.  È de’  mortali  280 
Tale  il  destili , dacché  non  son  |iiù  in  vita  , 
Che  i muscoli  tra  sè , Tossa  ed  i nervi 
Non  si  congiungan  più  : tutto  consuma 
La  gran  possanza  didTardente  foco  , 

Come  prima  le  bianche  ossa  abbandona  , 

F vagola  per  l'aere  il  nudo  spirto. 

Ma  tu  d’uscire  alla  superna  luce 
Da  questo  bujo  affretta  ; e ciò  che  udisti  , 

Fi  porterai  nell’anima  scolpito  , 

Penelope  da  te  risappia  un  giorno.  29"' 

Mentre  cosi  favellavain  , sospinte  • 
Dall’inclita  Proserpina  le  figlie 
Degli  eroi  com parlano  , e le  consorti , 

K traean  della  tossa  al  margo  in  folla. 

Io,  come  interrogarle  ad  una  ad  una 
Rivolgea  meco,  e ciò  mi  parve  il  meglio. 
Stretta  la  spada  , non  patia  che  tutte 
Beessero  ad  un  tempo.  Alla  sua  volta 
Così  accorrea  cias<;una  , e l’onorato 
Licnaggio,  ed  i suoi  casi  a me  narrava  5do 
Prima  s’appreseutò  l’illustre  Tiro, 

Che  del  gran  Salmonéo  figlia  , e consorte 
Di  Creteo,  un  de'  figliuoi  d’Eolo  , sè  disse. 
Costei  d’un  fiume  ncH’anaore  accesa  , . 
DelTEiiipéo  divin,  che  la  più  bella 
Sovra  i più  ameni  campi  onda  rivolve, 

S|>esso  a bagnarsi  in  quegli  argenti  entrava. 

L azzurro  !Numc  che  la  terra  cinge  , 


Nettuno  , in  forma  di'quel  Dio  , corcossi 
Delle  sue  vorticose  acque  alla  luce  ; 5 10 

K la  porporeggìante  onda  d’uitorno 
Gli  stette  , e in  arco  si  piegò  , qual  monte , 

Lui  celando , e la  giovane  , cui  tosto 
Sciols’ei  la  zona  virginale,  e un  casto 
Sopore  infuse.  Indi  per  man  la  prese, 

E chiamolla  per  nome  , e tai  parole 
Le  feo  : Di  questo  amor  , donna  , t’allegra. 
Compiuto  non  avrà  Tanno  il  suo  giro  , 

Che  diverrai  di  bei  fanciulli  madre  , 

Quando  vane  giammai  degl’lmmorfali  620 
Non  riescoii  le  no^ze.  1 bei  fanciulli 
Prendi  in  cura,  e nutrisci.  Or  vanne  , e sappi, 
Ma  il  sappi  sola  , che  tu  in  me  vedesti 
Nettuno  , il  Nume  che  la  terra  scuote. 

Disse  ; e ne’gorghi  suoi  Taccolse  il  mare. 

Ella  di  Neleo  e Pelia  , oud’ora  grave  , 
S’alleviò.  Forti  del  sommo  Giove 
Ministri , Tun  nell’arenosa  Pilo, 

NeU’ampia  l’altro  , e di  feconde  gregge 
Ricca  laolco  , ebbe  soggiorno  e scetiro.  53n 
Quindi  altra  prole  , Eaòn  , Ferete  , e il  chiaro 
Domator  di  cavalli  Amitnóne, 

Diede  a Creteo  costei , che  delle  donne 
Reina  parve  alla  sembianza  , e agli  atti. 

Poi  d’Asópo  la  figlia , Antiopa  , venne  , 

Che  dpITamor  di  Giove  andò  superba  , 

E due  figli  creò  , Zeto  e AnTiòue. 

Tebe  costoro  dalie  sette  porte 
Primi  fondare  , e la  munir  di  torri  : 

Chè  mal  potean  la  spaziosa  Tebe  34o 

Senza  torri  guardar,  benclrè  gagliardi. 

Venne  d’Amfitrìòn  la  moglie  , Alcmena  , 
Che  al  Saturnide  l’animoso  Alcide  , 

Cor  di  leone , partorì.  Megara  , 

Di  Creonte  magnanimo  figliuola  , 

E moglie  delTiavitto  Ercole,  venne. 

D’Edipo  ancor  la  genitrice  io  vidi , 

La  leggiadra  Epicasta  , che  nefanda 
Per  cecità  di  mente  opra  commise  , 

L’uom  disposando  da  lei  nato.  Edipo  35o 
La  man  , con  che  avea  prima  il  padre  ucciso  , 
Porse  alla  madre  : nè  celaro  i Dei 
Tal  misfatto  alle  genti.  Ei  per  crudele 
Voler  de’  Numi  nell’amena  Tebe 
Addolorato  su  i Cadméi  regnava. 

Ma  la  donna  , cui  vinse  il  proprio  affanno  , 

L’Infame  nodo  ad  un’eccelsa  trave 

Legato  , scese  alla  magion  di  Plulo 

Dalle  porte  infrangibili , e tormenti 

Lasciò  indietro  al  liglluol,  quanti  ne  danno  5Go 

Le  ultricl  Furie  , che  una  madre  invoca. 

Vidi  colei  non  men,  che  ultima  nacque 
AlTIaside  Anfìòn,  cui  l’arenosa 
Pilo  negli  anni  andati , e il  Minì'éo 
Orcomeno  ubbidia  ; Tegrcgia  Glori, 

Che  Neleo  di  lei  preso  a sè  congiunse  , 

Poscia  ch’egli  ebbe  di  dolali  doni 
La  vergine  ricolma.  Ed  ella  il  leo 
. R lecco  di  vaga  e di  lui  degna  prole , 

Di  Nestore  , di  Croniio  , e dell’eroe  570 

Perecllinéuo  ; e poi  di  quella  Pero  , 

Che  maraviglia  fu  d’ognl  mortale. 

Tutti  i vicini  la  chiedeau:  ma  il  padre 
Sol  conccdeala  a chi  k*  belle  vaahe 


ODISSEA 


6o 

Dalla  lanata  spaziosa  fronte , 

Che  appo  sé  rileneasi  il  forte  Iflde  , 

Gli  riniénasse , non  leggiera  impresa , 

Dai  pascoli  di  Eliaca.  L’impresa 
Melampo  assunse  » un  indovino  illustre  ; 

Se  non  che  a lui  s’attraversaro  i lati  ^ 38o 

E pastori  salvatichi  , da  cut 

Sod'rir  dovè  d'aspre  catene  il  pondo. 

Ma  non  prima , già  in  sè  rivolto  l'anno  , 

1 mesi  succedettersi , ed  i giorni , 

£ compier  le  stagioni  il  corso  usato, 

Che  Ilicle  , a cui  gli  olacoli  de’  Numi 
Svelati  avea  rìrreprensibil  vate  , 

1 suoi  vincoli  ruppe;  e così  al  tempo 
L'alto  di  Giove  s'adempiea  consiglio. 

Leda  comparve,  da  cui  Tindaro  ebbe  3^o 
Due  figli  alteri , Castore  e Polluce, 

L’un  di  cavalli  domatore  , e l'altro 
Pugile  invitto.  Benché  l’alma  terra 
Bitengali  nel  sen , di  vita  un  germe 
fCosi  Giove  tra  l’Ombre  anco  gli  onora) 
Serbano  : ciascun  giorno  , e alternamente, 
Bì’apron  gii  occhi , e chiudonil  alla  luce  , 

E gloriosi  al  parvan  degli  Eterni. 

Dopo  costei  mi  si  parò  davanti 
D'Àluéo  la  consorte , Ihmidéa  , 4°^ 

Cui  di  dolce  d'amor  nodo  si  strinse 
I>o  Scuotiterra.  Ingenerò  due  figli , 

0*0  a un  Dio  pari , e l’inditu  liialte, 

Che  la  luce  dei  Sol  poco  fruirò. 

Nè  di  statura  ugual,  nè  di  beltade , 

Altri  nodrì  la  comun  madre  antica, 

Sol  che  Ira  tutti  d’Oriun  si  taccia. 

Non  avean  tocco  il  dfcim’annu  ancora  , 

Che  in  largo  nove  cubiti , c tre  volte 
Tanto  cresciuti  erano  in  lungo  i corpi.  4*o 
tenesti  volendo  ai  sommi  Dei  su  l'etra 
Nuova  portar  sediziosa  guerra  , 

L'Ossa  sovra  l'Olimpo , e sovra  l’Ossa 
L’arborifero  Pelio  impor  tentaro  , 

Onde  il  cielo  scalar  di  monte  in  monte  ; 

E il  fean  , se  i volti  pubertà  infioTava  : 

Ma  di  Giove  il  figliuolo  e dì  Latona 
Sterminolli  ambo , che  del  primo  pelo 
Le  guance  non  ombravano,  ed  il  mento 

Fedra  comparve  ancor, Procri  e Arianna,  420 
Che  l'amante  Teséo  rapì  da  Creta  , 

£ al  suol  fecondo  della  sacra  Atene 
Condor  volea.  Vane  speranze  ! In  Nasso, 

Cui  cinge  un  vasto  mar,  fu  da  Diana  , 

Per  l’indizio  di  Bacco , aggiunta  e morta. 

Nè  restò  Mera  inosservata  indietro  , 

Nè  Climene  restò  , nè  l’abborrita 
Erilile  , che  il  suo  diletto  sposo 
Per  un  aureo  monii  vender  poteo. 

Ma  dove  io  tutte  degli  eroi  le  apparse  43‘» 
Figlie  nomar  volessi , e le  consci  ti , 

Pria  mancheriami  la  divina  Notte. 

£ a me  par  tempo  da  posar  la  testa 
O in  nave  o qui,  tutta  del  mio  ritorno 
Ai  Celesti  lasciando  , e a voi , la  cura. 

Tacque.  1 Feaci  per  l’oscura  sala 
3(avaiisi  muti , e nel  piacere  assorti. 

Ruppe  il  silenzio  l’immortal  Regina , 

La  hracciobianca  Arete  : Feaccsi , 

Che  vi  par  di  costui  ? del  auo  sembiante?  440 


Della  maschia  persona  ? e di  quel  senno 
Ohe  in  lui  risiede  ? Ospite  è mio  , ma  tutti 
Dell’onor  , ch'io  ricevo  , a parte  siete. 

Non  congedate  iu  fretta  , e senza  doni , 

Chi  nulla  tien  , voi , che  di  buono  in  casa 
Per  favor  degli  Dei  Unto  serbate. 

Qui  favello  Echenéo , che  gli  altri  tutti 
Vìucea  d'etade  : Fuor  ael  segno,  amici , 

Arete  non  colpì  con  la  sua  voce. 

Obbediscasi  a lei  : se  non  che  prima 
Del  He  l'esempio  attenderemo,  e il  detto. 

Ciò  sarà  ch’ella  vuole  , Alcinoo  disse  , 

Se  vita  e scettro  a me  lascian  gli  Dei. 

Ma  , benché  tanto  di  partir  gli  tardi , 

L’oapite  indugi  sino  al  nuovo  Sole  , 

Sì  ch’io  tutti  1 regali  insieme  accoglia. 

Cura  esser  dee  comun  che  lieto  ei  parta , 

£ più  , che  d'altri , mia , s'io  qui  son  primo. 

Alcinoo  re , che  di  grandezza  e fama  , 
Riprese  Ulisse,  ogni  mortale  avanzi,  4^ 
Sei  mesi  ancor  mi  riteneste  , e sei , 

F fida  scorta  intanto  e ricchi  doni 
M'apparecchiaste  , io  non  dovrei  sgradirlo  : 
Chè  quanto  io  tornerò  con  man  più  piene 
V miei  sassi  natii , tanto  la  gente 
Con  più  onore  accorrummi  e con  più  affetto* 

Ed  Alcinoo  io  risposta  : Allora  , Ulisse  , 

Che  ti  adocchiamo,  un  impostor  fallace, 
D’alte  menzogne  inaspettato  fabbro  , 

Scorger  non  suspcttiam  , quali  benigna  47<> 
La  terra  qua  e là  molti  ne  pasce. 

Leggiadria  di  parole  i labbri  t’orna  , 

Nè  prudenza  minor  l'alberga  in  petto, 
l.'opre  de’  Greci  e le  tue  duglie  , quasi 
Lo  spirto  della  Musa  in  te  piovesse , 

Ci  narrasti  così , ch'era  un  vederle. 

Deh  siegui^  e dimmi  , se  t'apparve  alcuno 
Di  tanti  eroi  che  veleggiaro  a Troja 
Teco,  e spenti  rimaservi.  La  Notte 
Con  lenti  passi  or  per  lo  ciel  cammina  , 480 

E • finché  ci  esporrai  stupende  cose  , 

Non  fìa  chi  del  dormir  qui  si  rammenti. 
Quando  parlar  di  te  sino  all’Aurora 
Ti  consentisse  il  duol , sino  all’Aurora 
lo  penderei  dalle  tue  labbra  immoto. 

V'ha  un  tempo,  Alcinoo,  di  raca>nti,edhav- 
Ulisse  ripigliò,  di  sonni  un  tempo.  ' (vi. 
Che  se  udir  vuoi  più  avanti , io  nou  ricuso 
(.a  sorte  di  color  molto  più  dura 
Rappresentarti , che  scampar  dai  rischj  490 
D’una  terribil  guerra  , e nel  ritorno  , 

Colpa  d'una  rea  donna  , ohimè  ! perirò. 

Poiché  le  femminili  Ombre  famose 
T>a  casta  Proserpina  ebbe  disperse. 

Mesto  , e cinto  da  quei  che  fato  uguale 
Trovar  d'Egisto  negl'infidi  alberghi. 

Si  lexò  d’Agamennune  il  fantasma. 

Assaggiò  appena  dell'oscuro  sangue. 

Che  ravvisommi  ; e dalle  tristi  ciglia 
Versava  in  copia  lagrime,  e le  mani  5ioa 

Mi  stendea  di  toccarmi  iiivan  bramose  : 

Che  quel  vigor , quella  possanza  , ch’era 
Nelle  sue  membra  ubbidienti  ed  atte  , 

Derelitto  l'avea.  Lagrime  anch'io 
Sparsi  a vederlo,  e intenerii  nell'alma^ 

£ taì  voci,  nomandolo,  gli  volsi; 


ooglc 


6i 


LIBRO  U N D E C I M 0. 


O inclito  d’Atréo  figlio , o de’  prodi 
He  f Agaroennòon  , qual  destili  ti  vinse , 

£ i lunghi  t’arrecò  sonni  di  Morte? 

Kettuno  in  mar  ti  domò  forse,  i fieri  5io 
Spirti  eccitando  de’ crudeli  venti  ? 

O t’offesero  in  terra  uomini  ostili , 

Che  armenti  depredavi  e pingui  gregge  ^ 

O delle  patrie  mura,  c delle  caste 
Donne  a difesa  , roteavi  il  brando  ? 

Laerziade  preclaro,  accorto  Ulisse 
Ratto  rispose  dell’Atride  l’Ombra , 

Me  non  domò  Nettuno  all’onde  sopra , 

Nè  m’ofiesero  in  terre  uomini  ostili. 

Bgisto  , ordita  con  la  mia*  perversa  52o 

Donna  una  frode  , a se  iuvitommi , e a mensa, 
Come  alle  greppie  incoiisapevol  bue. 

L’empio  mi  trucidò.  Cosi  morii 
Di  morte  infelicissima  ; e non  lunge 
Gli  amici  mi  cadeau,  quai  per  illustri 
Nozze  , o banchetto  sontuoso  , o lauta 
A dispendio  comun  mensa  imbandita , 

Cadono  i verri  dalle  bianche  saune. 

Benché  molti  a’  tuoi  giorni  o in  folta  pugna 
Vedessi  estinti , o in  singolar  certame , 63o 

Non  solita  pietà  tocco  t’avrebbe, 

Noi  mirando,  che  stesi  aWospitali 
Coppe  intorno  eravam  , mentre  correa 
Purpureo  sangue  il  pavimento  tutto. 

La  dolente  io  sentii  voce  pietosa 
Della  figlia  di  Priamo , di  Cassandra  , 

Cui  Clitennestra  m’uccìdea  da  presso  , 

La  moglie  iniqua  ; ed  io , giacendo  a terra  ; 
Con  moribonda  man  cercava  il  brando  : 

Ma  la  sfrontata  si  rivolse  altrove  , 5«o 

Nè  gli  occhi  a me,  che  già  scendea  tra  l’Ombre, 
Chiudere  , nè  compor  degnò  le  labbra. 

No , più  rea  peste  ,.più  crudel  non  dassi 
Di  donna  , che  sì  atroci  opre  commetta  t 
Come  questa  infedel , che  il  danno  estremo 
Tramò  , cui  s’era  vergine  congiunta. 

Lasso  ! dove  io  credea  che  , ritornando , 
Figliuoli  e servi  m’accorrian  con  festa. 

Costei , che  tutta  del  peccar  sa  l’arte , 

Sè  ricopri  d’infamia , e quante  al  mondo  55i» 
Verranno,  n le  più  one.^te  anco,  ne  asperse. 

Oh  quanta  , io  ripigliai , sovra  gli  Atridi 
I.e  femmine  attiraro  ira  di  Giove  ! 

Fu  di  molti  de’  Greci  Elena  strage  ! 

£ a te , cogliendo  dell’assenza  il  tempo , 
Funesta  rete  Clitennestra  tese. 

Quindi  troppa  tu  stesso,  ei  rispondea , 

Con  la  tua  donna  non  usar  dolcezza  , 

Nè  il  tutto  a lei  svelar  , ma  parte  narra 
De’  tuoi  secreti  a lei , parte  ne  taci , 5Go 
Banchè  a te  dalla  tua  venir  disastro 
Non  debba  : che  Penelope  , la  saggia 
l'iglia  d’lc.ario  , altri  consigli  ha  in  core. 
Moglie  ancor  giovinetta  , e con  un  bimbo, 

Che  dalia  mamma  le  pendea  contento, 

Tu  la  lasciavi , navigando  a Troja: 

£d  oggi  il  tuo  Telemaco  felice 

Già  s’asside  uom  tra  gli  uomini,  e il  diletto 

Padre  lui  vedrà  un  giorno , ed  egli  al  padre 

Giusti  baci  porrà  sovra  la  fronte.  5y' 

Ma  la  consorte  mia  nè  questo  almeno 

Mi  consentì , ch’io  satollassi  gli  occhi 


Nel  volto  del  mio  figlio  , e pria  mi  spense. 
Credi  al  fine  a’  miei  detti , e ciò  nel  fondo 
Serba  del  petto  : le  native  spiagge 
Secretameute  afferra  , e a tutti  ignoto  , 
Quando  fidar  più  non  si  puote  in  donna. 

Or  ciò  mi  conta  , e schiettamente  : udisti , 
Dove  questo  mio  figlio  i giorni  tragga  ? 

In  Orcomeno  forse  ? O forse  tieuio  58o 

Pilo  arenosa  , o la  rapace  Sparla 
Presso  re  Menelao?  Certo  non  venne 
Finor  sotterra  il  mio  gentile  Oreste: 

Ed  io  : Perchè  di  ciò  domandi , Atride  , 

Me  , cui  nè  conto  è pur , se  Oreste  spira 
Le  dolci  aure  di  sopra  , o qui  soggiorna  ? 

Lode  non  merla  il  favellare  al  vento. 

Così  parlando  alternamente,  e il  volto 
ni  lagrime  rigando,  e il  suol  di  Dite, 

Ce  ne  stavam  di'sconsolati  ; ed  ecco  5qo 

.Sorger  lo  spirto  del  Peliade  Achille, 

Di  Patroclo  . d’Aiitiloco  e d’Ajace  , 

Che  gli  Achèi  lutti , se  il  Peiide  togli, 

Di  corpo  superava  e di  sembiante* 

Mi  riconobbe  del  veloce  al  corso 
Kacide  Pimago  ; e , lamentando , 

O , disse  , di  Laerte  inclita  prole, 

Qual  nuova  in  mente  , sciagurato,  volgi 
Macchina  , che  ad  ogni  altra  il  pregio  scemi  ? 
Come  osasti  calar  ne'  foschi  regni , 600 

Degli  estinti  magìon  , che  altro  non  sono 
Che  aeree  forme  e simulacri  ignudi  ? 

Di  Feleo  , io  rispundea  , figlio , da  cui 
Tanto  spazio  rimase  ogni  altio  Gr^co, 

Tiresia  io  scesi  a interrogar  , che  l’arte 
Di  prender  m’insegnasse  Itaca  alpestre. 

S«>mpre  involto  ne’  guai , PAcaica  terra 
Non  vidi  ancor  , nè  il  patrio  lido  attinsi. 

Ma  dì  te  , forte  Achille , uom  più  br-ato 
Non  fu , nè  giammai  fia.  Vivo  d’un  Nume  Gio 
T’onoravamo  al  pari  , ed  or  tu  regni 
.Sovra  i defunti.  Puoi  tristani  morto? 

Non  consolarmi  della  morte,  a Ulisse 
Replicava  il  Pellde.  Io  pria  torrei 
S'^rvir  bifolco  per  mercede  a cui 
Scarso  e vii  cibo  difendesse  i giorni , 

Che  del  Mondo  defunto  aver  l’impero. 

Su  via , ciò  lascia , e del  mio  figlio  illustre 
Parlami  in  vece.  Nelle  ardenti  pugne 
Corre  tra  t primi  avanti  ? K di  PeJéo  , fiso 
Del  mio  gran  genitor  , nulla  sajiesti  ? 

Sieguon  fedeli  a reverirlo  i molti 
Mirmidoui , o nelPEUada  , ed  in  Ftia 
Spregiato  vive  per  la  troppa  etade , 

Che  le  membra  gli  agghiaccia  ? Ahi!  ebegnar- 
Sotto  i raggi  del  Sol  più  non  mi  lice  : (darlo 

Che  pas.sò  il  tempo  che  la  Troica  sabbia 
D’esanimi  io  covrìa  corpi  famosi , 

Proteggendo  gli  Achei.  S’io  con  la  forza  , 

Che  a que’giorni  era  in  me,  toccar  potessi  63o 
Per  un  istante  la  paterna  soglia  , 

V chiunque  oltraggiarlo  , e degli  onori 
Fraudarlo  ardisse , questa  invitta  mano 
Metterebbe  nel  core  alto  spavento. 

Nulla  i io  risposi , di  Peléo  , ma  tutto 
Del  figliiiot  posso  , e fedelmente,  dirti , 

Di  Neottolemo  tuo,  eh»*  all’oste  Achiva, 

Io  stesso  sopra  cava  e d’uguai  hauchi 


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6a  ODISSEA 


Munita  nave  rimenai  da  Sciro.  | 

Sempre  che  ad  Ilio  tenevam  consulte  t 640  ! 
Primo  egli  a favellar  s’alzava  in  piedi  | | 

Nè  mai  dal  punto  deviava  : soli  I 

Gareggiavam  con  lui  Nestore  ed  io.  | 

Ma  dove  Tarmi  si  prendean  , confuso 
Già  nou  restava  in  fra  la  turba , e ignoto.  | 
Precorrea  tutti , e di  gran  lunga  » e intere 
X.e  falangi  struggea.  Quantici  mandasse , 
Propugnacol  de'  Greci , anime  all'Orco , 

Da  me  non  t'aspettare.  Abbiti  solo  , 

Che  il  Telefide  Euripilo  trafisse  65o 

Fra  i suoi  Cetéi , che  gli  moriano  intorno  ; 
Euripilo  di  Troja  ai  sacri  muri 
Per  la  impromessa  man  d'una  del  Rege 
Figlia  venuto  » ed  in  quell'oste  intera  , 

Diipn  il  deiforme  Mennone,  il  più  bello. 

Che  del  giorno  dirò , che  il  lior  de'  Greci 
Nel  construtto  da  Epéo  cavallo  salse, 

Che  in  cura  ebb'io , poiché  a mia  voglia  solo 
Aprissi , o rinchiudeasi , il  cavo  agguato  ? 
Tergeansi  capi  e condottier  con  mano  660 
De  umide  ciglia , e le  ginocchia  sotto 
Tremavano  a ciascun  ; nè  bagnare  una 
Lagrima  a lui , nè  dì  pallore  un'ombra 
Tingere  io  vidi  la  leggiadra  guancia. 

Bensì  prieghi  porgeaini  j onde  calarsi 
Giù  del  cavallo , e della  lunga  spada 
Palpeggiava  il  grand’else , e l'asta  grave 
Crollava , mali  divisando  a Troja. 

Poi , la  cittadc  incenerita , in  nave 

Delle  spoglie  più  belle  adorno  e carco  670 

Montava  , e illeso  : quando  lunge , o presso , 

Di  spada , o strai , non  fu  giammai  chi  vauto 
Del  ferito  Neottolemo  si  desse. 

Dissi;  e d'Achille  alle  veloci  piante 
Per  li  prati  d'asfodelo  vestiti 
L'alma  da  me  sen  giva  a lunghi  passi , 

Lieta  , che  udì  del  figliuol  suo  la  lode. 

D’altri  guerrieri  le  sembianze  tristi 
Compariano  ; e ciascun  suoi  guai  narrava. 

Sol  dello  spento  Telamonio  Ajace  68o 

Stav.i  in  disparte  il  disdegnoso  spirto , 

Perchè  vinto  da  me  nella  contesa 
Dell’armi  del  Pelìde  appo  le  navi. 

Teti , la  madre  veneranda,  in  mezzo 
pose  , e giudìcaro  i Teucri  e Palla. 

Oh  cótta  mai  non  avess'io  tal  palma , 

Se  Talina  terra  nel  suo  vasto  grembo 
Celar  dovea  sì  gloriosa  testa  , 

Ajace  , a cui  d’aspetto  e d'opre  illustri, 

Salvo  l'irreprensibile  Pelide  ^ C90 

Non  fu  tra  1 Greei  chi  agguagliarsi  osasse  \ 

Io  con  blande  parole , Ajace , dissi , 

Figlio  del  somnao  Telamon , gli  sdegni 
Fer  quelle  maledette  arme  concetti 
Dunque  nè  morto  spoglierai?  Fatali 
Certo  resergli  Dei  quell'arme  ai  Greci, 

Che  in  te  perderò  una  sì  ferma  torre. 

Noi  per  te  nulla  men  , che  per  Achille , 
Dolenti  andlam;  nè  alcun  n'è  incolpa,  il  credi: 
Ma  Giove , che  infinito  ai  bellicosi  <700 

Danai  odio  porta , la  tua  morte  volle. 

Su  via  , t’accosta , o Re . porgi  cortese 
L'orecchio  alle  mie  voci , e la  soverchia 
Forza  del  generoso  animo  doum. 


Nulla  egli  a ciò  : ma  , ritraendo  il  piede , 

Fra  l'altre  degli  estinti  Ombre  si  mise: 

Pur , seguendolo  io  quivi , una  risposta 
Forse  data  ei  m’avria  ; se  non  che  voglia 
Altro  di  rimirar  m’ardea  nel  petto 

Minosse  io  vidi , del  Saturnio  il  chiaro  7 10 
Figliuol , che  assiso  in  trono , e un  aureo  scettro 
Stringeudo  in  man  , tenea  ragione  aU'Ombre , 
Che  tutte , qual  seduta  e quale  iu  piedi , 

Conto  dì  ^ rendeangìi  entro  l'oscura 
Di  Fiuto  casa  dalle  larghe  porte. 

Vidi  il  grande  Orìon , che  delle  fiere, 

Che  uccise  un  dì  sovra  i boscosi  monti , 

Or  gli  spettri  seguia  de'  prati  Inferni 
Per  l’asfodelo  in  caccia  : e maneggiava 
Perpetua  mazza  d'iufrangibil  rame.  720 

Ecco  poi  Tizio , della  'Terra  figlio', 

Che  sforzar  non  temè  l'alma  di  Giove 
Sposa , Latona  , che  volgeasi  a Filo 
Per  le  ridenti  Fanupée  campagne. 

Sul  terren  distendevasi , e ingombrata 
Quanto  in  dì  nove  ara  di  tauri  un  giogo  ; 

È due  avoltoi , l’un  quinci , e l'altro  quindi , 
Ch'ei  con  mano  scacciar  tentava  imUrno, 
Rodeangli  il  cor,  sempre  ficcando  addentro 
Nelle  fibre  rinate  il  curvo  rostro.  75o 

Stava  là  presso  con  acerba  pena 
Tantalo  in  piedi  entro  un  argenteo  Iago  , 

La  cui  belTonda  gli  toccava  il  mento. 

Sitibondo  moslravasi , e una  stilla 
Non  ne  potea  gustar  : chè  quante  volte 
Chinava  il  veglio  le  bramose  labbra  , 

Tante  l'onda  fuggia  dal  fondo  assorta  , 

Sì  che  appariagli  ai  piò  solo  una  bruna 
Da  un  Genio  avverso  inaridita  terra. 

Piante  superbe  , il  me;lagrano  , il  pero  , 740 

K di  lucide  poma  il  melo  adorno , 

B il  dolce  hco  , e la  canuta  oliva  , 

Gli  piegavan  sul  capo  i carchi  rami  ; 

E in  quel  clTegU  stendea  dritto  la  destra  p 
Vèr  le  nubi  lanciava  i rami  il  vento. 

Sisifo  altrove  smisurato  sasso 
Tra  l'una  e l'altra  man  portava,  e doglia 
Pungealo  inenarrabile.  Costui 
La  gran  pietra  alla  cima  alta  d'uo  monte , 
Urtando  con  le  man  , coi  piè  pontando , 760 

tSpingea  : ma  giunto  in  sul  cìglioii  non  era , 

Che  risuspinta  da  un  poter  supremo 
Rotolavasi  rapida  pel  (bino 
Sino  alla  valle  la  pesante  massa. 

Ei  nuovamente  di  tutta  sua  torza 
Su  la  cacciava  : dalle  membra  a gronde 
Il  sudore  colavagli  , e perenne 
Dal  capo  gli  salia  di  polve  un  nembo. 

D’Èrcole  mi  s’offerse  al  fin  la  possa  , 

Anzi  il  fantasma  : però  ch'ei  de’  Numi  7C0 
Giocondasi  alla  mensa,  e cara  sposa 
Gli  siede  accanto  la  dai  piè  leggiadro 
Ebe  , di  Giove  figlia  e di  Giunone , 

Che  muta  il  j>asso  coturnata  d'oro. 
Schiamazzavan  gli  spirti  a lui  d’intorno  , 

Come  volanti  augei  da  subitana 
Tema  compresi  ; ed  ei  fosco  , qual  notte , 

Con  Parco  in  mano,  e con  lo  strai  sul  nervo  , 
Ed  in  atto  ad  ognor  di  chi  saetta  , 

* Onendamenle  qua  e là  guatava. 


G3 


LIBRO  D U 

Ma  il  petto  attraversaragli  una  larga 
r>’ór  cintura  terrìbile , sn  cui 
Sturiate  vedeansi  opre  ammirande  , 

Orai , cinghiai  feroci  ,'e  Ir-on  torvi  » 

U pugne  , e stragi , e aanguinose.morti: 
Cintura  , a cui  l’eguale  o prima  , i>  dopo  , 

Non  fabbricò  , qual  che  si  fosse  , il  mastro* 

Mi  sguardò,  riconobbemi  , e con  voce 
L.ugubre , O , disse , di  Laerte  tìglio , 

Ulisse  accorto  , ed  infelice  a un’ora  , 780 

Certo  un  crudo  t’opprime  avverso  fato  , 

Qual  sotto  i rat  del  Sole  anch’io  sostenni. 
Figliuol  quantunque  dell’egioco  (ìiove  , ; 

Pur  , soggetto  vivendo  ad  uom,  che  tanto  j 
Valea  manco  di  me , molto  io  suflfersi. 

Fatiche  gravi  ei  m’addossava  , e un  tratto 
Spedimmi  a quinci  trarre  il  Can  trifauce  , 

Che  la  prova  di  tutte  a me  più  dura 
Sembravagli  ; ed  io  venni , e quinci  il  Cane 
Tnfauce  trassi  ripugnante  indarno , 790  | 


O D E C I M O.  . 

D’Brmcte  col  favore  e di  Minerva. 

Tacque  , e nel  più  profondo  Èrebo  scese. 

Di  loco  io  non  movrami , altri  aspettando 
De’  prodi , che  sparirò  « è ornai  gran  tempo. 

E que’  duo  forse  mi  sarieo  comparsi 
Ch^io  più  veder  bramava , eroi  primieri , 

Teseo  e PIritoo  , gloriosa  prole 
Degrimmortali  Dei.  Ma  un  infinito 
Pupol  di  spirti  cou  frastuono  immenso 
Si  ragunava  \ n in  quella  un  improvvisa  800 
Timor  m’assalse  , non  l’orribii  testa 
Della  tremenda  Gorgone  la  Diva 
Proserpina  inviasse  a me  dall’Orco. 

Dunque  senta  dimora  al  cavo  legno 
Mussi , e ai  compagni  comandai  salirlo , 

K liberar  le  funi  ; ed  i compagni 
Ratto  il  saltano , e s'^assideaii  su  i banchi. 

Pria  Paleggiar  de’  remi  il  cavo  legno 
Mandava  innanzi  d'Oceàn  su  Poiide  : 

Poscia  quel , che  levossi,  ottimo  vento.  810 


LIBRO  DUODECIMO 


ARGOMENTO 

Ritori^p  alPisola  di  Cifre,  esequie  d'E1|iennre  , e parlebta  d'Uliase.  Questi , ammaestralo  da  Circe  vince  iì 
pericolu  delle  Sirene  , schiva  le  Pietre  erranti  , e passa  tra  Scilla  e Cariddi , mm  però  scasa  perdita  di  due  de’ 
coTiipagni.  Arrivo  alPisola  Trioacria,  cioè  alla  Sicilia,  ove  i cumpagoi  uccidono  i buoi  del  Sole,  e cihansi  delle 
loro  carni.  Giove  fulmina  la  nave,  e tutti  pcrisctjno , eccetto  Ulisse,  che  su  gli  avanti  della  nave  sì  |mi>r.  Io 
tale  stalo  ribussa  tra  Scilla  e Cariddi , salvaodusi  da  quest’ultima  oun  un'arte  maravigliusa  j e deqx)  dicci  giorni 
giunge  airisola  di  Calipso.  £ qui  lia  fine  la  sua  narraticoe. 


P oicTiÈ  la  nave  usci  dalle  correnti 
Del  gran  fiume  Oceano , ed  all’Eéa 
Isola  ginn.se  neirimmenso  mare  , 

J.à  I 've  gli  alberghi  dell’Aurora  , e ì balli 
Sono,  e del  Sole  i lucidi  Levanti , 

Noi  dalla  nave , che  fu  in  secco  tratta  , 

Scesi , e corcati  su  la  muta  spiaggia , 
Aspettammo  dell’Alba  il  sacro  lume. 

Ma  come  del  mattin  la  bella  figlia 

Colorò  il  ciel  con  le  rosate  dita  , 10 

Di  Circe  andaro  alla  magione  alcuni , 

Che  dell’estinto  KIpenore  la  fredda 
Spoglia  ne  riportassero.  Troncammo 
Frassini  e abeti,  e all’infelice  amico, 

Dolenti  il  core , lagrimosi  il  cìglio, 

L'esrquie  femmo,  ove  sporgea  più  il  lido. 

Nè  prima  il  corpo  e le  armi  ebbe  arse  il  foco, 
Che  noi,  composto  un  tumulo,  ed  eretta 
Sopravi  una  colonna,  il  ben  formato 
Remo  infiggemmo  della  tomba  in  cima.  so 
Mentr’eravamo  al  tristo  uflìcio  intenti, 
Circe,  che  d’Aide  ci  sapea  tornati, 

S’adoriiò,  e venne  in  fretta,  e con  la  Dea 
Venner  d’un  passo  le  serventi  Ninfe, 

Forza  di  carni  e pan  seco  recando , 

E rosso  vino,  che  le  vene  infiamma. 

L’inclita  tra  le  Dee  stava  nel  mezzo, 

E COSI  favellava  : O sventurati , 

Lhe  in  carne  viva  nel  soggiorno  entraste 


D’Aide , e di  cui  la  sorte  è due  fiate  3o 
Morir , quando  d’ogni  altro  uomo  è una  sola , 
Su  via  , tra  i cibi  scorra  ed  i licori 
Tutto  a voi  questo  di  su  le  mie  rive. 

Come  nel  ciel  rosseggerà  l’Aurora  , 
Navicherete;  ma  il  cammino,  e quanto 
Dì  saper  v’è  mestieri , udrete  in  prima  , 

81  che  non  abbia  per  un  mal  consiglio 
Grave  in  terra , od  in  mare  , a incorvì  danno. 

Chi  persuaso  non  saiiasi  ? Quindi 
Tra  lanci  piene  e coronate  tazze,  40 

Finche  il  Sol  si  mostrò , sedemmo  a mensa. 

11  Sol  celato , ed  imbrunito  il  mondo , 

Si  colcaro  ì compagni  appo  la  nave. 

Ma  Circe  me  prese  per  mano , e trasse 
Da  parte  , e a seder  pose  ; ìndi , seduta 
Di  runtra  , interrogommì , ed  io  su  tutto 
La  satisfeci  pienamente.  Allora 
Tai  parole  sciogliea  Tìliustre  Diva: 

Tu  compiesti  ogni  cosa.  Or  quello  ascolta , 
Ch’io  vo’manifestarti , e che  al  bisogno  So 
Ti  tornerauuo  nella  mente  i Numi. 

Alle  Sirene  giungerai  da  prima , 

Che  ailàscinan  chiunque  i lidi  loro 
Con  la  sua  prora  veleggiando  tocca. 

Chiunque  i lidi  incautamente  atì'erra 
Delle  Sirene,  e n’ode  il  canto,  a lui 
Nè  la  sposa  ledei , nè  Ì cari  figli 
Verraimo  incoutro  su  le  soglie  in  festa. 


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ODISSEA 


6i 

Le  Sirene  , sedendo  in  un  bel  prato , 

Mandano  un  canto  dalle  argute  labbra , 6<.> 

Che  alletta  il  passeggier  : ma  non  lontano 
D’ossa  d'umani  putreiatti  corpi , 

£ di  pelli  marcite ) un  monte  s'alza. 

Tu  veloce  oltrepassa  , e eoo  mollila 
Cera  de’  tuoi  cosi  l’orecchio  tura, 

Che  non  vi  possa  penetrar  la  voce. 

Odila  tu  , se  vuoi  ; sol  che  diritto 
Te  della  nave  all'albero  i compagni 
Leghino  , e i piedi  stringanti , e le  mani: 
Perchè  il  diletto  di  sentir  la  voce  70 

Delle  Sirene  tu  non  perda.  K dove 
Pregassi , o comandassi  a’  tuoi  di  scìorti  | 

Le  ritorte  raddoppino,  ed  i lacci. 

Poiché  trascorso  tu  sarai , due  vie 
Ti  s’apriranno  innanzi  ; ed  io  non  dico , 

Qual  più  giovi  pigliar , ma , come  d’ambo 
Kagionato  t'avrò , tu  stesso  il  pensa. 

Vedrai  da  un  lato  discoscese  rupi 
Sovra  l’onde  pendenti , a cui  rimbomba 
Dell’azzurra  Anfìtrite  il  salso  botto.  80 

Gl'Iddìi  beati  nella  lor  favella 
Chìamanle  Erranti. Hon  che  ogni  altro  augello, 
Trasvolarle  non  sanno  impunemente 
Kè  le  colombe  pur  , che  al  padre  Giove 
Recan  Tambrosia  : la  polita  pietra 
Sempre  alcuna  ne  fura  , e della  spenta 
Surroga  in  vece  altra  colomba  il  padre. 

^ave  non  iscampò  dal  periglioso 
Varco  sin  qui  : chè  de'  navigli  tutti 
Le  tavole  del  pari  e i naviganti  90 

Sen  porta  il  vincitor  flutto,  e la  pregna 
Di  mortifero  foco  atra  procella. 

Sola  quell’Argo  , che  solcava  il  mare , 

Degli  uomini  pensiero  , e degli  Dei , 

Trapassar  valse  , navigando  a Coleo  : 

£ se  non  che  Giunon  , cui  molto  a cuore 
Giasone  stava  , di  sua  man  la  spinse , 

Quella  non  meno  avrian  contra  le  vaste 
Rupi  cacciata  i tempestosi  flutti. 

Dall’altra  parte  havvi  due  scogli:  l'uno  100 
Va  sino  agli  astri , e fosca  nube  il  cinge  , 

Nè  su  l’acuto  vertice,  l’estate 
Corra  , o l'autunno,  un  puro  ciel  mai  rìde. 
Montarvi  non  potrebbe  altri , o calarne , 
Venti  mani  movesse  e venti  piedi: 

Sì  liscio  è il  sasso  , e la  costa  superba. 

Nel  mezzo  vòlta  all'Occidente,  e all’Orco 
S’apre  oscura  caverna,  a cui  davanti 
Dovrai  ratto  passar  ; giovane  arciero , 

Che  dalla  nave  disfrenasse  il  dardo,  no 

Non  toccherebbe  l'incavato  speco. 

Scilla  ivi  alberga  , che  moleste  grida 
Di  mandar  non  rista.  La  costei  voce 
Altro  non  par  che  un  guajolar  perenne 
Di  lattante  cagnuol  : ma  Scilla  è atroce 
Mostro , e sino  ad  un  Dio , che  a lei  si  fesse, 
Non  mirerebbe  in  lei  senza  ribrezzo. 

Dodici  ha  piedi , anteriori  tutti , 

Sei  lunghissimi  colli , e su  ciascuno 
Spaventosa  una  testa  , e nelle  bocche  I2i> 
Dì  spessi  denti  un  triplicato  giro , 

£ la  morte  più  amara  in  ugni  dente. 

Con  la  metà  di  sè  nell’incavato 
Sp^co  profondo  ella  s’attufla , e fuori 


Sporge  le  teste , riguardando  intorno , 

Se  delfini  pescar , lupi , o alcun  puote 
Di  que'  mostri  maggior , che  a mille  a mille 
Chiude  Anfìtrite  ne'  suoi  gorghi , e nutre. 

Nè  mai  nocchieri  oltrepassaro  illesi  : 

Poiché  quante  apre  disoneste  bocche , i3o 
Tanti  dal  cavo  legno  uomini  invola. 

Men  l'altro  s’alza  contrapposto  scoglio  , 

E il  dardo  tuo  ne  colpiria  la  cima. 

Grande  verdeggia  in  questo , e d’ampie  foglie 
vSelvaggio  fico  j e alle  sue  falde  assorte 
La  temuta  Cariddi  il  negro  mare. 

Tre  fiate  il  rigetta , e tre  nel  giorno 
L’assorbe  orribilmente.  Or  tu  a Cariddi 
Non  t'accostar,  mentre  il  mar  negro  ioghiotte: 
Chè  mal  sapria  dalla  mina  estrema  140 

Nettuno  stesso  dilivrarti.  A Scilla 
rienti  vicino  , e rapido  trascorri. 

Perder  sei  de'compagiii  entro  la  nave 
Torna  più  assai , che  perir  tutti  a un  tempo. 

Tal  ragionava  ; ed  10  : Quando  m'avvegna 
Schivare , o Circe  , la  fatai  Cariddi  , 

Respinger , dimmi  il  ver , Scilla  non  deggio  , 
Che  gli  amici  a distruggermi  s'avventa  ? 

O sventurato,  rispondea  la  Diva , 

Dunoue  le  pugne  in  mente  ed  i travagli  i5o 
Rivolgi  ancor , nè  ceder  pensi  ai  Numi  ? 

Cosa  mortai  credi  tu  Scilla  ? Eterno 
Credila  , e duro  , e faticoso  , e immenso 
Male  , ed  inespugnabile,  da  cui 
Schermo  non  havvi , e cui  fuggir  fìa  il  meglio. 
Se  indugi,  e vesti  appo  lo  scoglio  Tarmi , 
Sbucherà , temo , ad  un  secondo  assalto  , 

R tanti  de’ compagni  un’altra  volta 
Ti  rapirà  , quante  spalanca  bocche. 

Vola  dunque  sul  pelago,  e la  madre  l6o 
Cratéi , che  al  mondo  generò  tal  peste , 

E ritenerla , che  a novella  preda 
Non  si  slanci , potrà , nel  corso  invoca. 

Allora  incontro  ti  verran  le  belle 
Spiagge  della  Trinacria  isola , dove 
Pasce  il  gregge  del  Sol , pasce  l’armento  : 

Sette  branche  di  buoi , d'agnelle  tanti , 

E dì  teste  cinquanta  i branchi  tutti. 

Non  cresce,  o scema , per  natale,  o morte  , 
Branco  ; e le  Dive  sono  i lor  pastori , 170 

Faetusa  e Lampezie  il  crin  ricciute, 

Che  partorì  d'iperione  al  figlio , 

Ninfe  leggiadre,  la  immortai  Neera. 

Come  l’augusta  madre  ambo  le  Ninfe 
Dopo  il  felice  parto  ebbe  nodrite  , 

A soggiornar  lungi  da  sè  mandolle 
Nella  Trinacria  ; e le  paterne  vacche 
Dalla  fronte  lunata , ed  i paterni 
Monton  lucenti  a custodir  lor  diede. 
Pascoleranno  iniat  J , e a voi  soltanto  180 
Calerà  del  ritorno?  il  suol  nativo. 

Non  però  senza  guai , fiavi  concesso. 

Ma  se  giovenca  molestate,  od  agna  , 

Sterminio  a te  predico  , e al  legno , e a*  tuoi. 

R pognam , che  tu  salvo  ancor  ne  andassi., 
Riederai  tardi , e a gran  fatica  , e solo. 

Disse  ; e sul  trono  d'or  l’Aurora  apparve. 

Circe,  non  molto  poi , da  me  rivolse 
Per  l'isola  ì suoi  passi  \ ed  io , trovata 
La  nave , a entrarvi , e a disnodar  la  fune,  190 


65 


LIBRO  DUODECIMO. 


Confortava  i compagni  ; ed  i compagni 
V'entraro  , e a’assidean  6U  i banchi , c asaisi 
Fean  co*  remi  nel  mar  spume  d’argento. 

].a  Dea  possente  ci  spedì  un  amico 
Vento  di  vela  gonHator , che  fido 
Per  l’ondoso  rammin  ne  accompagnava  : 

•St  che  , depo-Hti  nella  negra  nave 
Dalla  prora  cerulea  i lunghi  remi , , 

Sedevamo,  di  spingerri  e guidarci 
Lasciando  al  tjinonier  la  cura  , « al  vento.  300 

Qui , turbato  del  core  , Amici , io  dissi , 
Degno  mi  par  che  a tutti  voi  sia  conto 
Quel , che  predisse  a me  l’inclita  Circe. 

5^oltate  adunque  , acciocché  » tristo  o lieto, 
Non  ci  sorprenda  ignari  il  nostro  iato. 
Sfuggire  in  pria  delle  Sirene  il  verde 
Prato,  e la  voce  dilettosa  ingiunge. 

Vuole  ch’io  l’oda  io  sol  : ma  voi  diritto 

Me  della  nave  all’albero  legate 

Con  fune  sì,  ch’io  dar  non  pos^a  un  crollo;  310 

i!  dove  di  slegarmi  io  vi  pregassi 

Pur  con  le  ciglia  , o comandassi , voi 

Le  ritorte  doppiatemi  « ed  i lacci. 

Mentre  ciò  loro  io  discopria  , la  nave  , 

Che  area  da  poppa  il  vento,  in  picciol  tempo 
Delle  Sirene  aU’isula  pervenne. 

Là  il  vento  cadde,  ed  agguagliossi  il  mare, 

L i’onde  assonnò  un  demone.  1 compagni 
Si  levar  pronti , e ripiegar  le  vele, 

£ nella  nave  collocarle  : quindi  320 

Sedean  sui  banchi,  ed  imbiancavan  l’onde 
Co’  forti  remi  di  polito  abete, 
lo  la  duttile  cera , onde  una  tonda 
Tcnea  gran  mazza  , sminuzzai  con  destro 
Rame  afiìlato;  ed  i frammenti  n’iva 
Rivoltando  e premendo  in  fra  le  dita. 

Ké  a scaldarsi  tardò  la  molle  pasta  ; 

Perocché  lucidissimi  dall'alto 
Scoccava  i rai  d’Iperione  il  figlio. 

De’  compagni  incerai  senza  dimora  3.^0 

Le  orecciiie  di  mìa  mano  ; e quei  diritto 
Me  della  nave  all'albero  legare 
Con  fune  , i piè  stringendomi , e le  mani. 

Poi  su  ì banchi  adagiavansi  , e co’  remi 
Ratteano  il  mar,  che  ne  tornava  bianco. 

(ri,ì  , vogando  di  forza  , eravam  , quanto 
Corre  un  grido  dell’uomo,  alle  Srene 
Vicini.  Udito  il  flagellar  de’  remi , 

B non  lontana  amai  vista  la  nave, 

Un  dolce  canto  cominciaro  a sciorre:  340 

O molto  illustre  Ulisse,  o degli  Achei 
Somma  gloria  immortai,  su  via , qua  vieni , 
Ferma  la  nave,  e il  nostro  canto  ascolta. 
Nessun  passò  di  qua  su  negro  legno  , 

Che  non  udisse  pria  questa,  che  noi 
Dalle  labbra  mandiam  , voce  soave; 

Voce , che  inonda  di  diletto  il  core, 

R di  molto  saver  la  mente  abbella. 

Che  non  pur  ciò  , che  sopportare  a Troja 
Per  celeste  voler  Teucri  ed  Argivi , a5o 

Noi  conosciam  , ma  non  avvien  su  tutta 
La  delle  vite  serbatrire  terra 
Nulla,  che  ignoto  o scuro  a noi  rimanga. 

Così  cantaro.  Ed  lo  , porger  volendo 
Più  da  vicino  il  dilettato  orecchio  , 

Cenno  ai  compagni  fea  , che  ogui  legame 

ODISSEA 


Fosseini  rotto;  e quei  più  ancor  sul  remo 
Incurvavano  il  dorso,  e Feriinede 
Sorgea  ratto  , ed  Kuriloco  , e di  nuovi 
Nodi  ctiigeaiimi,  e mi  premean  più  ancora.  i6o 
Come  trascorsa  fu  tanto  la  nave  , 

Cile  noti  potea  la  perigliosa  voce 
Delle  Sirene  aggiungerci , coloro 
A sé  la  cera  dall’orecchie  tosto  , 

E dalle  membra  a me  tolsero  i larrl. 

Già  rimanea  l’isola  indietro  j ed  ecco 
Denso  apparirmi  un  fumo  e vasti  flutti , 

E gli  orecchi  intronarmi  alto  fragore. 

Ne  sbigottirò  i miei  compagni , e i lunghi 
itemi  ni  man  lor  caddero  , e la  nave , 370 

Che  de’  hdi  suoi  remi  era  tarpata  , 

Là  immantinente  s’arrestò.  I^Ia  io 
Di  su  , di  giù  per  la  corsia  movendo  , 

H con  blanda  favella  or  questo  , or  quello 
De’  compagni  abbordando , O , dissi , meco 
Sin  qua  passati  per  cotanti  aflàmii , 

Non  ci  sovrasta  un  maggior  mal,  che  quando 
L’iiinnìto  vigor  di  Folilemo 
Nell’antro  ci  chiudea.  Pur  quinci  ancora 
Col  valor  mio  vi  trassi , e col  mìo  senno  , 280 
K vi  ha  dolce  il  rimembrarlo  un  giorno. 

Via  , dunque,  via  , ciò  ch’io  comando  , tutti 
Facciam : voi,  stando  sovra  i banchi , i’onde 
Percotete  co’ remi , e Giove,  io  spero, 
Concedeià  dalle  correnti  scampo. 

Ma  tu  , che  il  timon  reggi , abbiti  in  mente 
Questo  , nè  l’obblìar  : guida  il  navìglio 
Fuor  dei  fumo  e del  fiotto  , ed  all’opposU 
Rupe  ngnur  mira  , e ad  essa  tienti,  o noi 
Getterai  nell’orribile  vorago.  ago 

Tutti  alla  voce  mia  ratto  ubbidirò. 

Se  non  ch’io  Scilla  , ìmmedicabii  piaga  , 

Tacqui , non  forse,  abbandonati  x banchi | 
L’un  sovra  l’altro  per  soverchia  tema 
Della  nave  racciassersi  nel  fondo. 

E qui , di  Circe , che  vletommi  l’arme , 

Negletto  il  disamabile  comando, 

lo  dell’arme  vestiami , e con  due  lunghe 

Nell’impavida  mano  aste  lucenti 

Salia  sul  palco  della  nave  in  prua  , 5oo 

Attendendo  colà  , che  Pefferata 

Abitatrice  dell'infame  scoglio 

I ndi , gli  nmici  a m’involar  , sbalzasse  ; 

Né  , perché  del  ficcarli  in  tutto  il  bruno 
Macigno  stanchi  io  mi  sentissi  gli  occhi , 

Da  parte  alcuna  rimirarla  io  vaisi. 

Navigammo  addolorati  intanto 

Per  l’angusto  sentier  : Scilla  da  un  lato  , 

Dall'altro  era  l’orribile  Cariddi , 

Che  del  mare  inghiottia  l’onde  spumose. 
Sempre  che  rigettavale,  siccome 
Caldaia  in  molto  rilucente  foco  , 

Mormorava  bollendo;  e i larghi  sprazzi, 

Che  andavan  sino  al  cielo,  in  vetia  d'ambo 
Gli  scogli  ricadevano.  Ma  quando 
I salsi  flutti  ringhiottiva  , tutta 
Commoveasi  di  dentr«» , ed  alla  rupe 
Terribilmente  rimbombava  intorno, 

K , l’onda  il  seno  aprendo , uii’azzurrigoa 
Sabbia  parrca  nell’imo  fondu:  verdi  320 
la;  guance  di  paura  a tutti  io  scòrsi. 

Mentre  in  Cariddi  tenevam  It:  ciglia, 

y 


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66  ODI 

Una  mortf  t^menflone  vicina  , 

Sci  de* compagni , i più  di  man  ga|(IÌardi, 
Scilla  rapimmi  dal  navìglio,  lo  gli  occhi 
Torsi,  e lì  vidi  che  levati  in  alto 
Braccia  e piedi  agitavano,  ed  Ulisse 
Chiamavan  , lassi  ! per  l'estrema  volta: 

Qual  pcscator  che  su  pendente  rupe 

Tuffa  di  bue  silvestre  in  mare  il  corno  35o 

Con  lunghissima  r.anna  , un’infedeio 

Bsca  ai  minuti  abitatori  offrendo  , 

£ fuor  li  trae  dell’onda  , e palpitanti 
Scagliali  sul  terren:  non  altrimenti 
Scilla  t compagni  dal  naviglio  alzava  , 

£ innanzi  divoravali  allo  speco  , 

Che  dolenti  mettean  grida  , e le  mani 
Nei  gran  disastro  mi  stendeauo  indarno. 

Fra  i molli  acerbi  casi , ond'io  sostenni 
Solcando  il  mar , la  vista  , oggetto  mai  34o 
B)  cotanta  pietà  non  mi  s'offerse. 

Scilla  e Cariddi  oltrepassate,  in  faccia 
La  feconda  cì  apparve  isola  amena  , 

Ove  il  gregge  del  Sol  pasce , e l'armento  ; 

£ ne  giungean  dall'ampie  stalle  a noi 
I belati  su  l'aure  ed  i muggiti. 

Gli  avvisi  aìlor  mi  si  svegliare  in  mente 
Bel  Tebsn  vate  e della  maga  Circe , ~ 

Ch’io  l'isola  schivar  del  Sol  dovessi , 

Di  cui  rallegra  ogni  vivente  il  raggio.  35o 
Ond'io  , Compagni , lor  dicea , per  quanto 
Siate  angosciati , la  sentenza  udite 
Bel  Teran  vate  e della  maga  Circe  , 

Ch’io  l’isola  schivar  debba  del  Sole, 

Bi  cui  rallegra  ogni  vivente  i)  raggio. 

Circe  affermava  che  il  maggior  de’  guai 
Quivi  c'incoglieria.  Lasciarla  indietro 
Ci  cuDvien  dunque  con  la  negra  nave. 

Colpo  taì  detti  fu  quasi  mortale. 

Nè  a molestarmi  Euriloco  in  tal  guisa  36o 
Tardava  : Ulisse  , un  barbaro  io  ti  chiamo. 
Perchè  di  forze  abbondi , e mai  non  cedi , 

Nè  fibra  è in  te  che  non  sìa  ferro  , a'  tuoi 
Contendi  il  toccar  terra , e di  non  parca 
Cena  sul  lido  ristorarsi.  Esìgi 
Che  in  mezzo  le  notturne  ombre  su  questo 
Pelago  a caso  erriani , benché  la  notte 
Gravi  produca  dis?istrosi  venti. 

Or  chi  fuggir  potrà  l’uUimo  danno , 

Bove  repente  un  procelloso  fiato  370 

Bi  Mezzodì  ci  assalga , o di  Ponente , 

Che , de’  Numi  anco  ad  onta , il  legno  sperda  ? 
S’obbedisca  oggi  alla  divina  notte  , 

£ la  cena  nell'isola  s’appresti. 

Come  il  dì  spunti , salirem  di  nuovo 
La  nave , e nell’immensa  onda  entreremo. 

Questa  favella  con  applauso  accolta 
Fu  dai  compagni  ad  una  ; e io  ben  m’avvidi 
Che  mali  un  Genio  prepotente  ordia. 

£iiriloco,  io  risposi,  oggimai  troppa,  38o 
Tutti  contra  ad  un  sol , forza  mi  fate. 

Giurate  almeno , e col  più  saldo  giuro  , 

Che  se  greggi  truviam  , troviamo  armenti , 
Non  sia  chi  , spìnto  da  stoltezza  iniqua  , 
Giovenca  mxiaa , o pecorella  offenda  ; 

Ma  tranquilli  di  ciò  pasteggerete , 

Che  in  don  vi  porse  la  benigna  Circe, 

Quelli  giuraro,  e non  sì  tosto  a fine 


S S E A 

L’inviolabll  giuro  ebber  condotto  , 

Che  la  nave  nel  porto  appo  una  fonte  Sqo 
Fermaro  , e ne  smontano , e lauta  cena 
Solertemente  appareerhiàr  sul  lido. 

Paga  delle  vivande  e de’  licori 
I.a  naturale  avidità  pungente, 

Risovveniansi  di  color  che  iScilla 
Dalla  misera  nave  alto  rapiti 
Vorossi,  e li  piangean  , finché  discese 
Su  gli  occhi  lagriroosi  il  dolce  sonno. 

Già  corsi  Bvea  del  suo  camroin  due  terzi 
La  notte  , e derhinavano  le  stelle  , 40O 

Quando  il  cinto  di  nembi  olimpio  Giove  ' 
Destò  un  gagliardo  , turbinoso  vento  , 

Che  la  terra  coverse , e il  mar  di  nubi , 

£ la  notte  di  cielo  a piombo  cadde. 

Ma  come  poi  l’oricrinita  Aurora 
Colorò  il  c:iel  con  le  rosate  dita  , 

Tirammo  a terra  il  legno,  e in  cavo  speco 
De’  seggi  ornato  delle  Ninfe,  ch'ivi 
I lor  balli  tessean  , Tintroduceramo. 

Subito  io  tutti  mi  raccolsi  intorno  , 410 

K , CompHgni , diss'io,  cibo  e bevanda 
Reslanci  ancor  nella  veloce  nave. 

Se  non  vogllam  perir,  lungi  , vedete, 

La  man  dal  gregge  e dairarniento  : al  tSole» 
Terribil  Din  , che  tutto  vede,  ed  ode , 

Pascono  i monton  pingui  e i bianchi  tori. 

Dissi } e acchetarsi  i generosi  petti. 

Per  un  intero  mese  Austro  giammai 
Di  spirar  non  restava  , e poscia  fiato 
Non  sorgea  mai,chedl  Levante  od' Austro.  430 
Finché  il  pan  non  fallì  loro , ed  il  vino  , 
Ubbidienti , e della  vita  avari , 

Risp<*ttavan  l’armento.  E già  la  nave 
Nulla  contcnea  più.  Givano  t^dunque. 

Come  il  bisogno  li  pnngea , dispersi 
Per  l'isola , d’augelli  e pesci  in  traccia  , 

Con  archi  ed  ami , o di  quale  altra  preda 
Lor  venisse  alle  man  ; però  che  forte 
Rodeali  dentro  l’importuna  fame. 

Io , dai  compagni  scevro , una  remota  45o 
C'arcai  del  piede  solitaria  piaggia  , 

Gli  Eterni  a supplicar , se  alcun  la  via 
Mi  dimostrasse  del  ritorno  ; e in  parte 
Giuntò  , che  d'aura  non  sentissi  colpo  • 

Sparsi  di  limpid'oiida , e a tutti  alzai 
Gli  abitanti  del  cielo  ambo  le  palme. 

Nè  guari  andò  , che  d’un  tranquillo  sonno 
Gli  occhi  ed  il  petto  riempièrmi  i Numi. 

Euriloco  frattanto  un  mal  consiglio 
Pose  innanzi  ai  compagni:  O da  sì  acerbe  440 
Sciagure  oppressi,  la  mia  voce  udite. 

Tutte  odiose  certo  ad  uom  le  morti  : 

Ma  nulla  tanto  , che  il  perir  di  fame. 

Che  più  sì  tarda  ? Menìam  via  le  belle 
Giovenche  , esagrifici  ai  Numi  ufifriamo. 

Chè  se  aS'errar  ci  smà  dato  i lidi 
Nativi , a)  Sole  Iperiono  un  ricco 
Tempio  illustre  alieremo  , appenderemo 
Multi  alle  mura  preziosi  doni. 

K dov’ei,  per  li  buoi  dalla  superba  45o 

Testa  crucciato,  sperder  voglia  il  legno  , 

Nè  alcun  Dio  ^li  contrasti  , io  tolgo  l'alma 
Pria  tra  i flutti  esalar  , che , su  deserta 
Isola  stando  , intiSichir  più  a lungo. 


67 


I.  I B R O D U 

Disse  ; e tutti  assentìano.  Incuntaneiite, 

Del  Sui  cacciate  le  più  belle  vacche 
Di  Irunte  larga  » e con  le  corna  in  arco  , 

Che  dalla  nave  non  pascean  lontane, 

Stavano  ad  esse  in  torno  ; e , tòlte  prima  , 

Per  diletto  che  avean  di  candid'orzo , 460 

Tenere  tòglie  dì  sublime  quercia  , 

Voti  leano  agli  Dei.  Curopìuti  i voti. 

Le  vittime  sgozzare,  e le  scojaro  , 

£ , le  cosce  tagliatone,  di  zirbo 
Le  coprirò  doppiate  , e ì crudi  broni 
Sopra  vi  collocaro.  Acqua  , che  il  rosso 
Viuo  scusasse  , onde  patian  disagio  , 

Versavan  poi  su  i sacrifici  ardenti , 

£ abbrostian  tutti  gl’intestini.  Quindi, 

Le  cosce  ornai  combuste , cd  assaggiate  47^ 
Le  interiora  , tutto  l’altro  in  pezzi 
Fu  messo,  e inlitto  negli  acuti  spiedi. 

E a me  usci  delle  ciglia  il  dolce  sonno. 

Sorsi , e alia  nave  in  Iretta  io  mi  condussi. 

^1a  vicina  del  tutto  ancor  non  m^era, 

Ch’io  mi  sentii  dall’avvarnpate  carni 
Muovere  incontro  un  odoroso  vento, 

£ gridai , lameutando  , ai  Numi  eterni  r 
O Giove  padre  , e voi , Dei  sempre  stanti , 
Certo  in  un  crudo  e latal  sonno  voi  480 

Mi  seppelliste , se  doveasi  intanto 
Compier  da  cotestoro  un  tal  misfatto. 

Nunzia  non  tarda  dell’ucciso  armento, 
Lampezie  al  Sole  andò  di  lungo  peplo 
Coperta.  Il  Sole  , in  grande  ira  montato  , 

Si  volse  ai  Numi , e , Giove  , disse , e voi 
Tutti,  immortali  Dei , paghino  il  fio 
Del  Laerzlade  Ulisse  i rei  compagni , 

Che  le  giovenche  trucidarmi  osaru, 

Della  cui  vista  , o ch’io  per  la  stellata  490 
Volta  salissi , o discendessi , nuovo 
Diletto  ciascun  di  prendea  il  mio  core. 

Colpa  e pena  in  lor  sia  d’una  misura  : 

O calerò  nella  magiou  di  Plutu  , 

£ al  popol  morto  porterò  mia  luce. 

£ il  iiìmbitero  Giove  a lui  rispose  : 

Tra  gl’immortali , o Sole , ed  i mortali 
Vibra  su  l’alma  terra  , e in  cielo  , i raggi. 

Io  senza  indugio  d’uii  sol  tocco  lieve 

Del  fulmine  allocato  il  Jor  naviglio  Soo 

Siracelierò  del  negro  mar  nel  seno. 

Queste  cose  Calipso  un  giorno  udia 
Dal  messaggìer  Mercurio  , e a me  narrolle 
Ea  ricciuta  il  bel  crin  Ninfa  Caiipso. 

Giunto  alla  nave,  io  rampognava  or  questo 
De’ compagni , ed  or  quel  : ma  violato 
L armento  fu,  nè  avea  compenso  il  male. 

Strani  prodigi  intanto  agl'infelici 
Mostravano  gl'iddìi  : le  fresche  pelli 
Strisciavau  sul  terren , mnggian  le  incotte  5io 
Carni  , e le  crude  , agli  schidoni  intorno , 

£ de'  buoi  lor  sembrava  udir  la  voce. 

Fur  del  fior  deirarmenlu  ancor  sei  giorni 
Si  cibaro  i colpevoli.  Comparsa 
La  settim’alba,  il  turbinoso  vento 
Siancossi  : e noi  ci  rimbarcammo,  e , alzato 
L’albero  prontamente,  e dispiegate 
Le  bianche  vele  , ci  mettemmo  in  mare. 

Di  vista  già  della  Trinacrìa  usciti , 

Altro  non  ci  apparta  che  il  cielo  e l'onda  , 5io 


O D E C I M O. 

Quando  Ì1  Saturnio  sul  veloce  legno 
Sospese  io  alto  una  cerulea  nube  , 

Sotto  cui  tutte  intenebràrsi  Tacque. 

I.a  nave  non  correa  che  un  tempo  breve  ; 
Poiché  ratto  uno  stridulo  Pooente, 

Infuriando  , imperversando,  venne 
Di  contra  , e ruppe  con  tremenda  buQa 
Le  due  funi  delTalbero  , che  a poppa 
C'idde  ; ed  antenne  in  uno  , e vele  e sarte 
Nella  sentina  scesero.  Percosse  53o 

L'alber,  cadendo  , al  timoniere  ìn  capo , 

K Possa  fracas^ógli  ; ed  et  da  poppa 
Saltò  nel  mar  , di  palombaro  iu  guisa , 

K cacciata  volò  dal  corpo  Palma. 

Ma  Giove  , che  tonalo  avea  più  volte , 

Scagliò  il  fulmine  suo  contro  la  nave  , 

Che  si  girò  , dal  fulmine  colpita 

Del  Saturnio,  e s’empif’o  di  zolfo  tutta. 

Tutti  fuor  ne  cascarono  i compagni , 

K ad  essa  intorno  Pondeggiaiite  sale  , 640 

Quai  corvi , li  portava  j e così  Giove 
Il  ritorno  togliea  loro  , e la  vita, 
lo  pel  naviglio  su  e giù  muvea  , 

Finché  gli  sciolse  la  tempesta  ì fianchi 
Dalla  carena  , che  rimase  inerme. 

Poi  la  base  dell'albero  Pirata 
Onda  schiantò  : ma  di  taurino  ciiojo 
[\  iveslidlo  una  striscia  , ed  io  con  questa 
L’albero  e la  carena  in  un  legai , 

E sopra  mi  v’assisi;  e tale  i veuti  55o 

Esiziali  mi  spingean  su  Tonde. 

Zefiro  a un  tratto  rallentò  la  rabbia  : 

Seiionchè  sopraggiuiise  un  Austro  in  fretta  , 
Che,  nujandomi  forte  , in  vèr  Cimddi 
Kicondur  mi  volea.  L'intera  notte 
Scorsi  su  i flutti  ; e col  novello  Sole 
r ra  la  grotta  dì  Scilla  , e la  currenta 
Mi  ritrovai  della  fatai  vorago  , 

Che  in  quel  punto  ìnghioiUa  le  salse  spume. 
Io,  slanciauaomi  in  alto,  a quel  selvaggio  56o 
.M'aggrappai  fico  eccelso  , e mi  v’attenni, 

Quai  vipistrello  ; chè  nè  dove  i piedi 
Fermar  , nè  come  ascendere  , io  sapea  , 

Tanto  eran  lungi  le  radici , e tanto 
Remoti  dalla  mano  i lunglii , immensi 
Rami , che  d’ombra  ricuprian  Cariddi. 

Là  dunque  iu  m’attenea  , bramando  sempre 

Che  rigettati  dall'orrendo  abisso 

Fosser  gii  avanzi  della  nave.  Al  fino 

Dopo  un  lungo  desio  vennero  a galla*  670 

Nella  stagion  che  il  giudicante  , sciolte 

Varie  di  caldi  giovani  contese  , 

Sorge  dal  foro , e per  cenar  s’avvla  , 

Dell'onde  uscirò  i sospirati  avanzi. 

Le  braccia  apersi  allora  , c mi  lasciai 
Giù  piombar  con  gran  tonfo  alPonde  in  mezzo, 
Non  lunge  da  que'  legni  j a cui  in’assisi 
DI  sopra , e delle  man  remi  io  mi  feci. 

Ma  degli  uomini  il  padre  e de'  Celesti 
Di  rivedermi  nnu  permise  a Scilla  ^ 6So 

Chè  toccata  sariami  orrida  morte. 

Per  nove  dì  mi  trabalzava  il  fiotto, 

E la  decima  notte  ì Dei  sul  lido 
Mi  gettar  delPOgigia  isola  , dove 
Caiipso  alberga  , la  divina  Ninfa, 

Che  raccoglieami  amica  , e in  molte  guise* 


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6S 


ODISSEA 

Mi  confortava.  Perchè  ciò  ti  narro?  I Le  odia  con  leco  la  tua  casta  donna  , 

Tki  cose , Alcinoo  illustre  , ieri  le  udivi , | E ciò  ridir , ch’io  dissi , a me  non  torna.  590 


LIBRO  DECIMOTERZO 


ARGOMENTO 

Naovi  regali  ad  Ulii*e.  Tutto  c collocato  nella  nave  , che  ad  Itaca  dee  condurlo.  Egli  s'accommiata  dal  re 
e c’iiulKirca.  1 Feaci  il  depongono  in  su  la  spiaggia,  mentre  doniita  j e al  lor  ritorno  Nettuno  couverte  in  pietra 
la  nave  loro.  DesUUisi , Ulisse  non  ricomwcc  la  patria  per  cagioo  d una  nebbia  , che  Fallade  gli  levò  iDt<»rao. 
QuesU  gli  appare  in  forma  di  pastorello  ; grinsegna , qu.*l  modo  dovrà  tenere  per  uccidere  i Proci  j e gli  suggerisce 
di  nascondere  in  uu  antro  vicino  i doni  che  i Feaci,  in  pirlcndo,  avean  lasciati  sulUdo.  Finalmente  il  trasforma 
in  vecchio  mendico,  acciocché  niuno  in  Itaca  il  riconosca. 


Statarsi  tutti  per  l’oscura  sala 
Taciti , immoti , e nel  diletto  assorti. 

Cust  al  fìiie  il  silenzio  Alciuuo  ruppe  : 

Poiché  alla  mia  venisti  alta , c di  rame 
Solido  c liscio  ediUcata  casa  , 

IMo  * Ulisse , non  cred’io  che  al  tuo  ritorno 
Voiide  t’agiteran  , comunque  afllitto 
T’abbia  sin  qui  co’ suoi  decreti  il  iato. 

Voi  tutti , che  votar  nel  mio  palagio 

T)el  serbato  ai  più  degni  ardente  vino  io 

Solete  1 nappi , ed  ascoltare  il  vate  , 

T’animo  a quel , ch’io  vi  dichiaro  , aprite. 

Te  vesti  e 1 oro  d’artiHcio  miro  , 

T ogni  altro  don  , che  de’  Feaci  i capi 
Pecaro  al  iorestier,  l’arca  pulita 
Già  nel  suo  grembo  accolse.  Or  d'iin  treppiede 
Anco  e d’uu’urna  il  presentiam  per  testa. 

Indi  farem  , che  tutta  in  questi  doni , 
l>i  cui  male  potremmo  al  grave  peso 
Kegger  noi  soli , la  città  concorra.  3u 

Ùisse;  e piacquero  i detti,  eal  proprioalbergu 
Ciascun , le  piume  a ri  trovar , si  volse. 

Ma  come  del  mattin  la  bella  figlia 
Aperse  il  ciel  con  le  rosate  dita 
Vèr  la  nave  aiirettavansi , portando 
li  bel , che  onora  l’iiom  , bronzo  loggiato. 

To  stesso  re  , ch’entrò  per  questo  in  nave  , 
Attentamente  sotto  i banchi  il  mise, 

Onde , mentre  daran  de’  remi  iu  acqua  , 

Tfoii  impedisse  alcun  de’Feacesi  3c> 

Giovani , e l’ofTendesse  urna  o treppiede. 

T'è  di  condursi  al  real  tetto,  dove 
Ta  men.«ia  gli  attendea , tardato  i prenci. 

Per  lor  u’Alcinoo  la  sacrata  possa 
tJn  bue  quel  giorno  uccise  al  ghirlandato 
Tàtre  nubi  Signor  deU'Universo. 

Arse  le  pingui  cosce  , un  prandio  lauto 
Celebran  iie'ameiite;  e il  venerato 
Dalla  gente  Demodoco , il  divino 
Camor,  percuote  la  sonante  cetra.  4o 

Ma  Ulisse  il  capo  alla  diurna  lampa 
Spesso  torcea , so  tramontasse  al  fine  ; 

Chè  il  ritorno  nel  cor  sempre  gli  stava. 

Quale  a villan , che  dalla  prima  luce 

Co’ negri  tori  e col  pesante  aratro  . 

Un  terreo  franse  riposato  e duro, 

Cade  gradito  il  Sole  iu  occidente  | 


Pel  desio  della  cena , a cui  s'avria 
Con  lo  ginocchia , che  gli  treman  sotto  j 
Tal  cadde  a Ulisse  in  occidente  il  Sole.  5o 
Tosto  agli  amanti  del  remar  Feaci, 

E al  re  più , che  ad  altrui , cosi  drizzossi  : 
Facciansi , Alcinoo,  i libamentì , e illeso 
Mandatemi  \ e gl’Iddii  vi  guardili  sempre. 
Tutti  ho  già  i miei  desir:  pronta  è la  scorta  , 
E della  nave  in  sen  giacciono  i doni , 

JJa  cui  vogliano  i Dei  che  prò  ini  vegna. 

I Vogliano  ancor  , che  in  Itaca  l’egregia 
Consorte  io  trovi , e i cari  amici  in  vita. 

Voi,  restandovi  qui , serbate  in  gioja  6o 
Quelle  , che  uniste  a voi , vergini  spose  , 

E i dolci  figli  che  ne  aveste:  i Numi 
V’ornin  d’ogni  virtù  , nè  possa  mai 

I di  vostri  turbar  pubblico  danno. 

^ Tacque} e applaudia  ciascuno,  e molto  instava 
5»i  compiacesse  allo  stranier  , da  cui 
Uscita  era  si  nobile  favella. 

Ed  Alcinoo  all’araldo  allor  taì  detti: 

Fontonoo , il  vino  mesci , « a tutti  in  giro 
Porgilo,  acciò  da  noi,  pregato  Giove,  yo 
S’accommiati  oggimai  l'ospite  amico. 

Mescè  l’araldo  il  vino , e il  porse  in  giro } 

E tutti  dai  lor  seggi  agl’immortali 
Numi  libare.  Ma  il  divino  Ulisse  , 

Sorse,  e d’Arete  in  man  gemina  pose 
Tazza  rotonda , e tai  parole  sciolse  : 

Vivi  felici  dì,  regina  illustre  , 

Finche  vecchiezza  li  sorprenda  , e morte  , 
Comun  retaggio  degli  umani.  Io  parto  : 

Te  del  popol,  de’figli  e del  marito  8o 

II  rlspesto  feliciti  e l’amore. 

Disse,  e varcò  la  soglia.  Alcinoo  innanzi 
Muover  gli  fece  il  banditor,  che  al  ratto 
Legno  il  guidasse  e al  mare;  e Arete  dietro 
Tre  serve  gli  spedì , l’uiia  con  tersa 
Tunica  in  mano,  ed  un  lucente  manto  . 

L’altra  con  la  fedele  arca  , e con  bianchi 
Pani  la  terza,  e rosseggianti  vini. 

Tutto  da  lor,  come  sul  lido  furo, 

I remiganti  tolsero  , e nel  fondo  no 

Della  nave  allogar  ; poi  su  la  poppa 
Steser  candidi  lini  e bella. coltre , 

Dove  tranquillo  il  forcstier  dormisse. 

Vi  montò  egli , e tacito  corcussì, 


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69 


LIBRO  DECIMOTEIIZO. 


E qui  sedean  su  i banchi , e,  poiché  sciolta 
Dal  traforato  sasso  ebber  la  fune  , 

Faljgavan  co’  remi  il  mar  canuto. 

Ma  un  dolce  tonno  al  Laerziadc , un  sonno 

Profondo  , ineccitabile  , e alla  nuu  te 

Per  poco  epual  , su  le  palpebre  scese.  loo 

Come  talvolta  in  polveroso  campo  ^ 

Quattro  maschi  destrieri  a un  cocchip  aggiunti, 
E tutti  dal  flagel  percossi  a un  tempo, 

Sembrai!  levarsi  nel  voto  aere  in  alto, 

E la  proscritta  via  compier  volando: 

Si  la  nave  correa  con  aita  poppa , 

Dietro  da  cui  prccinilava  il  grosso 
Del  risonante  mar  flutto  cilestro. 

Correa  sicura  , nè  l’avria  sparviere  , | 

Degli  augei  velocissimo  , raggiunta  , ilo  j 

Con  si  celere  prora  i salsi  flutti  ^ , 

Solcava  , un  uom  seco  recando  ai  Dii 
Pari  di  senno,  che  ìiirmiti  adanni 
Durati  avea  tra  Tarmi , avea  tra  Tonde  , 

E allur  , d’ubblto  sparsa  ogni  cura  , in  braccio 
D’un  sonno  placidissimo  giacea. 

Quando  comparve  quel  si  fulgid’astro , 

Che  della  rosea  Aurora  è raesjisggiero, 

La  ratta  nave  ad  Itaca  approdava. 

Il  porto  è qui  del  marin  vecchio  Forco,  120 
Che  due  sporgenti  in  mar  lidi  scoscesi, 

E Tuno  alTaliro  ripieganti  incontra, 

Sì  dal  vento  riparano  e dal  fiotto, 

Che  dì  fune  raestier  non  v'han  le  navi. 

Spande  sovra  la  cima  ì larghi  rami 
Vivace  oliva  , e presso  a questa  un  antro 
S’apre  amabile  , oDaco,  ed  alle  Ninfe 
Ka)adi  sacro.  Anmrc  ed  urne,  in  cui 
Forma»  le  iuduslri  pecchie  il  inel  soave, 

Vi  SOI!  di  marmo  tutte,  e pur  di  marmo  ’3o 
Lunghi  telai , dove  purpurei  drappi, 
Maraviglia  a veder,  tesson  le  Nini'e. 

Perenni  onde  vi  scorrono  , c due  porte 
Mettono  ad  esso:  ad  Aquìlon  si  volge 
L’una  , c schludesi  aìl’uom  } l'altra  , che  Noto 
Guarda,  ha  più  del  divino , ed  un  mortale 
Per  lei  non  varca  : ella  è la  via  de’  Numi. 

II!  questo  porto  ai  Feacesi  conto 
l.lirittameiite  entiò  l’agile  nave  , 

Che  sul  lido  andò  mez2a  : di  sì  forti  140 

Remigatori  la  spingeaii  le  braccia  ! 

Si  gittaro  nel  lido  ; e Ulisse  in  prima 
Culbianchi  lini  e con  la  bella  coltro 
Sollevar  dalla  nave,  e seppellito 
Nel  sonno  , siccom'era  , in  su  Tarena 
Pose  rio  giù.  Poi  ne  levare  i doni , 

Ch’ei  riportò  dalla  Feacia  gente 
Per  favor  di  Minerva  , e al  piede  uniti 
Li  collocaro  della  verde  oliva  , 

Fuor  del  cammin  , non  s’avvenisse  in  loro  i5o 
Viandante,  e la  man  su  lor  mettesse, 

Mentre  l'eroe  dormia.  Quindi  ritorno 
Fean  con  la  nave  alla  natia  contrada. 

Nettuno  intanto , che  serbava  in  mento 
Le  minacce  che  un  dì  contra  il  divino 
Laerzìade  scagliò , cosi  il  pensiero 
Ne  spiava  di  Giove  : O Giove  padre  , 

Chi  più  tra  1 Dei  m’onorerà,  se  onore 

Nieganmi  ì Fear.esl , che  mortali 

^ono , e a me  dvoa  Turigine  ? lu  credea  iflo 


Che  della  sua  nativa  isola  ai  sassi 
Giunger  dovesse  tra  gli  aHanni  Ulisse, 

Cui  nuu  invidiava  io  quel  ritorno* 

Che  tu  gli  promettesti , e d^l  tuo  capo 
Confermasti  cui  cenno.  Ma  i Fi  aci 
Dormendo  il  traspoitàr  su  ratta  nave  , 

E in  Itaca  il  deposero  , e il  colniaro 
Di  doni  in  bronzo,  e in  oro,  e in  bei  tessati: 
Ricchezza  immensa  , c qual  dall'arsa  Troja 
Recato  ei  non  avria  , se  con  la  preda,  I70 
Che  gli  toccò  , ne  ritornava  illeso. 

O della  terra  srijotilor  possente, 

Il  nubiadunator  Giove  rispose  , 

Qual  parola  parlasti  ? Alcun  de'  Numi 
Te  in  dispregio  non  ha  , nè  lieve  fóra 
Dispregiar  Dio  sì  poderoso  e antico. 

Ma  dove  uom  troppo  di  sue  forze  altero 
T’osasse  ingiuriar  , tu  ne  puoi  sempre  , 

Qiial  più  t'aggradirà  , prender  vendetta. 

Mi  starei  forse  , o nubipadre  Giove,  180 
Neltun  riprese  , s'io  dal  tuo  cornirrio 
Non  mi  guardassi  ognora  ? Io  de'  Feaci , 

Perchè  di  ricoudur  gli  ospiti  il  vezzo 
Perdano  al  Hn  , strugger  vorrei  nel  mare 
L'inclita  nave  ritornante  ; e in  oltre 
Grande  alla  lor  città  montagna  Imporre. 

Ciò  , replicava  il  Nubipadre,  il  meglio  , 
Ottimo  Nume , anco  a me  sembra  : quando 
I Fcacesi  scorgerai!  dal  lido 
Venir  la  nave  a tutto  corso  , e poco  190 

Sarà  lontana,  convertirla  in  sasso  , 

Che  di  naviglio  abbia  sembianza,  e oggetto 
Si  mostri  a ognun  di  maraviglia  ; e in  oltre 
Grande  alla  lor  città  montagna  imporre. 

Lo  Scuutiterra  , udito  questo  appena  , 

Si  portò  a Scheria  in  fretta  , e qui  leruiossi. 

Ed  ecco  spinta  dagl’illustri  remi 
Su  per  Tonde  venir  l'agile  nave. 

Egli  àppressulla  , e convertilla  in  sasso  , 

E d’un  sol  tocco  della  man  divina  2ou 

La  radicò  nel  fondo.  Indi  scomparve. 

Molte  allor  de'  Feaci  in  mar  famosi 
Fiir  le  alterne  parole.  Ahi  chi  nel  mare 
Legò  la  nave  , che  vèr  noi  solcava 
L'acqiie  di  volo,  e che-apparia  già  tutta  ? 

Così  , gli  ocelli  volgendo  al  suo  vicino, 
Favellava  talun  ; ma  rìmaiiea 
La  cagion  del  portento  a tutti  ignota. 

Se  non  che  Alcinoo  a ragionar  tra  loro 
Prese  in  tal  foggia:  Oh  Dri!  còl  lo  io  mi  veggo,  a 10 
Qual  dubbio  v’ha?  dai  vaticiuiì  antichi 
Del  padre  : che  dicea , come  sdegnato 
Netlun  fosse  con  noi , perchè  securo 
Ricondticiam  su  l’acque  ogni  mortale. 

Dicea , che  insigne  de’  Feaci  nave  , 

Dagli  altrui  nel  redirc  ai  porti  suoi , 
Distruggerla  iieli’oscure  onde  , e questa 
Ciltade  coprirla  d’alta  montagna. 

Così  arringava  il  vecchio  , ed  oggi  il  tutto 
Si  compie.  Or  via  , sotiomettiainci  ognuno:  220 
Dai  riumdur  cessiam  gli  ospiti  nostri , 

E dodici  a Nettuno  eletti  tori 
Sagrìfichìam  , perchè  di  noi  gl’iiicresca, 

Nè  d’alto  monte  la  cttià  ricuopra. 

Disse.  Penetrò  in  quelli  uii  timor  sacro , 

E i corjiigei  i tori  apparccchiaru. 


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ODISSEA 


70 

Mentre  intorno  alValtar  prìeghi  a Nettuno 
Driuavan  della  Scherìa  i Duci  e i Capi^ 
Stregliossi  il  pari  agl’immortali  Ulisse, 

Che  su  la  terra  sua  dormia  disteso , a3o 
Nè  la  sua  terra  riconobbe  ; stato 
N'era  iungc  gran  tempo , e Palla  cinto 
Ij’avea  di  nebbia , per  celarlo  altrui , 

E di  quanto  è mestier  dargli  contezza  , 

Sì  che  la  moglie,  t cittadin , gli  amici 
Noi  rav^TÌsin , che  pria  de’  tristi  Proci 
Fatto  ei  non  abbia  universal  macello* 

Quindi  ogni  cosa  gli  parea  mutata  , 

Le  lunghe  strade  , i ben  ditesi  porti , 

£ le  ombrose  foreste , e Talte  rupi.  >4o 

Sguardò  termo  su  i piè  la  patria  ignota, 

Poi  non  tenne  le  lagrime , e la  mano 
Battè  su  l’anca,  e lagrimando  disse  : 

Misero  ! tra  qual  nuova  , estrania  gente 
Sono  io  ? Chi  sa  , se  nequitosa  e cruda , 

O giusta  in  vece  , ed  ospitale  e pia  ? 

Ove  questa  recar  nrolta  ricchezza  , 

Ove  ire  io  stesso  ? Oh  nella  Scherìa  fosse 
Kimasta  , ed  io  giunto  all’eccelsa  casa 
D’altro  signor  magnanimo , che  accolto  nSo 
Dolcemente  m’avesse , e rimandato 
Securamente  ! lo  dove  porla  ignoro  , 

Nè  lasciarla  vo’  qui , che  altri  la  involi. 

Men  che  saggi  eran  dunque , e men  che  probi 
De’Feacesi  i Condottieri  e i Capi, 

Che  non  alla  serena  Itaca , come 

Dicean , ma  in  questa  sconosciuta  piaggia 

Coudur  mi  fèru.  Li  punisca  Giove 

D-.;’  supplici  custode  , a cui  nessuno 

Celasi , e che  non  lascia  inulto  un  fallo.  360 

Queste  ricchezze  noveriam  , reggiamo , 

Se  via  non  ne  portò  nulla  la  nave. 

Dette  tai  cose  , i trìpodi  superbi 
Contava , e l’urne , e l’oro , e le  tessute 
Vesti  leggiadre;  e non  falliaglì  nulla. 

Ma  la  sua  patria  sospirava  , e molti 
Lun^o  il  lido  del  mar  romoreggiante 
Passi  e lamenti  fca.  Pallade  allora, 

Di  pastorello  delicato  in  forma  , 

Quale  un  figlio  di  re  mostrasi  al  guardo,  270 
S’utlèrse  a lui  : doppia  e ben  fatta  veste 
Avea  d’intorno  agli  omeri , calzari 
Sotto  i piè  molli , e nella  destra  un  dardo. 
Gioì  Ulisse  a mirarla  , e incontanente 
Le  mosse  incontro  con  tai  detti  : Amico , 

Che  qui  primiero  ini  t’aOacci , salve. 

Deh  non  mi  t’aQacciar  con  alma  ostile  : 

Ma  questi  beni  e me  serba , che  abbraccio 
X.e  tue  ginocchia  » e te , qual  Nume  , invoco. 
Che  terra  è questa?  che  città?  che  gente?  2do 
Una  dell’ondicintc  isole  forse? 

O di  fecondo  continente  spiaggia  , 

Che  scende  in  sino  al  mar  ? Schietto  favella. 

Stolto  sei  bene , o di  lontan  venisti , 

La  Dea  rispose  dall’azzurro  sguardo, 

Se  di  questa  contrada  , ospite  , chiedi. 

Cui  non  è nota  ? La  conosce  appieno 
Qual  ver  l’Aurora  , e il  Sol , qual  vèr  l’oscura 
Notte  soggiorna.  Àlpestra  sorge  , e male 
Vi  si  cavalca  , nè  si  stende  assai.  390 

Sterile  non  però  torna  : di  grano 
Kisponde,  e d'uva  , e la  rugiada  sempre 


Bagnala  , e il  nembo  : ottimo  pasco  i buoi , 

£ le  capre  vi  trovano , verdeggia  « 

D’ogni  pianta , e perenne  acqua  l’irriga. 

Sin  d’ilio  ai  campi , che  dal  suolo  Acheo  , 

Come  sentii  narrar  , molto  distanno, 

D’Itaca  giunge , o forestiero , il  nome. 

Al  nopie  della  patria  , che  su  i labbri 
Dell’immortal  sonò  figlia  di  Giove,  3oo 

S’empiè  di  gioja  il  Laerziade , e tardo 
A risponder  non  fu  , benché  , volgendo 
Nel  suo  cor  sempre  gli  artifici  usali , 

Contraria  al  vero  una  novella  ordisse. 

Io  già  d’itaca  udia  nell’ampia  Creta  , 

Che  lungi  nel  mar  giace  , e donde  io  veoni , 
Metà  recando  de’  miei  beni,  e ai  figli 
Lasciandone  metà.  Di  Creta  io  fuggo , 

Perchè  vi  uccisi  Orsiloco,  il  diletto 
D’Idomenéo  lìgliuul , da  cui  nel  corso  3io 
Uom  non  era  colà  che  non  perdesse. 

Costui  di  tutta  la  Trojana  preda  , 

Che  tanti  in  mezzo all’onde,  in  mezzo  all’armo, 
Travagli  mi  costò,  volea  fraudarmi , 

Sdegnato,  ch’io  d’altri  guerrieri  duce 
Sotto  il  padre  di  lui  servir  negassi. 

In  quel  ch’ei  nella  strada  uscia  dal  campo, 

Gli  tesi  insidie  con  un  mio  compagno, 

£ di  lancia  il  ferii.  Notte  assai  fosca 
L’aere  ingombrava,  c,  non  che  agli  altri,  a lui. 
Che  di  vita  lo  spogliai , rimasi  occulto.  320 
Trovai  sul  lido  una  Fenìcia  nave, 

£ a quegrillustri  naviganti  ricca 
Mercede  offersi , e li  pregai  che  in  Pilo 
Mi  ponessero  . o in  Elide  divina  , 

Dominio  degli  £pèi.  Se  non  che  il  vento 
Indi  gli  svolse,  e forte  a ior  mal  cuore; 

Chè  inganni  non  pensavano.  Venimmo, 
Notturni  errando  , a questa  piaggia  , e a forza 
Di  remi,  e con  gran  stento,  in  porlo  entrammo. 
Nè  della  cena  favellossi  punto,  33o 

Benché  ciascuno  in  grande  uopo  ne  fosse  ; 

Ma  , del  naviglio  alfa  rinfusa  usciti , 

Gìacevam  su  l’arena.  Ivi  un  tranquillo 
Sonno  me  stanco  invase  ; e quei , levate 
Dalla  nave  , e deposte  , ov’io  giacca  , 

Le  mie  ricchezze,  in  vèr  la  popolosa 
Sidone  andaro  , e me  lasciar  nel  duolo. 

Sorrise  a questo  la  degli  occhi  azzurra  , 

E con  man  careggìollo  ; e uguale  a donna  54o 
Bella  , di  gran  sembiante , e di  famosi 
Lavori  esperta  , in  un  momento  apparve, 

£ a così  fatti  accenti  il  volo  sciolse  : 

Certo  sagace  anco  tra  i Numi , e solo 
Colui  saria,  che  d’ingannar  nell’arte 
Te  superasse!  Sciagurato  , scaltro  , 

Di  frodi  insaziabile  , non  cessi 
Dunque  nè  in  patria  dai  fallaci  detti , 

Che  ti  piaccion  così  sin  dalla  culla  ? 

Mudi  questo  non  più:  che  d’astuzie  ambo  55o 
Maestri  siam  : tu  di  gran  lunga  tutti 
D'inventive  i mortali , e di  parole 
Sorpassi  ; tutti  io  di  gran  lunga  i Numi. 
Dunque  la  figlia  ravvisar  di  Giove 
Tu  non  sapesti , che  a te  assisto  sempre 
Nelle  tue  provo  , e te  conservo,  e grazia 
Ti  fei  trovare  appo  i Feaci?  E or  venni 
1 Ter  amiuonirti,  c per  celate  i fatti 


oogic 


LIBRO  DECIMOTERZO. 


Col  mìo  soccorso  a te  splendidi  doni , 

Non  che  narrarti  ciò  , che  per  dentino  36o 
Nel  tuo  palagio  a sopportar  ti  resta. 

Tu  soiTrì,  benché  astretto,  e ad  uomo  o a donna 
L’arrivo  tuo  non  palesar  ; ma  tieni 
Chiusi  nel  petto  i tuoi  dolori , e solo 
Col  silenzio  rispondi  a chi  t’oltraggia. 

E tosto  il  ricco  di  conaigli  Ulisse  : 
Difiicilmente  , u Dea  , può  ravvisarti 
Mortai , cui  t’appresenti , ancor  che  saggio, 
Tante  forme  rivesti.  Io  ben  rammento 
Che  visitar  tu  mi  degnavi  un  giorno  , 370 

Mentre  noi , figli  degli  Achivi , a Troja 
Combattevam  : ma  poiché  l’alte  torri 
Kuinammo  di  Priamo , e su  le  navi 
Partimmo  , e un  Dio  l’Achiva  oste  disperse. 
Più  non  ti  scòrsi,  o del  Tonante  figlia, 

Nè  m’avvidi  unnua,  che  m’entrasai  in  nave, 
Per  cavarmi  d’alianno.  Abbandonato 
Solo  a me  stesso , e afflitto  io  già  vagando  , 
Pinchè  pria  , che  il  tuo  labbro  in  tra  i Feaci 
Mi  contortasse , e nella  lor  cìttade  58o 

M'introducessi  tu  , le  mie  sventure 
<Trjmmortali  finirò.  Ora  io  ti  priego 
Pel  tuo  gran  padre , quando  in  terra  estrana , 
Non  nella  patria  mia  , crederai , e temo , 

Che  tu  dì  me  prender  ti  voglia  gioco , 

Ti  priego  dirmi , o Dea  , se  veramente 
Degli  occhi  Itaca  io  veggio , e del  piè  calco. 

È la  Dea  che  rivolge  azzurri  i lumi  : 

Tu  mai  te  stesso  non  ubblii.  Quind’io 

Non  posso  ai  mali  abbandonarti  in  preda;  390 

Tal  mostri  ingegno  , tal  facondia  e senno. 

Altri , die  dopo  error  molti  giungesse , 

Sposa  e figli  mirar  vorria  reprnte  ; 

E a te  nulla  sapere , o chieder  piace. 

Se  con  gran  cura  non  assaggi  e fenli 
Prima  la  tua , che  invan  t’aspetta  , e a cut 
S<‘orron  nel  pianto  ì di,  scorron  le  notti. 
Dubbio  io  non  ebbi  mai  del  tuo  ritorno, 
Benché  ritorno  solitario  c tristo  : 

Se  non  che  al  zio  Netiun  con  te  crucciato 
Dell’occhio  che  spegnesti  al  tìglio  in  fronte, 
Repugnar  non  volca.  Ma  orti  mostro 
.D’itaca  il  sito  , e a credermi  io  ti  sforzo. 

Ecco  il  porto  di  Forcine,  e la  verde 
Frondosa  oliva  che  gli  sorge  in  cima. 

Ecco  non  lunge  l’opaco  antro  ameno. 

Alle  Najadi  sacro  : la  convessa 

Spelonca  vasta  riconosci , dove 

Ecatombi  legittime  alle  Ninfe 

Sagrificar  solevi.  Ecco  il  sublime  410 

Nerito  monte  , che  di  selve  ondeggia 

Disse  , e ruppe  la  nebbia  , e il  sito  apparve. 
Giubbilò  Ulisse  alla  diletta  vista  1 

Della  sua  patria,  e baciò  l’alma  terra* 

Poi , levando  le  man  , subitamente 
Le  Ninfe  supplicò:  Nàjadi  Ninfe, 

Non  credea  rivedervi , e con  devote 
Labbra  in  vece  io  salatovi , o di  Giove 
Nate , a cui  doni  purgerem  novelli , 

Se  me  in  vita  conserva,  e dì  felici  ì^2o 

A Telemaco  mio  concede  amica 
La  bellicosa  del  Saturnio  figlia. 

Ti  rassicura , e non  temer  , riprese 
La  Dea  dagli  occhi  di  celestro  tinti , 


7» 

Che  d’ajuto  io  ti  manchi.  Or  senza  indugio 
Nel  cavo  sen  della  divina  grotta , 

Su  via , poniam  queste  ricchezze  in  salvo  , 

£ di  ciò  consultiam  che  più  ti  torna. 

Tacque  , ed  entrava  nella  grotta  oscura  , 

Le  ascosaglie  cercandone  ; ed  Ulisse,  43o 
L’oro  ed  il  bronzo  , e le  superbe  vesti 
Portando  , la  scguia.  Tutto  depose 
Acconciamente  deil’Egioco  Giove 
La  figlia  , e lantro  d’un  macigno  chiuse. 

Ciò  latto  , al  piè  della  sacrata  oliva 
Ambi  sedendo,  e investigando  l’arte 
Di  tor  di  mezzo  ì temerarii  Proci , 

Cosi  a parlar  la  prima  era  Minerva  : 

Studiar  cuiivienti , o Laerziade , come 
Metter  la  man  su  gli  arroganti  drudi , 440 

Che  regnano  in  tua  casa  , uggì  è terz’anno  , 

£ della  moglie  tua  con  ricchi  doni 
Chiedono  a gara  le  bramate  nozze. 

Ella  , ognor  sospirando  il  tuo  ritorno , 

Ciascun  di  speme  e d’impromesse  alletta  , 
Manda  messaggi  a tutti , ed  altro  ha  in  cure. 

Ah  ! dunque  , le  rispose  il  saggio  Ulisse , 

Me  dell’Atride  Agamennón  l’acerbo 
Fato  atteiidea  nelle  paterne  case, 

Se  il  tutto , inclita  Dea  , tu  non  m’aprivi.  4$o 
Ma  tu  la  via  , che  a vendicarmi  io  prenda  , 
M’uddita , e a me  soccorri , e quell’audace 
Spirto  m'infondi , che  accendeami , quando 
Stemmo  di  Troja  le  famose  mura. 

Mi  starai  tu  del  pari  al  fianco  sempre  ? 

10  pugnar  con  trecento  allor  non  temo. 
Sempre  al  fianco  m’avrai , non  m’uscirai , 

La  Dea  riprese  dalle  glauche  luci , 

Di  vista  un  sol  momento  in  questa  impresa. 
Questi  superbì  , che  le  tue  sostanze  460 

Mandano  a male  , imbratteran  di  sangue 
L’immenso  pavimento  , e di  cervella. 

Ma  io  cosi  vo’  trasformarti  ; Ulisse , 

Che  riconoscer  non  ti  possa  uom  vivo. 

Cotcsta  liscia , ed  ancor  fresca  pelle , 

Che  le  membra  flessibili  ti  cuopre, 

Disseccherò  , raggrinzerò  ; di  biondo 
Nulla  ti  rimarrà  sovra  la  testa  , 

£ te  cìrconderan  mìseri  panni  , 

Da  cui  lo  Sguardo  di  ciascun  rifugga.  4?^ 

011  occhi  poi  si  belli  ora , e si  vivaci , 

Saran  si  oscuri , e avran  lai  pieghe  intorno  , 
Che  turpe  ai  Proci , e alla  tua  donna  e al  figlio. 
Cui  lasciasti  bambiti , cosa  parrai. 

Tu  prima  cerca  de’  tuoi  pingui  verri 
Il  fido  guardian , che  t’ama , ed  ama 
Telemaco , ama  la  tua  saggia  donna. 

Il  troverai,  che  guarderà  la  nera 
Greggia  che  beve  d'Arclusa  al  fonte, 

£ alla  pietra  del  Corvo  addenta , e rompe  4^ 
La  dolce  ghianda,  per  la  cui  vìrlude 
Il  florido  sul  dosso  adipe  cresce. 

Quivi  ti  ferma  , ed  al  suo  fianco  assiso 
D'ocni  cosa  il  richiedi;  cd  io  frattanto 
Andrò  alla  bella  nelle  donne  Sparta  , 

In  traccia  del  figlitiol , che  vi  s’addusse. 

Onde  saper  di  te  dal  bellicoso 
Menelao  biondo  , e udir , se  vivi,  c dove. 

Perchè  non  dirgliel  tu  , cui  noto  è il  tutto  ? 
Rispose  il  ricco  di  consigli  Ulisse, 


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O D I S S E A 


7* 

Forse  perchVi  su  rinferondu  mar«» 

Tormenti  errando  , come  il  padre  , e intanto 
Le  sue  sostanze  a male  altri  gli  mandi? 

Ciò  non  t'aHligga  , ripigliò  la  Dea 
Che  cilestre  in  aitrui  le  luci  intende, 
lo  stessa , nome  ad  acquistarsi  e grido  , 

Già  l'inviava  là  , 've  niilla  il  turba  : 

Là  , 've  tranquillo  , e d’ogni  cosa  agiato  , 

Nel  regai  siede  dcll'Atride  albergo. 

So  ben  che  agguati  in  nave  negra  i Proci  Òoo 
Tendergli  , draiando  a lui  dar  morte 
Pria  ch’ei  tomi;  ma  invan  : chè  anzi , lui  vivo, 
Coprirà  i suoi  nemici , e tuoi , la  terra. 

Disse  Minerva  , e della  sua  potente 
Verga  l'eroe  toccò.  S'inaridisce 
La  molle  cute , e si  riiicrespa;  rari 


Spuntano  » e bianchi  su  la  testa  I crini  ; 

Tutta  d'un  vecchio  la  persona  ei  prende 
Rotto  dagli  anni , e stanco  ; e foschi , estinti 
Son  gli  occhi,  in  che  un  diviii  foco  brillava.  5 io 
Tunica  trista , e mala  cappa  in  dosso 
L’amica  Dea  cacciógli , ambo  squarciate  , 
Discolorate  , affumicate  e sozze  j 
Siipra  gli  vestì  ancor  di  ratto  cervo 
Un  gran  cuojo  spelato  , e nella  destra 
Pose  bastone  : ed  una  vii  bi-saccia  , 

Che  in  più  luoghi  s'aprìa  , per  una  torta 
Coreggia  antica  agli  omeri  sospese. 

Preso  il  consiglio  che  più  acconcio  parve  ♦ 
L'un  dall’altro  staccarsi  ; e alla  divina  Ò20 
Sparta  f del  figlio  in  traccia  , andò  Minerva. 


LIBRO  DECIMOQUARTO 


ARGOMENTO 

TJlisse  friuDge  alla  casa  d’EumÀ).  Condizione  in  cut  trovasi  questo  buon  servo  , accoglienza  ch’ei  fa  al  «uo 
padrone  senza  conuscerlo,  e colloquio  che  bauoo  tra  loro.  Ulisse  fìnge  d'esser  di  Greti , e racconta  le  sue  falsi* 
avventure.  Sag^'idziod’Euméo , e cena.  Sopravvenuta  itua  notte  fredda  e tempestosa,  Ulisse  con  altra  finta  novella 
ottiene  un  manto  dal  servo  ; e questi  va  a coricarsi  sotto  una  spelonca  in  guardia  delle  sue  maodrc. 


Eji  , la  riva  lasciata  , entrò  in  un’aspra 
Strada , c per  gioghi  e per  silvestri  lochi , 

Là  si  rivolse , dove  Palla  móstro 

Gli  avea  l’inclito  Kuméo , di  cui  fra  tutti 

D’Ulisse  i miglior  servi  alcun  non  era  , 

Che  i beni  delpadrou  meglio  guardasse. 
Trovollo  assiso  nella  prima  entrata 
D'un  ampio  e bello  ed  altamente  estratto 
Becinto  a un  colle  solitario  in  cima. 

Il  fabbricava  Euméo  con  pietre  tolte  io 

Da  una  cava  propinqua,  e mentre  lungi 
Stavasi  Ulisse,  esenz’alcun  dal  veglio 
Laerte  , o de  Penelope  , soccorso: 

D'un’irta  siepe  ricingealo , e folti 
Di  bruna  , che  spezzò , quercia  scorzata 
Pali  frequenti  vi  piantava  intorno. 

Dodici  v’eran  dentro  una  appo  l'altra 
Comode  stalle , che  cinquanta  a fiera 
Madri  feconde  ricevean  ciascuna. 

I maschi  dormìan  fuor  ; molto  più  scarsi , 3o 
Perchè  scemati  dall'ingordo  dente 
De’Proci , a cui  mandar  sempre  dovea 
L'ottimo  della  greggia  il  buon  custode. 
Trecento  ne  contava  egli , e sessanta  ; 

£ presso  lor,  quando  volgea  la  notte, 

Quattro  cani  giacean  pari  a leoni, 

Che  il  pastor  di  sua  mano  avea  nodriti. 

Calzari  allor  s'accomodava  ai  piedi , 

Di  bue  tagliando  una  ben  tinta  pelle, 

Mentre  chi  qua  > chi  là , gìano  i garzoni.  3o 
Tre  conducean  la  nera  mamira , e il  quarto 
Alla  cittade  col  tributo  usato 
Lo  stesso  Euméo  spedìalo , e a que*  superbi , 
Cui  ciascun  dì  gli  avidi  ventri  empiea 
Della  sgozzata  vittima  la  carne. 

Videro  Ulisse  ì latratori  cani  ^ 


E a lui  con  grida  corsero  : ma  egli 
S’assise  accorto  , e il  baston  pose  a terra. 

Pur  fiero  strazio  alle  sue  stalle  avanti 
Sofl'ria  , s’Euméo  non  era  , il  qual , veloce  4<> 
Scagliandosi  dall'atrto,  e la  bovina 
Pelle  di  man  lasciandosi  cadere , 

Sgridava  i suoi  mastini , e or  questo,  or  quello 
Con  spesse  pietre  qua  , o là  cacciava. 

Poi , rivolto  al  suo  re;  Vecchio  , gli  disse , 
Poco  falli  non  le  n’andassi  in  pezzi , 

E il  biasmo  in  me  ne  ricadesse  , quasi 
Sciagure  altre  io  non  pata  , io  , che  dolente 
vSiedo , e piango  un  signore  ai  Numi  eguale , 

E i pingui  verri  all  altrui  gola  allevo  ; 5o 
Mentr’ei  s’agglra  per  estranie  terre 
Famelico  e digiuno  : ove  ancor  viva  , 

E gli  splenda  del  Sole  il  dolce  lume. 

Ma  tu  sieguimi , o vecchio,  ed  al  mio  albergo 
Vientene  , acciò  , come  di  cibo  e vino 
Sentirai  sazio  il  naturai  talento  , 

La  tua  patria  io  conosca  , e i mali  tuoi. 

Ciò  detto  , gli  entrò  innanzi , e l’introdusse 
Nel  padiglione  suo.  Qui  di  fogliosi 
Virgulti  densi , sovra  cui  velloso  6o 

Cuojo  diste.se  di  selvaggia  capra , 

Gli  feo , non  so  qual  più  , se  letto , o seggio. 
]..'eroG  gioia  dell’accoglienza  amica  , 

E così  favellava  : Ospite  , Giove 

Con  tutti  gli  altri  Dei  compia  i tuoi  voti , 

E d’accoglienza  tal  largo  ti  paghi 

.E  tu  così  gli  rispondesti , Euméo  : 

Buon  vecchio  , a me  non  lice  uno  straniero  , 
Fosse  di  te  inen  degno  , avere  a scherno  ; 

Chè  gli  stranieri  tutti , ed  i inendici  70 

Vengon  da  Giove.  Poco  fare  io  pi»so  ^ 

Poco  potendo  far  servi  che  stanno 


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-3 


LIBRO  DECIMOOUARTO. 


Sempre  in  timor  sotto  un  novello  impero: 

Pure  anco  un  picciul  don  grazia  ritrova. 

Colui  iVaudaro  del  ritorno  i Numi, 

Che  amor  sincero  mi  portava , e dato 
Podere  avriami , e casa  , e donna  molto 
Bramata  ; e quanto  al  fin  dolce  signore 
A servo  dà  , che  in  suo  prò  sudi , e il  cui 
Tiavaglio  prosperar  degnino  i Dei , 6o 

Come  arridono  al  mio.  Certo  ei  giovato  , 

Se  incanutiva  qui  , molto  m’avrebbe. 

3VTa  perì  l’inielice.  Ah  perchè  tutta 
D’Elena  in  vece  non  peri  la  stirpe 
Che  di  cotanti  eroi  sciolse  le  membra  ? 

Quel  prode  anch’ei  volger  le  prore  armato, 

Per  l’onor  degli  Atridi , a Troja  volle. 

Detto  così , la  tunica  si  strìnse 
Col  cinto,  ed  alle  stalle  in  fretta  mosse, 

K , tolti  due  dalla  rinchiusa  mandra  90 

Giovinetti  porcelli , ambo  gli  uccise, 

Gli  abbronzò  , gli  spartì,  negli  appuntati 
Spiedi  gl’iniisse  : indi  , arrostito  il  tutto  , 

Caldo  e fumante  negli  stessi  spiedi 
Recollo  , e il  pose  al  Laerziade  innanzi , 

B di  farina  candida  l’asperse. 

Ciò  fatto  , e in  tazza  d’ellera  mesciuto 
L'umor  dolce  dell’uva  , a lui  di  fronte 
S’assìse , e rincorollo  in  questa  forma  : 

Su  via,  quel  mangia,  o furestier,  che  a servi  100 
Lice  imbandir  , di  porcelletti  carne  : 

Quando  i più  grandi  corpi  ed  i più  pingui 
Li  divorano  i Proci , a cui  non  entra 
Pietade  in  petto , nè  timor  de’  Numi. 

Ma  non  anian  gli  Dei  l’opre  malvage  , 

B il  giusto  ricuinpensano  , ed  il  retto. 

Quelli , che  armati  su  le  altrui  riviere 
Sc;enduuo  , e a cui  tornar  Giove  consente 
Co’  legni  carchi  alla  natia  contrada  , 

Spavento  ad  essi  ancor  delle  divine  1 io 

Vendette  passa  nel  rapace  spirto. 

Certo  per  voce  umana  , o per  divina  , 

ITan  della  morte  del  mio  re  contezza  , 
l’oichè  nè  gareggiar  , come  s’addice  , 

Per  la  sua  donna , nè  ai  dominii  loro 
Voglionsi  ricondur;  ma  gli  altrui  beni 
Senza  pudore  alcun  struggono  in  pace. 

Giove  dì  , o notte  non  produce,  in  cui 
Una  vittima  o due  , paghi  li  renda  , 

B il  più  scelto  licor  bevono  a oltraggio.  120 
Dovizia  molta  ei  possedea , qual  venti 
Sul  continente  , u in  Itaca  , mortali 
Non  felicita  insieme.  Udirla  vuol  ? 

Dodici  armenti  nell’Epiro,  e tante 
Di  pecorelle  greggi  e di  majali , 

Tanti  di  capre  comodi  serragli , 

Di  domestici  tutto  , e di  stranieri 
pastori  a guardia.  In  Itaca  serragli 
Di  capre  undici , e larghi , e nell’estremo 
Tutti  della  campagna,  e con  robusti  i3o 
Custodi  , che  ogni  dì  recano  ai  drudi 
Qual  nel  vasto  capril  veg'gion  più  grassa 
Bestia  , e più  bella.  Io  sovra  i porci  veglio  , 

B della  mandra  il  hor  sempre  lor  mando. 

Ulisse  intanto  senza  dir  parola 
Tutto  in  cacciar  la  fame  era  , e la  sete , 

B mali  ai  Proci  macchinava  in  petto, 
limi  ranca  ti  ch’egli  ebbe  i bacchi  spilli , 
omss£A. 


Eiiméo  la  tazza  , entro  cui  ber  solea  , 

Colma  gli  porse  , ed  ei  la  prese  , e questi  140 
Detti , brillando  in  core , ad  Euméo  volse  : 
Amico  , chi  l’uom  fu  si  ricco  e forte  , 

Che  del  suo  ti  comprò  , come  racconti  ? 

Morto  tu  il  dici  per  J’Atridc.  Io  forse 
Conobbilo.  Il  Saturnio  e gli  altri  Numi 
Sanno  , s’iu  di  lui  visto  alcuna  posso 
Contezza  darti , io  , che  vagai  cotanto. 

Veccliio  , rispose  Euméo  d’uomini  capo  , 
Pellegrin  che  venisse  oggi  il  ritorno 
Del  Kege  a nunziar,  nè  la  sua  donna  i5o 
Gli  crederebbe  , nè  il  diletto  figlio. 

Troppo  usati  a mentir  son  questi  erranti , 

Che  mestieri  han  d’asilo.  Un  non  ne  giunge  , 

E alla  reina  mia  non  si  presenta, 

Che  false  cose  non  favelli , u vane  : 

Tutti  ella  accoglie  con  benigno  aspetto, 

Cento  cose  domanda  , e dalle  ciglia 
Le  cadono  le  lagrime  : costume 
Di  donna  , cui  morì  lo  sposo  altrove. 

E chi  m’accerta  che  tu  ancor,  buon  vecchio,  160 
Una  favola  a ordir  non  fossi  pronto  , 

Dove  tunica  e manto  altri  ti  desse? 

Ma  ì cani , io  temo  , ed  i veloci  augelli 
Tutta  dall’ossa  gli  staccar  la  cute , 

O i pesci  il  divoraro  , e Tossa  ignudo 
Giaccion  sul  lido  nell’arena  involte. 

Così  perìo , lungo  agli  amici  afianno 
I.asciandu,  ed  a me  più,  che  ovunque  io  vada 
Non  ispero  trovar  bontà  sì  grande, 

Non  , se  del  padre  e della  madre  al  dolce  170 
Nativo  albergo  io  riparassi.  È vero 
Che  rivederli  ardentemente  io  bramo 
Nella  terra  natia  : pur  men  li  piango 
D’Ulisse,  ond’io  l’assenza  ognor  sospiro. 

Ospite , così  appena  io  nomar  Toso , 

Benché  lontan  da  me  : tanto  ei  m’amava  , 

Tal  pigliava  di  me  cura  e pensiero. 

Maggior  fratello , dopo  ancor  la  cruda 
Sua  dipartita  , io  più  sovente  il  chiamo. 

Dunque,  l’eroe  riprese  , al  suo  ritorno  180 
Non  credi , e stai  sul  niego  ? Ed  io  ti  giuro , 
Che  Ulisse  riede  ; nè  già  parlo  a caso. 

Ma  tu  la  strenna  del  felice  annunzio 
M’appresta  , bella  tunica  e bel  manto, 

Di  cui  mi  coprirai , com’egli  appaja. 

Prima  , sebben  d’ogni  sostanza  scusso  , 

Nulla  io  riceverei:  cliè  delle  Inferno 
Porte  al  par  sempre  io  detestai  chi  vinto 
Dalla  sua  povertade  il  falso  vende. 

Chiamo  il  Saturnio  in  testimonio,  chiamo  190 
L'ospitai  mensa,  e dell’egregio  Ulisse 
Il  venerando  focolar,  cui  venni  : 

Ciò  , ch’io  dico,  avverrà.  Quest’anno  Istessu, 
L’un  mese  uscendo,  o entrando  l'altro,  il  piede 
Ei  metterà  nella  sua  reggia , e grande 
Di  chiunque  il  bgliuolo , e la  pudica 
Dolina  gli  oltraggia  , prenderà  vendetta. 

E tu  in  risposta  gli  dicesti , Euméo  : 

Nè  strenna  , o vecchio,  io  ti  darò  , nè  Ulisse 
Metterà  più  nella  sua  reggia  il  piede.  200 
Su  via  , tranquillo  bevi  , e ad  altra  cosa 
Voltiam  la  lingua:  chè  mi  cruccia  troppo 
Di  sì  nubii  signor  la  rimembranza. 

Lasciam  da  parte  i giuramenti , e Ulisse 

IO 


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ODISSEA 


74 

Venga  , qual  bramlam  tutti , io  » la  regina  , 

E l'antico  Laerte  , e il  pari  a un  Nume 
Telemaco,  per  cui  tremando  io  vivo. 

Questo  fanciullo  , che  d’Ulisse  nacque  , 

È cui  poscia  , qual  pianta  in  ilorid’orto, 
Crebber  gli  Dei,  sì  ch’io  credea  che  il  padre  aio 
Di  senno  aggiiaglieria  , come  d'aspetto  , 

La  dritta  mente  or  degli  Eterni  alcuno 

Gli  offese  , io  penso , o de'  mortali.  Ei  mosse , 

J/orme  paterne  investigando  , a Pilo  , 

E ag«uafì  i Proci  lendongli  al  ritorno , 

Perchè  tutto  d'Arcesio  il  sangue  manchi. 

Or  nè  dì  questo  più  : trarranlo  a morte 
Forse  i neiiiki , o forse  a voto  ancora 
Le  insidie  andranno  , e la  sua  destra  Giove 
.Sul  capo  gli  terrà.  Ma  tu  gli  aB'anni  220 

Tuoi  &te.ssi«  o vecchio>e  il  tuo  destin  mi  narra. 
Chi  sei  tu  ? Donde  sei  ? Dove  i parenti  ? 

Dorè  ia  tua  cìtià  ? Qual  ti  menaro 
Nocchieri , e di  qual  guisa  , a con  qual  nave? 
Certo  in  Itaca  il  piè  non  ti  condusse. 

Tutto  , rispose  lo  scaltrito  Ulisse  , 
Schiettamente  io  dirò.  Ma  un  anno  intero , 

Che  , fuori  uscito  a sue  faccende  ogni  altro  , 

Pa  noi  si  consumasse  ad  una  lauta 
Nei  padiglione  tuo  mensa  tranquilla  , 200 

Per  raccontar  non  basteria  le  pene 
Di  cui  tessermi  ai  Pei  piacque  la  vita. 

Patria  m’è  Pampìa  Creta  , e mi  fu  padre 
Picco  uom  , cui  di  legittima  consorte 
Molti  nacquero  in  casa  ecrebber  figli. 

Me  compra  donna  generò  , nè  m’ebbe 

Men  per  ciò  de’  fratelli  il  padre  in  conto , 

L'iiacide  Castór,  di  cui  mi  vanto 

(ientirmi  il  sangue  nelle  vene , e a cui 

Per  fortuna  , dovizia  e illustre  prole  240 

Divin  rendeasi  dai  Cretesi  onore. 

Sorpreso  dalla  Parca , e ad  Aide  spinto  , 

Tra  sè  partito  le  sostanze  i figli, 

Gittate  in  pria  le  sortì  , e me  dì  scarsa 
Provvigion  consolavo,  ed’umil  tetto. 

Ma  donna  io  tolsi  di  gran  beni  in  moglie, 

E a ine  solo  il  dovei  ; però  eh’  io  vile 
Non  fui  d’aspetto  , nè  fugace  in  guerra. 

E benché  nulla  oggi  mi  resti , e gli  armi 
M’opprimano,  ed  i guai , la  messe,  Ìo  credo  260 
Può  dalla  paglia  ravvisarsi  ancora. 

Forza  tra  l'armi  e ardir  Marte  e Minerva 
Sempre  infusero  a me  , quando  i migliori 
Per  gli  agguati  io  scegliea  contra  i nemici  j 
O allor  che  primo  , e senza  mai  la  morte 
Dinanzi  a me  veder  , nelle  battaglie 
Mi  scagliava  , e color  , che  dal  niio  brando 
Si  .sottraeaiio  , io  raggiungea  con  Tasta. 

Tal  nella  guerra  io  lui.  Me  dcdia  pace 

Non  diletiavan  Parti , o della  casa  260 

Le  molli  cure , e della  prole.  Navi 

Dilettavano  , e pugne  , e rilucenti 

Dardi , e quadrelli  acuti  : amare  , orrende 

Cose  per  molti , a me  soavi  e belle. 

Come  varii  deli’uom  sono  i desiri. 

Prima  che  la  greca  oste  Ilio  cercasse , 

Nove  f iate  ìo  comandai  sul  mare 
Contra  gente  straniera  j e la  fortuna 
Così  m'arti&e  , che  tra  ciò  , che  in  sorte 
Toccouinii  delia  preda,  e quel  ch’io  stesso  270 


A mio  senno  eleggea  , rapidamente 

Crebbe  il  mio  stato  , e non  passò  gran  tempo | 

Che  in  sommo  pregio  tra  i Cretesi  io  salsi. 

Ma  quando  Giove  quel  fatai  viaggio 
Prescrisse , che  mandò  tante  alme  a Fiuto , 

A me  de’  legni  ondivaghi , ed  al  noto 
Per  fama  Idumenéo  , diero  il  governo  , 

Nè  modo  v’ebbe  a ricusar  : sì  grave 
Il  popolo  , e sì  ardita  , ergea  la  voce. 

Colà  nove  anni  pugnavam  noi  Greci , 280 

E nel  decimo  al  fin  , Troja  combusta  , 
Kitornavamo  ; e ci  disperse  un  Nume. 

Se  non  che  Giove  una  più  ria  ventura 
Contra  me  disegnò.  Passalo  un  mese 
'J‘ia  i figli  cari  appena  , e la  diletta 
Sposa  , che  vergili  s’era  a me  congiunta  , 
Novella  brama  dell’Egitto  al  lidi 
Con  egregi  compagni  , e su  navigli 
Ben  corredati  a navigar  m’indusse. 

Nove  legni  adornai  ; nè  a riunirsi  290 

Tardò  l'amica  gente  , a cui  non  poche 
Pe’  sagrifizj  loro  e pe’  conviti , 

Che  duraro  sei  di , vittime  io  dava. 

Le  seuinTalba  in  Oriente  apparsa  , 

Creta  lasciammo  , e con  un  Borea  in  poppa 
Sincero  e fido  , agevoiineule  , e come 
Sovra  un  fiume  a seconda  , il  mar  fendemmo. 
Nave  non  fu  nè  leggiermente  offesa, 

£ noi  sicuri  sedevam  , bastando 
I timonieri  al  nostro  uopo  , ed  il  vento.  3oo 
Presa  il  di  quinto  la  bramata  foce 
Del  ricco  di  bell’onda  Egitto  fiume, 

Io  nei  fiume  arrestai  le  veleggianti 

Navi , e ai  compagni  comandai  che  in  guardia 

De’  legni  rìmaiussero  , e la  terra 

Gisseio  alcuni  ad  esplorar  dalTalto. 

Ma  questi  , da  un  ardir  folle  e da  un  cieco 
Desio  portati  , a saccheggiar  le  belle 
Campagne  degli  Egizj , a via  menarne 
Le  donne  e i figli  non  parlanti,  i grami  3io 
Coltivatori  a uccidere.  Ne  giunse 
loslo  il  remore  alla  città  , nè  prima 
L’Aurora  comparì  , che  i cittadini 
Vennero  , c pieno  di  cavalli  e fanti 
Fu  tutto  il  campo , e del  fulgor  deU’armi. 
Cotale  allora  il  Fulminante  pose 
Desir  dì  fuga  de' compagni  in  petto. 

Che  un  sol  lar  fronte  non  osava  : uccisi 
Fur  parte , e parte  presi  , e ad  opre  dure 
Sforzati}  e,  ovuuque  rivolgeansi  gli  occhi, 5ao 
Un  disastro  appaila.  Ma  il  Saturnide 
Nuovo  consiglio  m’iiispirò  ne]  core. 

Deh  pertliè  iielTEgitlo  anch’io  non  caddi , 

Se  nuovi  guai  m’apparecchiava  il  fato? 

Io  Telmo  dulia  le'»ta  al  suol  deposi , 

Dagli  omeri  lo  scudo  , e gittai  funge 
Da  me  la  lancia  : indi  ai  cavalli  incontro 
Corsi e al  cocchio  del  re  , strinsi  e baciai 
Le  sue  ginocchia  ; ed  ei  serbotnmì  in  vita.. 
Compunto  di  pietà  , me , che  piagnea  , 35» 

Levò  nel  cocchio , e al  suo  pahigio  addusse. 

È ver  che  gli  altri  m’a.ssalian  con  Tasto 
Di  rabbia  accesi , e mi  voieano  estinto. 

Ma  il  re  lontani  e con  cenni  e con  voci 

Teneali  per  timor  dell’ospitale 

(ìiove  , che  i dupplicanti,  a cui  mercede 


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LIBRO  DECI 

Dairiiom  non  s*«si , Tendìcar  suol  sempre. 
Sctt'aniii  io  colà  vissi  ; e as^aì  tesori 
Baccolsi:  doni  mìporgea  chiunqiif*. 

Poi,  volgendo  l’ottavo  anno,  un  Fenice  3^0 
Comparve  , uom  f riudolento  , e di  menzogne 
Gran  fabbro,  che  già  molti  avea  tradito. 

Ideila  Fenicia  a segu  tarlo  , dove 
Casa  e poderi  avea  , costui  piegummi  ; 

B seco  io  dimorai  di  sole  un  giro. 

IVTa  , rivolto  già  Tanno , e le  stagioni 
Tornate  in  se  rol  trapassar  de’  mesi  , 

Bd  il  cerchio  dei  dì  lunga!  compiuto  , 

Far  vela  volle  per  la  Libia,  e finse 
Non  poter  senza  me  carrnr  la  nave.  .3òo 

Che  nave?  in  Libia  vendermi  a gran  prezzo 
Pensava  il  tristo.  Io  che  potea  ? Costretto  , 

I)i  nuovo  il  seguita»  : benché  del  vero 
Mi  trascorresse  per  la  mente  un  lampo. 

Sm  Creta  sorse  il  rapido  naviglio  , 

Cile  un  gagliardo  Aumlun  feriva  in  poppa , 
Mentre  gli  ordia  Tultimo  eccidio  Giove  , 

Già  nè  più  Creta  si  vedea,  nè  altra 
Terra  , ma  cielo  in  ogni  parte  , o mare , 
<^)uando  il  Fulmìnator  su)  nostro  capo  36u 
Sospese  d’alto  una  cerulea  nube  , 

Sotto  a cui  tutte  intenebrarsi  Tacque. 

Tonò  più  volle , e al  fin  lanciò  il  suo  telo 
Coiitra  la  nave  , che  dei  fiero  colpo 
Sì  contorse  , s’empieo  di  zolfo  , e tutti 
Ne  radettero  giù.  Quai  corvi,  intorno 
Le  s’a^giravan  su  per  Tonde  , e Giove 
Lor  togliea  con  la  patria  anco  la  vita. 

Salvò  me  solo  nel  mortai  periglio  : 

Che  alle  mani  venirmi  lece  ì)  lungo  370 

Albero  della  nave  , a cui  m’attenni , 

B così  mi  lasciai  su  i tempestosi 
Flutti  portar  per  nove  giorni  ai  venti  : 

Fincliè  la  notte  decima  mi  spinse 
De’Tesproti  alla  terra  il  negro  fiotto. 

Qui  de’Tesproti  il  sir,  IVroe  Fidane  , 

Generoso  m’accolse.  A sorte  il  figlio 
Sul  lido  mi  trovò  tutto  tremante 
Di  freddo  , e ornai  dalla  fatica  vinto  , 

B , con  man  sollevatomi , del  padre  38<> 

Al  reai  tetto  mi  condusse , e pormi 
Tunica  e manto  si  compiacque  in  dosso. 

Quivi  io  d’UIisse  udii.  Diceami  il  rege , 

ClTei  l’accolse  , e il  trattò  cortesemente 
Nel  suo  ritorno  alle  natie  contrade  j 
E il  rame  e Tòr  mostravami , ed  il  ferro  , 

B quanto  al  fin  di  prezioso  e bello 
Ulisse  avea  raccolto , e nella  reggia 
Ueposto  : forza  , che  per  dieci  eludi 
Failri  e figliuoli  a sostener  bastava. 

E agciungea  , che  a Dudona  era  passato, 

Per  Giove  consultare,  e udir  dall’alta 
Quercia  indovina  . se  ridursi  ai  dolci 
Culli  d’Itaca  sua  dopo  sì  lunga 
Stagion  dovea  palesamente  , o ignoto. 

Poi , libando,  giurò  ch’era  nel  mare 
Tratta  la  nave  , e i remiganti  pronti , 

Per  rimenarlu  in  Itaca.  Ma  prima 
Me  stesso  accommiatò  : chè  per  ventura 
Al  ferace  Dulichio  un  legno  andava  4co 

Di  nocchieri  Tesproii.  Al  rege  Acasto 
Costor  dovean  raccomandarmi , e in  vere 


M O Q U A R T O, 

Un  consiglio  tessean  , perch’io  cadessi 
Nuovamente  ne’  guai.  Come  lontano 
Da  terra  fu  Tondivagaiite  legno, 

11  negro  m’apparì  giorno  servile. 

Tunica  e manto  mi  spoglìaro,  e questi 
In  dosso  mi  gettar  laceri  panni , 

K , venuti  all’amena  Itaca  a notte  , 

Me  nella  nave  con  ben  torta  e salda  410 

Fune  legaro.  Indi  n’iisciro,  e cena 
Frettolosa  del  mar  presero  in  riva. 

Ma  un  Nume  ruppe  i miei  legami  ; ed  io 
(tiù  sdrucciolai  pel  timon  lìscio  , al  mare 
Mi  consegnai  col  petto  , e ad  anil>e  mani 
Nòtando  remigai  sì , che  in  brev'ora 
Fuor  di  lor  vista  io  fui.  Giunsi , ove  bella 
Sorgpa  (li  querce  una  foresta  , e giacqui. 

Quei , di  me  con  dolore  in  traccia  nio»si , 

Nè  credendo  cercarne  invan  più  oltre  , 430 

Si  rimbarcaro  ; e me  gTlddii , che  ascoso 
Facilmente  m’avean,  d’un  uom  saputo 
Guidar  l>enigni  al  pastureccio  albergo  , 

Poiché  in  vita  il  destin  mi  vuole  ancora. 

B tal  fu  a lui  la  tua  risposta  , Buniéu  : 

O degli  ospiti  misero,  tu  Taima 
Mi  commovesti  addentro  , i tuoi  viaggi 
Narrando  , e i mali  tuoi.  Sol  ciò  non  judo  , 
Che  d’UUsse  dicesti  ,e  non  tei  credo. 

Perchè,  degno  uom,  qual  sei,  mentire  indarno? 
So  anch’io  pur  troppo,  qual  dei  suo  riCurnu  4^0 
Speme  nodrir  si  possa  , e l’infinito  , 

Ctie  gii  portano  1 Numi , odio  io  conosco. 
Quindi  ei  non  cadde  , combattendo  , a Troja  , 
O degli  amici  in  sen  dopo  la  guerra. 

Sepolto  avrianlo  nubilmente  j Greci , 

R dalla  tomba  sua  venia  un  rilunipo 
Di  gloria  al  suo  fìglìuuJ  : ma  iiionuiato 
Le  Arpìe  crudeli  sei  rapirò  in  vece. 

Tale  io  ne  provo  duo!',  che  appo  la  niandra  440 
Vivomi  occulto,  ed  a città  non  vado, 

.Se  non  quando  Penelope  , comparso 
Da  qualche  banda  con  novelle  alcuno  , 
Chiamami  a sè  per  caso.  Allora  stanno 
Tutti  d’intorno  alio  straniero  , e mille 
Gli  fan  domande  ; cosi  quei , che  duglia 
Dell’assenza  del  re  sentono  io  petto  , 

Come  color  , che  gioja  j e le  sostanze 
Ne  distruggon  frattanto  in  tutta  pace. 

Ma  io  domande  far  dal  dì  non  amo , 

Che  mi  deluse  un  vagabondo  Btólo  , 

Reo  d’omicidio  , che  al  mio  tetto  giunse. 

Molto  io  l’accarezzava  ; ed  ei  mi  disse  , 

Che  presso  Idomenco  nell’ampia  Creta 
Veduto  avealo  risarcir  le  navi 
Dalla  procella  sconquassate,  e aggiunse 
Che  Testate  o l’autunno  , al  suo  paese 
Capiteria  ben  compagiiato  e ricco. 

Or  non  volermi  tu  , vecchio  infelice  , 

Con  falsi  detti , poiché  un  Dio  t’addusse  , 4òe 
Mulcere  o lusingar  : chè  non  per  questo 
Ben  trattato  sarai , ma  perrliè  temo 
L’ospitai  Giove  , e che  ho  di  te  pietade. 

Un  incredulo  cor  , rispose  Ulisse  , 

Tu  chiudi  in  te,  quando  a prestai  mi  feda 
Nè  co’  miei  giuramenti  indur  ti  posso. 

Su  via  , fermisi  un  patto,  e testimoni 
Ne  sian  dalTalto  gl’immortali  Del. 


DIgitizea  oy  Vjoogk' 


O D I S S E A 


Bie<Jerà  il  iun  signor  , com'io  predissi  ? , 

Tuuica  e mautu  vestimi , e a Duliclìio  47^ 
JVli  manda , ov’io  da  molli  giorni  ir  bramo. 

Ha  s*ei  non  torna  , eccita  i servi  ^ e getta 
Me  capovolto  da  un’eccetsa  rupe  , 

Sì  che  più  non  ti  beiiì  alcun  mendico. 

Gran  merto  in  vero  , c memorabil  nome , 

Il  pastor  ripigliò  , m’acquisterei 
Appo  la  nostra  c la  ventura  elade , 

•Se,  ricevuto  avendoti  e trattato 
Ospitalmente,  io  t’uccidessi , e fuori 
Ti  traessi  del  sen  l’anima  cara  ! 480 

Come  iratico  io  potrei  preghiere  a Giove 
Porgere  allora  1 Or  della  cena  è il  tempo. 

1 miei  compagni  entreran  tosto  , e lauta 
S’appresterà  nel  padiglion  la  mensa. 

Così  tra  Jor  diceano;  ed  ecco  il  nero 
Gregge  , e i garzoni  che  ne’  suoi  serragli 
Metteanlo  : immenso  delle  pingui  truje, 

Che  andavansi  a corcar  , sorse  il  grugnito. 
Katto  ai  compagni  favellala  Euméo  : 

X’ottimo  a me  de’  porci , affinchè  niuoja  490 
Pel  venuto  di  lungi  ospite  , e un  tratto 
?»oì  pur  festa  facciam  , noi , che  soiiViamo 
Per  questo  armento  dalle  bianche  sanne , 
Menire  in  riposo  e in  gitqa  altri  le  nostre 
l'atiche  sì  divorano  . e.  gli  affanni. 

Detto  cosi , con  affilata  scure 
Quercia  secca  recise  j e quelli  un  grasso 
D anni  cinque  d’età  porco  menaro  f 
!E  al  focolare  il  collocar  davanti. 

INè  de'  Celesti  Kuméo , che  multo  senno  5oo 
INutriva  in  sè , dimeniicossi.  1 peli 
Dal  capo  svelti  del  grugnante,  in  mazzo 
Gittolli  al  foco,  e innalzò  voti  ai  Numi 
Pel  ritorno  d’UlIsse.  Indi  un  troncone 
Della  quercia , ch’ei  fèsse , alto  ievaudo  , 
Percosse  , e senza  vita  a terra  stese 
Da  vittima.  I garzoni  ad  ammazzarla , 

Ad  abbronzarla  c a farla  in  pezzi  ; ed  egli 
1 crudi  brani  da  ogni  membro  tolti 
Parte  metlcali  su  l’omento , e parte  610 

Di  farina  bianchissima  cospersi 
Consegnavali  al  foco.  Il  resto  tutto 
Poi  sminuzzaro,  e l’abbrostiro  infìsso 
Cua  mudo  acconcio  negli  spiedi , e al  fine 
Dagli  spiedi  cavato  in  su  la  mensa 
Poserlo.  Euméo , che  sapea  il  giusto  e il  rètto, 
Sorse,  o il  tutto  divise  in  sette  parti  : 

Offrì  l’ima  alle  Ninfe , ed  al  figliuolo 
Di  Maja  , e l’altre  a ciascun  porse  in  giro. 

Ha  dell’intera  del  sannuto  .schiena  òso 

Solo  Ulisse  onorava  , e gaudio  in  petto 
Spandea  del  Sire , che  diceagli  : Eumóo  , 

Così  tu  possi  caro  al  padre  Giove 
Viver  , qual  vivi  a me , poiché  si  grande 
Nello  stato , in  ch’io  son , mi  rendi  onore. 

E tu  dicesti , rispondendo , Euméo  : 

O preclaro  degli  ospiti , ti  ciba , 

D di  quel  godi  , che  imbandirti  io  valgo. 
Concede , o nieua , il  Correttor  del  mondo , 
Come  gli  aggrada  più  ; chè  tutto  ei  puote,  ò5o 

Ciò  detto  , ai  Numi  le  primizie  offerse  j 
Xi , libato  ch’egli  ebbe  , in  man  d’Ulisse  , 

Che  al  suo  loco  sedea  , pose  la  tazza. 

Mesaulio , ch’ei  del  proprio,  e noi  sapendo 


I Nè  la  regina  , nè  I..aerte , aver  , 

Mentre  lungi  era  il  sir  , compro  dai  Tafj , 

Il  pane  dispensò.  Steiuleaiio  ai  cibi 
La  mano  ; e , paga  del  mai^iar  la  voglia  , 

Paga  quella  del  , Mesanlio  il  pane 
Raccolse  , e gli  altri  a darle  membra  a)  sonno 
Ristorati  affrettavansi  e satolli. 

Fosca  sorvenne  c disastrosa  notte  : 

Giove  piovea  senza  intervallo,  e fiero 
Di  Ponente  spirava  un  vento  acquoso. 

Ulisse  allor  , poiché  vedeasi  tanto 
Carezzato  da  Euméo,  tentare  il  volle  , 

Se  gli  prestasse  il  proplro  manto  , o almeno 
Quel  o’alcun  de’compagni  aver  gli  fesse. 

Euméo , diss’eglì , ascoltami , e j compagni 
M’ascoltin  tutti.  Io  millantarnii  alquanto  55o 
Voglio , qual  mi  comanda  il  folle  vino  , 

Che  talvolta  i più  saggi  a cantar  mosse 
Più  là  d’ogni  misura  , a mollemente 
Rider  , spiccar  salti  improvvisi , ed  anclie 
Quello  a parlar  , ch’era  tacere  il  meglio. 

Ma  dacché  un  tratto  a cicalare  io  presi , 

Nulla  io  terrò  nel  petto.  Gii  di  quel  fiore 
Fossi , e tornassi  in  quelle  forze , ch’io 
Sentiami  al  tempo  , che  sott'llio  agguati 
Tendemmo,  Ulisse,  ed  il  secondo  Atride,  56o 
B , così  ad  essi  piacque,  io  terzo  duce  ! 

Tosto  che  alla  cittade  all’alte  mura 
Vicini  fummo , tra  i virgulti  densi , 

E nelle  canne  paludose  a tvrra 
Giacevam  sotto  l’armi.  Impronta  notte 
Ci  assalse  : un  crudo  Tramuntan  soffiava  , 
Scendea  la  neve  , qual  gelata  brina  , 

B gfi  scudi  incrostava  il  ghiaccio.  Gli  altri  , 
Che  manti  aveaiio  e tuniche , tranquilli 
Dermian  , poggiando  alle  lor  targlie  il  dosso. 
Ma  io  , partendo  dai  compagni , il  manto  Ò70 
Velia  stoltezza  mia  lasciai  tra  loro  , 

Von  isperando  un  si  pungete  verno  ; 

B una  tunica  , un  cingolo  e uno  scudo 
Meco  sol  tolsi.  Della  fiotto  il  terzo 
Era  , e gli  astri  cadevano , e ad  Ulisse  , 
che  mi  giacea  da  presso , io  tai  parole  , 
Frugandolo  dei  gomito  , rivolsi  : 

Illustre  e scaltro  di  Laerte  jìglio , 

Cosi  mi  doma  il  gel , ch’io  più  tra  i vivi  58o 
Non  rimarrò.  Mi  falla  un  manto.  Un  Dìo, 

Che  mi  deluse , di  vestirmi  solo 
La  tunica  inspirommi.  Or  quale  scampo  ? 

Ei , le  parole  udite,  un  suo  partito 
Scelse  di  botto  , come  quei , che  meno 
\i  consigli  non  fu  , che  all'arrai , proirto. 

Taci , rispose  con  sommessa  voce, 

Che  alcuu  Greco  non  t’oda.  E poi , del  braccio 
Facendo , e della  man  sostegno  al  mento , 
Amici , disse , un  sogno . un  divin  sogno  , 690 
Dormendo  m’avverti,  che  dilungati 
Troppo  ci  siam  dalle  veloci  navi. 

Quindi  al  pastor  dì  genti  Agamennòne 
Gorra  un  di  noi  , perchè  , se  ben  gli  sembra  , 
Ne  mandi  altri  guerrieri , e ne  rinforzi. 

Disse  , e Toante,  d’Andremóne  il  figlio  , 
Sorse  , e corse  al  navil , deposto  prima 
Il  porpureo  suo  manto;  ed  io  con  gioja 
Men  cinsi,  e vi  stetti  entro,  in  sin  che  apparve 
Sul  trono  d’òr  la  diliru^ea  Aurora.  6oa 


77 


r I B n o DECI 

Se  quel  fior,  quelle  forze  io  non  piangesisì , 

Me  torse  alcun  dei  tuoi  compagm  , Kuméo  , 
l’er  riverenza  e amore  ad  un  buon  verchio^ 

Di  manto  iuriiiria  : ma  or,  veggendo 
Questi  miei  cenci , ciBScuii  tiemini  a vile. 

Tu  così , Kuméo  , gli  rispondesti  allora  : 
Bella  fu  , amico  , la  tua  storia  , e un  motto 
!Non  t'uscì  delle  labbra  o sconcio  o vano. 
r«?iò  di  veste  , o d’altro  , che  infelice 
Merta  supplicante  uomo , in  questa  notte  6to 
Difetto  non  avrai.  Ma  , nato  il  Sole , 
T’adatterai  gli  usati  panni  intorno. 

Poche  son  qui  le  cappe , e a suo  pÌ««oere 
Di  tunica  non  puote  alcun  mutorsi  : 

Star  dee  contento  ad  una  sola  ognuno. 

Come  giunto  sarà  d'Ulisse  il  figlio , 

Ki  di  vestirti  e di  mandarti , dove 
Ti  consiglia  il  tuo  cor,  pensicr  darassi. 

S’alzò  , così  dicendo  , e presso  ai  loco 
Poneagii  il  letto , e di  luuntoui  e capre  Gao 


M O Q U A R T O. 

pelli  stendeavi , in  che  l’eroe  sdrajossi  ; 

E d’uii  largo  il  coprì  suo  denso  manto  , 
Ch'egli  a sè  stesso  circondar  soiea  , 

Quando  turbava  il  ciel  fiera  tempesta. 

Così  là  giacque  Ulisse  ; e accanto  a lui 
Si  corcaro  i garzoni  : ma  corcarsi 
Disgiunto  da’  suoi  verri  Kuméo  non  volle, 
l'uort  uscito  ei  s’armava  ^ e Ulisse  in  core 
Gioia  , mirando  lui  del  suo  re  tanto 
Curate  i beni , benché  lungi  il  creda.  63o 
Prima  ei  sospese  agli  omeri  gagliardi 
L’acuta  spada  : indi  a sè  intorno  un  folto 
iìTanto  gìttò  , che  il  difendea  dal  vento; 

Tolse  una  pelle  di  corputa  e grassa 

Capra  ; c un  pungente  dardo  in  man  recossi , 

Degli  uomini  spavento  c de’  mastini. 

Tale  s’andò  a corcar,  dove  protetti 
Dal  soiTio  d’ Aquilone  i setolosi 
Verri  dormian  sotto  una  cava  rupe. 


LIBRO  DECIMOQUINTO 


ARGOMENTO 

Mioerva  ippare  di  notte  a Tclemaoo,  e il  conforta  di  tornare  in  Itaca.  Ei  ai  con^^a  da  Menelao,  e parte 
col  figliuolo  di  Nestore.  Giunto  a Pilo,  si  riitilMrca,  «enza  rientrare  nella  città;  e accoglie  mdU  sua  nave  uu 
indovino  d'Argo,  chiamato  Tcocliim’no , che  fu  ct»stn-ttu  lasciar  la  patria  per  ocnicidio.  Frattanto  nll(w|uii  Ira 
Cinse  ed  Euiuro  ; il  quale  , nt-n  riconoacendulo  atMora  , gli  narra  , coste  da  airsari  Fcnidi  rapilo  fu  mcntrVra 
fanciullo,  dairisola  Siria,  e venduto  a Laerte.  Icleuiarn , arrivato  salvo  alle  spiagge  d’iuca,  manda  alla  atù 
la  nave , e va  tutto  solo  alla  casa  d'Euméo , di  cui  conosce  la  CedcUà. 


ELL’ampia  Lacedemone  Minerva 
^ Entrava  intanto  ad  ammonir  d’Ulisse 
L’inclita  prole  , che  di  far  ritorno 
Alle  patrie  contrade  era  già  tempo. 

Trovollo  che  giacca  di  Menelao 
Kell’atrio  con  Pisistrato.  Ingombrava 
Un  molle  .sonno  di  Ncstorre  i)  figlio  t 
Ma  PUlissUle  , cui  l'incerta  sorte 
Del  caro  pndre  fieramente  turba, 

Pensavane  ad  ognora  , c invan  per  Ini  i o 
D’nlto  i balsami  suoi  spargea  la  notte. 

La  Dea , che  azzurri  gli  occhi  in  giro  muove, 
Appressollo  , e , Telemaco  , gli  disse , 

Non  fa  per  te  di  rimanerti  ancora 
D’ Itaca  fuori , e lungi  dall’altera 
Turba  malnata  degli  arditi  Proci, 

Che  , divisa  tra  lur  la  tua  sostanza  , 

Divorinsi  al  fin  tutto , e , non  che  vano , 
Dannoso  a te  questo  viaggio  torni. 

Lévati , e pressa  il  valoroso  Atride  3o 

Di  congedarti , onde  nel  tuo  palagio 
Trovi  la  madre  tua , che  Icario  il  padre 
Co’ fratelli  oggiroai  sforza  alla  mano 
D’Eurimaco  , il  qual  cresce  i maritali 
Doni , e ugni  suo  rivai  d’ambito  vince. 

Guarda  , non  del  palagio  a tuo  dispetto 
Parte  de’  beni  con  la  madre  l’esca  : 

Però  che  sai , qual  cor  s’abbia  ogni  donna. 
Ingrandir  brama  del  secondo  .sposo 


La  nuova  casa  ; e de’  suoi  primi  figli , 3o 
K di  colui  che  vergine  impalmollu  , 

Non  si  rammenta  più , più  non  ricerca  , 
Quando  ei  nel  bujo  della  tomba  giace. 

Tu  , partita  la  madre  , a quale  ancella 
Più  dabbene  ti  sembri , e più  sentita , 
Commetti  il  tutto  , finché  illustre  sposa 
Ti  presentino  al  guardo  i Dei  clementi. 

Altro  dirotti , e il  riporrai  nel  core. 

Degli  amanti  i più  rei , che  tor  dal  mondo 
Prima  vorrianti , che  alla  patria  arrivi , 40 

Nel  mar  tra  la  pietrosa  Itaca  e Same 
btaiino  in  agguato,  lo  crederò  che  indarno , 

K che  la  terra  pria  Fossa  spolpate 
De’  tuoi  néroici  chiuderà  nel  seno. 

Non  pertanto  la  nave  indi  lontana 
Tieni  , e notturno  naviga  : un  amico 
Vento  t’invierà  quel  tra  gli  Ktertii , 

Chiunque  sia  , che  ti  difende  e guarda. 

Come  d’itaca  giunto  alla  più  estrema 
Riva  sarai , lascia  ir  la  nave  , e tutti  So 

Alla  città  i compagni  ; e tu  il  custode 
Cerca  de’  verri , che  un  graA  ben  ti  vuole. 

Seco  passa  la  notte  , ed  in  su  l’alba 
Mandai  significando  alla  regina  , 

Che  a lei  da  Pilo  ritornasti  iDi-so. 

Ciò  detto , in  un  balen  salse  all’Olimpo. 

Kgii  l’amico  dal  suo  dolce  sonno , 

Urtandolo  del  piè,  subito  scoue, 


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ODISSEA 


78 

E gli  drizzò  queste  paroìe  : Sorgi , 

Fisistrato  , ed  al  cocchio  i corridori  6u 

Solidouiighìati  sottoponi , e accoppia  , 

Se  anche  il  viaggio  nostro  aver  aee  fine. 

Telemaco  , il  Nestoride  rispose, 

Benché  ci  tardi  di  partir  , non  lice 
Dell'atra  notte  carreggiar  per  l'ombre. 

Foco  l’Aurora  tarderà.  Sostieni 

Tanto  almen  , che  il  di  lancia  esperto  Atride 

Ponga  nel  cocchio  gli  ospitali  doni , 

E gentilmente  ti  licenzii.  Eterna 

L’ospite  rimembranza  in  petto  serba  70 

Di  chi  un  b^l  pegno  d’amtstà  gli  porse. 

Disse;  e nel  trono  d'òr  l’Aurora  apparve. 

Il  prode  Menelao  di  letto  allora 
Sorto  , e d’allato  della  bella  Elcna  , 

Venne  alla  volta  lor;  nè  prima  il  caro 
Figliuol  d'Ulisse  l'avvisò  , che  in  Iretta 
Della  lucente  tunica  le  membra 
Cinse  , e gittò  il  gran  manto  a sè  d’intorno , 
Ed  usci  fuori , e l'abbordò , e gli  dis-^e  : 

Piglio  d’Atréo  , di  Giove  alunno  , duce  80 
Di  genti , me  rimanda  oggi  al  diletto 
dativo  ciel , cui  già  con  l'alma  io  volo. 

Telemaco  , rispose  il  forte  Atride  , 
lo  ritenerti  qui  lunga  stagione 
PTon  voglio  a tuo  mal  cuore.  Odio  chi  suole 
Gli  ospiti  suoi  festeggiar  troppo,  o troppo 
Spregiarli  : il  meglio  sempre  è star  nel  mezzo. 
Certo  peccan  del  par  chi  uisuortese 
L’ospite  caccia  di  restar  bramoso  , 

£ chi  bramoso  di  partir  l’arresta.  go 

Carezzalo  indugiante,  e quando  scorgi , 

Che  levarsi  desia  , dàgli  commiato. 

Tanto  dimora  sol , ch’io  non  vulgarl 
Doni  nel  cocchio  , te  presente , ponga  : 

£ comandi  alle  femmine  che  un  pronto 
Conforto  largo  di  serbate  dopi 
T’apprestin  nella  sala.  É glorioso 
Del  par  , che  utile  a te  , dell'inliiiita 
Terra  su  i campi  non  passar  digiuno. 

Vuoi  tu  aggirarti  per  la  Grecia  e l’Argo?  100 
Giungerò  i miei  destrieri , e alle  diverse 
Città  ti  condurrò  : treppiede  , o conca 
Di  bronzo  , o due  bene  appajati  muli  ^ 

O vaga  d'oro  eiiig'ìata  tazza  , 

Ci  donerà  ciascuno  , e senza  doni 
Cìttade  non  sarà  che  ci  accommiati. 

Teif  maco  a rincontro  : Menelao  , 

Di  Giove  alunno  , condottier  di  genti , 

Nei  mio  palagio , ove  nessun  che  il  guardi , 
Partendone  , io  lasciai , rieder  mi  giova  , 1 10 

Acciocché , mentre  il  padre  indarno  io  cerco , 
Tutti  io  non  perda  i suoi  tesori  e miei. 

Udito  questo  , ad  Eiena  e alle  fanti 
L’Atrìde  comandò , s’apparecchiasse 
Subita  e lauta  mensa.  £teoné> , 

Che  poco  lungi  dal  suo  re  (iormia, 

Sorto  appena  di  letto , a lui  sen  venne  ; 

£ il  foco  suscitar , cuocer  le  carni , 

Orimpose  Menelao  ; nè  ad  ubbidirgli 
Tardò  un  istante  di  Boete  il  tiglio.  120 

NeH’odorata  solitaria  stanza 
Menelao  scese , e non  già  sol  : chè  seco 
Scesero  Eléna  e Megapcnte.  Giunti 
Là  I ’ve  la  ricca  suppeilettil  giace , 


Tolse  l'Atride  biondo  una  ritonda 
Gemina  coppa  , e di  levare  un'urna 
D'argento  ai  tìglio  Megapente  ingiunse. 

Ma  la  donna  fermossi  all’arche  innanzi , 

Ove  i pepli  giacean  , che  da  lei  stessa 
Travagliati  già  furo  , c variati  l5o 

Con  Ogni  sorta  d’artificio.  Eiéiia 
Il  più  ampio  traeane  , ed  il  più  bello 
Per  moltiplici  fregi  : era  nel  fondo 
Dell’arca  , e sì  rilusse  in  quel  che  alzollo  | 

Che  stella  parve , che  dai  flutti  emerga. 

Con  tai  doni  le  stanze  attraversare, 

Finché  furo  a Telemaco  davaiite  , 

Cui  questi  accenti  Menelao  converse  ; 

Fortunato  così , come  tu  il  brami  , 

Ti  consenta,  o Telemaco  , il  ritorno  J4o 

L’altitonante  di  Giuiion  marito. 

Io  di  quei,  che  possiedo  , a te  dar  voglio 
Ciò  che  mi  sembra  più  leggiadro  e raro  : 
'Un'urna  etRgì'ata  , argento  tutta  , 

Se  non  quanto  su  i labbri  oro  gialleggia  , 

Di  Vulcano  iattura.  Il  generoso 
Re  di  Sidone  , Fedimo,  donoila 
A me , che  d’IUo  ritornava  , e cui 
Ricettò  ne’ suoi  tetti  ; e a te  io  la  dono. 

L’Atride  in  mano  gli  mettea  la  tonda  i5o 
Gemina  coppa:  Megapente  ai  piedi  ' 

Gli  recò  l'urna  sfolgorante;  e poi 
Eiena  , bella  guancia  , a lui  di  contra 
Stette  coi  peplo  su  le  braccia  , e disse  : 

Ricevi  anco  da  me  , figlio  diletto , 

Quest'altro  dono  , e per  memoria  tienlo 

Delle  mani  d’Eléna.  Alla  tua  sposa 

Nel  sospirato  dì  delle  sue  nozze 

Le  membra  coprirà.  Rimanga  intanto 

Della  prudente  genitrice  in  guardia  ; 160 

E tu  alla  patria  terra , e alle  superbe 

Case  de’  padri  tuoi  , giungi  felice. 

Ei  con  gioia  sei  prese  ; e i doni  tutti , 

Poiché  ammirata  la  materia  e l'arte 
N'ebbe  , allogò  Pisistrato  nel  carro. 

Quindi  l'Atride  dalla  blonda  testa 
Ambi  condusse  nella  reggia  , dove 
Sovra  i troni  sedettero.  L'ancella 
Subitamente  da  bel  vaso  d'oro 
Nell'argenteo  bacile  acqua  lucente  170 

Spandea,  stendea  desco  polito,  in  cui 
La  veneranda  dispensiera  i bianchi 
Palli  venne  ad  imporre , e non  già  poche 
Delle  dapi  serbate  , ond'è  costude. 

Eteonéo  parila  le  carni , e il  vino 
Megapeiite  versava  ; e i due  stranieri 
La  mano  all’uno  e all'altro  ivan  porgendo» 

Ma  come  sazi!  della  mensa  fòro  , 

Ai^giogaro  i cavalli  ,e  la  vergata 

Riga  pronti  salirò , e l’agitaro  180 

Fuor  dull'atrio  e del  portico  sonante. 

Uscì  con  essi  Menelao  , spumosa  , 

Perchè  libasser  pria  , ciotola  d’oro 
Nella  destra  tenendo  , e de'  cavalli 
Fermossi  a fronte  , e , propinando , disse  : 
Salute  , o prodi  giovanetti , a voi 
Hd  al  pastor  de’  popoli  salute 
Per  vostra  bocca , a Nestore  , che  ftimmì 
Dolce  , qual  padre  , sotto  i Teucri  muri. 

> Kd  il  saggio  Telemaco  a rincontro  ; igo 


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79 


LIBRO  DECI 

Tutto , non  dubitar  , di  Giove  alunno , 

Saprà  il  buon  vecchio.  Oh  potess’io  non  manco 
Toj>to  ch’io  sarò  in  Itaca  , ad  Ulisse 
Mo.strai  e i tonti  e cosi  ricchi  doni , 

Ch’io  da  te  ricevetti , e raccontargli , 

Quale  accoglienza  io  n^ebbi  e qual  commiato! 

Tal  favellava  ^ e a lui  di  sopra  e a destra 
Un’aquila  volò,  che  bianca  e grande, 
Domestica  oca  con  gli  adunchi  artigli 
Dalla  corte  rapia.  Dietro  gridando  2oo 

Uomini  e donne  le  correan  : ma  quella 
S’accostò  , pur  da  destra  , ai  due  garzoni  | 

B davanti  ai  deslrier  rivolò  in  aito. 

Tutti  gioirò  a cotal  vista  , e primo 
Fu  Pisistrato  a dir  : Nobile  Atridc  , 

Pensa  in  (e  stesso  , se  a >e  forile  , o a noi 
Tal  prodìgio  invVaro  i Sempiterni. 

Ei  la  risposta  entro  da  sé  cercava  , 

Ma  l’antivenne  la  divina  £iéna  , 

Dicendo  , udite  me.  Quel  ch’io  indovino  , 210 
Certo  avverrà  : chè  me  l’iu.spìra  un  Nume. 
Come  questa  volante  aquila  scesa 
Dal  natio  monte  , che  i suoi  parti  guarda , 

Si  rapi  l’oca  nel  cortil  nndrita  , 

Non  altrimenti  Ulisse,  alle  paterno 
Case  venuto  da  lontani  lidi , 

Su  i Proci  piomberà  } se  pur  non  venne, 

£ inr  non  ap|>arecchia  orrida  morte. 

E Telemaco  allor  : Così  ciò  voglia 
L’altitonante  di  Giunon  marito,  220 

Come  voti  da  me  tu  avrai , qunl  Diva  ! 

Disse,  e ì destrieri  flagellò  , che  ratti 
Mosser  per  la  ciltade,  e ai  campi  uscirò. 
Correan  l’intero  dì , squassando  il  giogo, 

Che  ad  ambi  stava  sul  robusto  collo. 

Tramuniò  il  Sole , ed  ìmbrunian  le  strade  j 
£ i due  giovani  a Fera,  e alla  magione 
Di  Diócie  arrivar  , del  prode  figlio 
D’Orsiloco  d’Aiféo,  dove  riposi 
£bber  tranquilli , ed  ospitali  doni,  a5o 

Ma  come  al  Sole  con  le  man  rosate 
L’Aurora  aperse  le  celesti  porte, 

I cavalli  aggiogare  , e risalirò 
I-a  vergolata  biga  , e Pagitaro 
Fuor  dell  atrio  e del  portico  sonante. 

Sferzò  i destrieri  Pisistrato  , e i destrieri 
Di  buon  grado  volavano:  nè  molto 
Stetter  di  Pilo  ad  apparir  le  torri. 

Allor  cosi  Telemaco  si  volse 
Al  figlino!  di  Nestorre  : O di  Nestorre  240 
Figliuol , non  desti  a me  fede  , che  sempre 
Ciò  tu  faresti,  che  mi  fosse  gìoja? 

Paterni  ospiti  siam  , siam  d’un’ctade , 

£ più  ancor  ci  unirà  questo  viaggio. 

Non  mi  guidare  ultra  il  naviglio  mio , 

Colà  mi  lascia  : ritenermi  il  vecchio 
Mal  mio  grado  appo  sè,  di  carezzarmi 
Desioso , potrebbe  ; e a me  bisogna' 

Toccare  in  breve  la  natia  contrada. 

Mentre  così  l’un  favellava  all’altro  , 260 

Che  d’attener  la  sua  promessa  i modi 
Discorrea  con  la  mente  , in  questo  parve 
Dover  fermarsi.  Ripiegò  i destrieri 
Ver.so  il  mare  e il  naviglio  j e i bei  presenti, 
Onde  ornato  il  compagno  avea  l’Atride , 
Scaricò  su  la  poppa.  ludi , Su  via , 


M O Q U I N T O. 

Monta , disse , di  fretta , e a’  tuoi  comanda 
Pria  la  nave  salir,  che  me  il  mio  tetto 
Riceva  , c il  tutto  al  genitore  io  narri. 

So , qual  chiuda  nel  licito  alma  sdegnosa  : a6o 
Ti  negherà  il  congedo  , in  su  la  riva 
Verrà  egli  stesso  , e benché  senze  doni 
Da  lui , cred’io  , tu  non  jiarlissi  , un  forte 
Della  collera  sua  scoppio  io  preveggo. 

Dette  tal  cose  , alla  città  de’  Pilii 
S[iiii.se  i destrieri  dal  leggiadro  crine  , 
li  all’eccelsa  magion  rapido  giunse. 

E Telemaco  a’  suoi  : Pronti  la  nave  , 
Compagni,  armate,  e su  moiitianivi , candiamo. 
I.’ascoltaro  , e ubbidirò.  Immantinente  170 
Montava  , e s'assidea  cia.scim  su  i banchi. 

Ei , la  partenza  accelerando,  a Palla 
Prieghi  alla  poppa  , c sagriHci  olirla  : 

Quando  esul  dalia  verde  Argo  ierace 
Per  non  voluta  uci  is'ione  ignoto 
Viandante  appres-vollo  : era  indovino, 

K di  Mclampo  dalla  stirpe  sceso. 

Nella  madre  di  greggi  inclita  Pilo 
Melampo  prima  soggiornava  , e , come 
Ricco  noni , superbo  vi  abitava  ostello:  aoo 

Poi , fuggendo  la  patria  , ed  il  più  illustre 
Tra  gli  uomini  Neléo  , che  i suoi  tesori 
Un  anno  intero  riteneagli  a forza  . 

Capitò  ad  altre  genti , e duri  lacci 
Nell’albergo  di  Eliaco  , e dolori 
Gravi  sostenne  per  la  vaga  figlia 
Di  Neleo  , e per  l’audace  opta  , cui  messa 
Gli  avea  nel  capo  la  tremenda  Erinni. 

Ma  scampò  dalla  morte  , e a Pilo  addasse 
Le  coutrastate  altomugghianti  vacche , 290 

Si  vendicò  deU’infedel  Neléo  , 

E consorte  al  fralel  la  vaga  Pero 
Da  Edace  menò.  Quindi  all’altrice 
Di  nobili  destrieri  Argo  sen  venne  , _ 

Volendo  il  fato  che  su  i molli  Argivi 
Regnasse;  sposa  quivi  scelse;  al  cielo 
Levò  le  pietre  della  sua  dimora  ; 

E i forti  generò  Manlio  e Antifàte.  ^ 

Di  questo  il  grande  Oicléo  , nacque  , e d’Olcléo 
Il  salvator  di  genti  Anliarao  , 3uo 

Cui  tanto  amor  Febo  portava  , e Giove. 

Pur  di  vecchiezza  non  toccò  la  soglia  : 

Gilè  , generati  Anfiloco  e AIcmeóne  , 

Sotto  Tebe  peri  dalla  più  avara 
Donna  tradito.  Ma  da  Manlio  al  giorno 
Olito  uscirò  e Polifide.  L’Aurora  , 

Per  la  beltà  , che  in  Clilo  alla  splendea  , 
Rapillo  , e il  collocò  tra  glTnimortali  ; 

E Febo , .spento  Anliarao  , concesse 

Più  , che  ad  altr’uom  , de’  vaticinii  il  dono  3lo 

A Polifide  , il  qual , ci  ucciato  al  padre  , 

Trapassò  in  Iperemia  , ove  a ciascuno 

Del  futuro  squarciar  solea  il  Vflame. 

Figlio  a questo  era  il  pellcgrin  che  atetto 
Di  Telemaco  al  fianco  , e si  chiamava 
Tcocliinéno  : appo  la  negra  nave  , 

Mentr'ei  libava  e supplicava  , il  colse, 

E a lui  con  voci  alale  , Amico , disse  , 

Poi  ch’io  ti  trovo  a questi  ufici  intento , 
Pe'sagrifizj  tuoi , pel  Dio  cui  gli  offri,  3ao 
Per  lo  tuo  capo  stesso  , e per  cotesti 
Compagni  tuoi , non  mi  nasconder  nulla 


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ODISSEA 


8^ 

Di  quanto  io  chiederò.  Chi , e donde  sei  ? 

Dove  i parenti  a te  ? la  patria  dove  ? 

Stranier , cosi  Telemaco  rispose  , 

Su  i labbri  miei  non  sonerà  che  il  vero. 

Itaca  è la  mia  patria  , il  padre  è Ulisse  » 

Se  un  padre  ho  ancor:  quel,  di  cui  forte  io  temo. 
Però  con  negra  nave  e gente  Hda^ 

Partii , cercando  per  diversi  lochi  33o 

Novelle  di  quel  misero,  cui  luuge 
Tien  dalla  patria  sua  gran  tempo  il  fato. 

E il  pari  ai  Dei  Teocllméno:  Anch'io 
Lungi  erro  dalla  mia  , dacché  v’uccisi 
Uom  della  mia  tribù , che  lasciò  molti 
Parenti  e amici  prepossenti  in  Argo. 

Delle  lor  man  vendicatrici  uscito  , 

Fuggo } e sieguo  il  destili  che  l’ampia  terra 
Con  piè  ramingo  a calpestar  mi  tragge. 

Deh  su  la  nave  tua  me  supplicante 
Ricovra  , e da  color  che  vengon  forse 
Su  i miei  vestigi , tu  , che  il  puoi , mi  salva. 

Il  prudente  Telemaco  di  nuovo  : • 

Dalla  mia  nave , in  cui  salir  tu  bramì  | 

Esser  non  potrà  mai  ch’io  t»  respinga. 

Seguìnti  pur  : non  mancheranti  in  nave  . 

Quei , che  di  darti  è in  me  , doni  ospitali. 

Ciò  detto , l’asta  dalla  man  gli  prese , 

E della  nave  stesela  sul  palco. 

Poscia  montovvi,e  sedè  in  poppa, e almanco  35o 
Seder  sì  feo  Teocliméno.  i^iulte 
Dai  compagni  le  funi , ei  loro  impose 
Di  correre  agli  attrezzi , ed  i compagni 
Ratti  ubbidirò:  il  grosso  abete  in  alto 
Drizzare , e l’impiantaro  entro  la  cava 
Base , di  corda  raniiodaro  al  piede , 

£ le  candide  vele  in  su  tirare 

Con  bene  attorti  cuoi.  La  Dea  che  in  giro 

Pupille  tinte  d’azzurrino  muove  , 

Precipite  mandò  dal  ciclo  un  vento  35o 

Destro  t gagliardo  , perchè  in  brevi  istanti 
Hisurasse  del  mar  l’onde  il  naviglio. 

Crune  passò  il  buon  legno , e la  di  belle 
Acque  irrigata  Calcide,  che  il  Sole 
Già  tramontava,  ed  imbrunlan  le  strade; 

£ , spinto  sempre  da  quel  vento  amico  , 

Cui  governava  un  Dio , sopra  Fea  sorse  ) 

E dì  là  costeggiò  TElide , dove 
Regnan  gli  Kpei.  Quinci  il  hgliuol  d’Uiisse 
Tra  le  scoscese  Ecliinadi  si  mise  , 070 

Pur  rivolgendo  nel  suo  cor  » se  i lacci 
Schiverebbe  de*  Proci , o vi  cadrebbe. 

Ma  in  altra  parte  Ulisse  e il  buon  custode 
Sedean  sott’esso  il  padiglione  a cena  , 

£ non  lunge  sedean  gli  altri  pastori. 

Pago  de’ cibi  il  naturai  talento, 

Ulisse  favellò , tentando  Euméo , 

S’ei , non  cessando  dalle  cure  amiche , 
Ritenerlo  appo  sè  nella  sua  cara 
Stalla  intendesse , o alla  città  mandarlo.  38j 
Euméo,  disse  , m’ascolta  ; e voi  pur  tutti. 
Tosto  che  il  ciel  s’inalbi , alla  cittade , 

Ond’io  te  non  consumi , ed  i compagni , 
Condurmi  io  voglio  a mendicar  la  vita. 

Ma  tu  d’utili  avvisi , c d’una  scorta 
pidata  mi  provvedi.  Andrò  vagando 
Di  porta  in  porta , e ricercando , come 
Sforzami  rea  necessità , chi  un  pane 


Mi  porga  , ed  una  ciotola.  D’Ulìsse 
Mi  farò  ai  tetti , e alla  sua  donna  saggia  390 
Novelle  recheronne , e avvolgeronimi 
Tra  i Proci  alteri , che  lasciarmi  forse 
Nella  lor  copia  non  vorran  digiuno. 

Io , che  che  piaccia  lor , subito  e bene, 

Eseguirò  ; poiché  saper  t’è  d'uopo 
Che  per  favor  del  messaggiero  Ermete  , 

Da  cui  grazia  ed  onore  acquista  ogni  opra  | 

Tal  son  , che  ne’  servigi , o il  foco  sparso 
Raccor  convenga  , o le  nsecchc  legna 
Fendere , o cuocer  le  tagliate  carni , 

O il  vili  d’alto  versare , uffici  tutti 
Che  i minori  prestar  sogliono  ai  grandi , 

Me  nessun  vince  su  l’immensa  terra. 

Sdegnato  assai  gli  rispondesti , Euméo: 

Ahi  ! qual  peiisier  ti  cadde , ospite , iu  capo? 
Bramì  perir,  se  raggirarti  pensi 
Tra  i Proci  , la  cui  folle  oltracotanza 
Sale  del  del  sino  alla  ferrea  volta. 

Credi  a te  somigliare  i lor  donzelli? 

Giovani  in  belle  vestimenta  , ed  unti 
La  chioma  sempre,  e la  leggiadra  faccia, 
Ministrano  ai  superbì  ; e sempre  carche 
Delle  carni , de’  pani  e de’iicori 
Splendono  agli  occhi  le  polite  mense. 

Rimani  : che  iiè  a me,  nè  de’ compagni 
Grave  ad  alcun  la  tua  presenza  torna. 

Ma  come  giunto  sia  d’Ulisse  il  figlio 
Da  lui  tunica  e manto  , e da  lui  sdorta 
Riceverai , dove  che  andar  t’aggradi. 

Euméo  , rispose  il  paziente  Ulisse,  4to 
Possa  Giove  amar  te , siccome  io  t’amo , 

Te , che  al  vagar  mio  lungo  ed  all’inopia 
Ponesti  hne  ! lo  non  so  peggio  vita  : 

Ma  il  famelico  stomaco  latrante 
Gl’inopi  a errar,  per  acchetarlo,  sforza, 

E que*  mali  a sofiVir  , che  ad  una  vita 
Povera  s’accompagnano  , e raminga. 

Or  , quando  vuoi  ch’io  teco  resti,  e aspetti 
Telemaro  , su  via  , della  canuta 
Madre  d’Ulisse  parlami , e del  padre,  4^0 
Che  al  tempo  che  il  fìgliuul  sciolse  per  Trojd  , 
Della  vecchiezza  il  limitar  toccava. 

Veggon  del  Sole  in  qualche  parte  x rai  ? 

O d’Aide  la  magìon  freddi  gli  accolse  ? 

I Ospite,  ripigliò  Pindito  Euméo, 

Altro  da  me  tu  non  udrai , che  il  vero. 

Laerte  vive  ancora  , e Giove  prega 
Che  la  stanca  dal  corpo  alma  gli  tragga  : 

Tanto  del  figlio  per  l’assenza  , tanto 
Per  la  morte  si  duol  della  prudente  44*> 

Moglie , che  intat  ta  disposollo  , e in  trista 
Morendo  il  collocò  vecchiezza  cruda. 

La  lontananza  del  suo  figlio  illustre 
A poco  a poco  , ed  infelicemente , 

Sotterra  la  condusse.  Ah  tolga  Giove  , 

Che  qual  in’è  amico , e con  amor  mi  tratta  , 

Per  una  simil  vìa  discenda  a Dite  ! 

Fiuch’ella  visse  , m’era  dolce  cosa  , 

Spbben  dolente  si  mostrasse  in  faccia  , 
L’interrogarla  e il  ricercarla  spesso  ; 460 

Poich’ella  mi  nutrì  con  la  de’  pepli 
Vaga  Clìmene  , sua  figlinola  egregia  , 

K de’ suoi  parti  l’ultimo.  Con  (jue»ra 
Ciesceaini,  c quasi  m’onorava  al  pari. 


8t 


LIBRO  DECI 

Ma  come  fummo  della  nostra  etade 
Ambi  sul  primo  invidiabil  bore, 

«Sposa  lei  fero  Ìri  Sanie,  e ricchi  doni 
N’ebbero  , cd  iniinìti  j e me  con  vesti 
L.ef'giadre  in  dosso , e bei  calzari  ai  piedi  , 
Mandò  i campi  abitar  la  mia  signora  , 4^o 

Cli*i  di  cor  ciascun  dì  vie  f>iu  m'amava. 

Quanto  seco  io  perilctti  ! K ver  che  questo 
l'atiche  dure,  in  che  la  vita  io  spendo, 

Mi  fortunano  i Numi , e ch'io  gli  estrani 
Finor  ne  alimentai , non  die  me  stesso* 

Ma  di  fatti  conforto  , o di  parole 
Sperare  or  da  Penelope  non  lice: 

Qlìè  tutta  in  preda  di  superba  gente 
K la  magion  \ nè  alla  regina  potino 
Rappresentarsi  e far  domande  i servi , 470 

Pigliar  cibo  , e bevanda  al  suo  cospetto  , 

K poi  di  quello  ancor,  che  l'alma  loro 
Sempre  rallegra  , riportare  ai  campi. 

Euméo  , rispose  l’avveduto  Ulisse  , 

Te  dalla  patria  lungi  e da'  parenti 
Pargoletto  sbalzò  dunque  il  tuo  lato? 

Orsù  , rio  dimmi , e schiettamente:  venne 
La  città  disertata  , in  cui  soggiorno 
Avea  la  madre  veneranda  e il  padre? 

0 incautamente  abbandonato  fosti  4^ 

Presso  le  agnelle  o i tori , e gente  ostile 

Ti  rapì  sulle  navi , e ai  tetti  addusse 
Li  questo  re,  che  ti  comprò  a gran  prezzo? 

K 1 a rincontro  Kuioéo  , d'uomini  capo  : 
Quando  a te  risaperlo , ospite , cale  , 

Tacito  ascolta  , e goditi , e alle  labbra 
Metti  * assiso , la  tazza.  Or  così  lunghe 
Le  notti  van  , che  trapassar  si  potino 
Parte  dormendo, è novellando  parte. 

Nè  corcarti  t’è  d'uopo  innanzi  al  tempo  : 49® 

Anco  il  gran  sonno  nuoce.  Ove  degli  altri 
Ciò  piacesse  ad  alcuno , esca  c s'addorma  : 

Ma  , fatto  bianco  rOrìente , siegua  , 

N oi  digiuno  però  , grispidi  verri. 

L noi  stnliam  nel  patliglione  a mensa. 

Ambi  a viccmla  delle  nostre  doglie 
Liletto  , rimembrandole  , prendendo  ; 

Ptiirhè  db'  muli  ancora  uom  , che  solTerso 
Molto  , e molto  vagò  , prende  diletto. 

Cert’isola  , se  mai  parlar  ne  udisti , 5oo 
Giace  a Lelo  di  sopra  , c Siria  è detta  , 

T)ove  segnati  del  corrente  Sole 

1 ritorni  si  veggono.  Già  grande 

Non  è troppo  , ma  buona  ; armenti  e greggi 
Produce  in  copia  , e ogni  speranza  vince 
Col  frumento  e col  vino.  Ivi  la  fame 
Non  entra  mai , uè  alcun  funesto  morbo 
C uisuma  lento  i mìseri  mortali  : 

Mn  come  il  crine  agli  abitanti  imbianca , 

Cala,  portando  in  man  l’arco  d’argento,  5io 
Apollo  con  Artemide  , e gli  uccide 
Li  saetta  non  vista  un  dolce  colpo.  I 

Lue  cittadi  ivi  son  di  nerbo  eguale  j 
l'Ormeiiidtì  Ctesio  , il  mìo  divino 
Padre , dell'ima  e l'altra  il  Cren  reggea. 

Capitò  un  giorno  di  Fenicj , scaltra 
Gente  , e del  mar  mìsnratriee  illustre , 

Rapida  nave  negra  , che  infinite 
Chuidea  in  sè  stessa  bagattelle  industri. 
Sedusser  questi  una  l'eiitcia  donna , 5ao 

ODISSEA 


M 0 Q U I N T O. 

Che  il  padre  schiava  nel  palagio  ovea  , 

Bella  , di  gran  persona  , e di  leggiadri 
Lavoti  esperta.  1 maculati  panni 
Lavava  al  fonte  presso  il  cavo  legno, 

Quando  un  di  que’  ribaldi  a ciò  la  trasse  , 

Che  alle  femmine  incaute , ancor  che  vote 
Xoii  sien  d'ogiii  virtude , il  senno  invola* 

Poscia  chi  fosse  , richiedeale  , e donde 
Venuta  \ cd  ella  senza  indugio  l’alte 
Del  padre  mio  case  additógTi  , e disse  : 63o 

Io  cittadina  della  chiara  al  mondo 
Sidone  metallifera  , e del  ricco 
Aribaiite  figliuola  esser  mi  vanto* 

Tafj  ladroni  mi  rapirò  un  giorno  , 

Che  dai  campi  tornava  , e mi  venderò  , 
Trasportata  sul  mare  , a quel  signore , 

Che  bea  degno  di  me  prezzo  lor  diede* 

Non  ti  saria , colui  rispose  allora  , 

Caro  dunque  il  seguirci , ed  il  superbo 
De'  tuoi  parenti  rivedere  albergo  ? 54® 

Riveder  lor,  che  pur  sun  vivi , e in  fama 
Di  dovizia  tra  noi  ? Certo  mi  lòra , 

La  donna  ripigliò,  sol  che  voi  tutti 
Di  ricondurmi  al  natio  suol  giuriate 
Salva  sul  mar  navigero  , e sicura. 

Disse;  e tutti  giuravano.  £ in  tal  guisa 
Tra  Jor  di  nuovo  favellò  ta  donna  : 

Statevi  or  cheti , e o per  trovarmi  al  fonte 
£ incontrarmi  tra  via , nessun  mi  parli. 
Kisaprcbbelo  il  vecchio,  e di  catene  5So 
Me  graverebbe  , sospettando  , e a voi 
Morte , crcd'io , macchiiieria.  La  cosa 
Tenete  dunque  in  seno  , e a provvedervi 
Di  quanto  v'è  mestier  , pensate  intanto. 

La  nave  appìen  vettovagliata  e carca , 
(Giungane  a me  l’annunzio  in  tutta  fretta, 
iCd  io  , non  che  altro  , recherò  con  meco 
Quanto  sotto  alle  man  verramml  d'oro. 

Altra  mercè  vi  darò  ancora  : un  figlio 
Di  quest’ottimo  re  nel  suo  palagio  56o 

Rallevo , un  vispo  tal , che  ad  ogn'istante 
Fuor  mi  scappa  di  casa.  Io  vi  prometto 
Alla  nave  condurlovì;  nè  voi 
Picciol  tesor  ne  ritrarrete,  ovunque 
Per  venderlo  il  meniate  a estranie  genti* 

Disse,  e alla  reggia  ritornò.  Coloro,. 

Nel  paese  restando  un  anno  intero  , 

F<-au  di  vitto  e di  merci  immenso  acquisto* 
Fornito  il  carco , e di  salpare  in  punto , 

Un  messaggio  alla  femmina  spedirò  , 57  1 

Uomo  speitir  d'accorgimenti  mastro, 

Che  con  un  bello , aureo  monile  , e d'ambra 
Vagamente  intrecciato  , a noi  sen  venue* 
Madre  ed  ancelle  il  rivolgean  tra  mano  , 

Prezzo  non  lieve  promettendo  , c a gara 
Gli  occhi  vi  lenean  su.  Tacitamente 
Quegli  ammiccò  alla  donna:  indi  alla  Davo 
Drizzava  i passi.  Ella  per  inatio  allora 
Presemi , e fuori  usci  : trovò  le  mense 
NeiPatriu,  e i nappi , in  che  bevean  del  padre 
I commensali  al  parlamento  andati  6S0 

Con  esso  il  padre  caro  ; e di  que’  nappi 
Tre  , che  in  grembo  celò  , via  ue  portava  j 
£<1  io  seguiala  nella  mia  stoltezza. 

Già  tramontava  il  Sole , e di  tenebre 
Ricopriasi  ogui  strada  ; e noi  veloci 

IX 


8i 


ODISSEA 


(ìjungemmo  al  porto  f alla  Ffnicia  nave. 

Tutti  salili  , campagne  acquose 
Fendevam  lieti  con  un  vento  in  poppa  f 
Che  da  Giove  spiccavasi.  Sei  giorni  690 

Le  fendevamo , e notti  sei  : ma  Giove 
Il  settimo  non  ebbe  agli  altri  aggiunto  > 

Che  dalla  Dea  d’avventar  dardi  amante 
Colpita  fu  la  nequitosa  donna. 

Nella  sentina  con  rimbombo  radde» 
f^)uasi  trafitta  folaga.  Tra  l’acq  le 
scagliaro  i Temei  » esca  luiura 
Ai  marini  vitelli  ; e nella  nave 
Solo  io  rimasi,  abbandonato  e mesto. 


Fui  Tonda  e il  vento  li  sospinse  ai  lidi  600 
D’Itaca  , dove  me  comprò  Laerte. 

£ così  questa  terra  , ospite,  io  vidi. 

Lumeo  , rispose  il  paziente  Ulisse  , 

IVIoito  a meTalma  commovesti  in  petto» 
Narrando  i casi  tuoi.  Ma  Giove  almeno 
Vicin  tosto  ti  pose  al  male  ìl  bene  » 

Poiché  venisti  ad  un  signor  cortese  » , 

Che  quanto  a rallegrar,  non  che  a serbare , 

La  vita  è d’uopo,  non  ti  niega.  Ed  io 

Sol  dopo  lunghi  e incomodi  viaggi  610 

l>i  terra  in  terra  , a queste  rive  approdo. 

Tali  fra  lor  correan  parole  alterne. 

Dormirò  al  fin , ma  non  un  lungo  sonno  : 

Chè  in  ^ggio  a comparir  d’oro  la  bella 
Già  non  tardò  ditirosata  Aurora. 

Frattanto  di  Telemaco  i compagni 
Presso  alla  riva  raccogliean  le  vele. 

L’albero  dechinàr,  lanciaro  a remi 
La  nave  in  porto  , Tancore  gittaro» 

Ed  i canapi  avvinsero.  Ciò  fatto  , 610 

Sul  lido  asciano,  ed  allestian  la  cena. 
KIntuzzata  la  fame , e spenta  in  loro 
La  sete  ,.Voi , così  d’Uiisse  il  figlio, 

Alia  città  guidatemi  la  nave , 

Mentre  a’iniei  campi  ed  ai  pastori  io  movo. 
Del  cielo  alTimbrunir,  visti  ì lavori» 

Io  pure  inurberommi , e in  premio  a voi 
Lauto  domane  imbandirò  convito. 

Ed  io  dove  ne  andrò  , figlio  diletto  ? 
Teodiméno  disse.  A chi  tra  quelli , C3o 

Che  nella  discoscesa  Itaca  sono 
Più  potenti,  offrirommi?  Alla  tua  madre 
Dritto  ir  dovronne , e alla  magion  tua  bella  ? 

Il  prudente  Telemaco  riprese: 
lo  stesso  in  miglior  tempo  al  mio  palagio 
T'invicrci , dove  cortese  ospìzio 
Tu  non  avresti  a desiare.  Or  male 
Capiteresti  ; in  non  sarei  con  tcco , 

Nè  te  vedria  Penelope , che  scevra 


Dai  Proci , a cui  raro  si  mostra , tele 
Nelle  più  alte  stanze  a oprare  intende. 

Un  uom  bensì  t’additerò  , cui  franco 
Puoi  presentarti  ; Eurimaco  , del  saggio 
Polibo  il  figlio , che  di  Nume  in  guisa 
Onoran  gTÌtacesi.  Egli  è il  più  prode  , 

R il  regiiojniù  , che  gli  altri , e la  consorte 
D’Uli&se  affetta.  Ma  se  pria  , che  questo 
Maritaggio  si  compia  , i Proci  tutti 
Non  scenderaimo  ad  abitar  con  Fiuto  , 
L’Olimpio  il  sa  , benché  sì  alto  alberghi.  660 

Tal  favellava  } ed  uh  augello  a destra 
Gli  volò  sovra  il  capo , uno  sparviere , 

Ratto  nunzio  d’Apollu  : avea  nell’ugne 

Bianca  colomba  , e la  spennava  , e a terra 

Fra  lo  stesso  Telemaco  e la  nave 

Le  piume  ne  spargea.  Teodiméno 

Ciò  vide  appena,  che  il  garzon  per  mano 

Prese , e il  trasse  in  disparte  , e sì  gli  disse  : 

Senza  un  Nume,  o Telemaco,  l’augello 

Non  volò  a destra.  Io,  che  di  contra  il  vidi,  6G0 

Per  augurale  il  riconobbi.  Stirpe 

Più  regia  della  tua  qui  non  si  trova  , 

Qui  possente  ad  ognor  fia  la  tua  casa. 

Cosi  questo  , Telemaco  rispose  , 

S’avverj , o forestier , cora'io  tai  pegni 
Ti  darei  d’amistà  , che  te , chiunque 
Ti  riscontrasse,  chiameria  beato. 

Quindi  si  volse  in  cotal  guisa  al  fido 
Suo  compagno  Pirèo:  Figlio  di  dito  , 

Tu  , che  le  voglie  mie  Testi  mai  sempre  C70 
Tra  quanti  a Pilo  mi  seguirò,  e a Sparla, 
Condurmi  il  forestiero  in  tua  magione 
Piacciati , e usargli , finché  io  vengo,  onore. 

Per  tardi , gli  rispose  il  buon  Firéo, 

Che  tu  venissi  , Io  ne  avrò  cura  , e nulla 
D’ospitale  saia  che  nel  mio  tetto , 

Dove  il  condurrò  tosto,  ei  non  riceva. 

Detto,  salse  il  naviglio , e dopo  lui 
Gli  altri  saììanlo , e s’assidean  su  i banchi. 
Telemaco  s’awiiiae  i bei  calzari  680 

Sotto  i piè  molli , e la  sua  valid’asta 
Rameappuntata  , che  giacea  sul  palco 
Della  nave,  in  man  tolse}  e quei  le  funi 
Sciolsero.  Si  spingean  su  con  la  nave 
Vèr  la  città,  come  il  garzone  ingiunse; 

Ed  ei  studiava  il  passo , in  sin  che  innanzi 
Gli  s’aperse  il  cortile  , ove  le  molte 
S’accovacciavan  setolose  scrofe , 

Tra  cui  vlvea  l'inclito  Eumeo,  che,  o fosse 
Nella  veglia  o nei  sonno,  i suoi  padroni  690 
Dormendo  ancor , non  che  vegliando , amava 


I 


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LIBRO  D E CI M 0 S E S T 0 


ARGOMENTO 

Lclitiu  d'Eum^  airarrÌTo  di  Telemaco , che  mandalo  alladttii«  per  avvertir  del  suo  ritorno  la  madre.  Minerva 
appare  ad  Llisae,  gli  restituisce  le  sue  sembiause^  e gli  cuniaoda  di  scoprirli  al  fìgliuulu.  luUutu  rjue*  Bruri 
chVninu  in  agguato  ^ accortisi  del  riloruo  dì  Telemaco  ^ e->coDu  di<|uello,  e si  reodono  io  Itaca.  Euuiéo  ^ eseguilo 
l’ordioe  y ai  ricuudua:  alla  villa  y ne  riconosce  [*erù  Lliise , cui  Pallade  nuovamente  trasfurma. 


Xj  inclito  Eiiméo  nel  padiglione  , f Ulisse, 
llacceso  il  luco  ìii  su  la  prima  luce  , 

Le^gier  pasto  allesiiaiio  ; e l'uori  al  campo 
Cu*  neri  porci  uscian  gli  altri  custodi. 

Ma  i cani  iatrator  , non  che  a Triemaco 
Non  abbajar  , festa  gli  feano  intorno. 

S’avvide  Ulisse  del  blandir  de'  cani , 

E d’uomo  un  calpestìo  racccdsu  , e queste 
Voci  drizzò  al  pastur':  Certo  qua  , Kuméo  , io 

0 tuo  compagno  o conoscente,  giunge  j 
Eoirhè  , lontani  dal  gridare  , i caui  - 
Latratori  carezzatilo  , ed  il  basso 

De’  suoi  vicini  piè  strepito  io  sento. 

Non  era  Ulisse  al  fin  di  questi  detti , 

Clic  nell’atrio  Telemaco  gli  apparve. 

Balzò  Euméo  stupefatto  , e a lui  di  mano 

1 vasi , ove  mescea  l’ardente  vino  , 

Caddero  : andogli  incontro  , e il  capo  , ed  ambi 
Gli  baciò  i rilucenti  occhi  e le  mani , 

E un  largo  pianto  di  dolcezza  sparse.  2u 

Come  tenero  padre  un  figlio  abbraccia  , 

Che  il  decim'anno  da  remota  piaggia 
Kitorna  , unico  figlio  , e tardi  nato  , 

Per  cui  soflVì  cento  dolori,  e cento  : 

Non  altrimenti  Eumóo  , gittate  al  collo 
Del  leggiadro  Telemaco  le  braccia  , 

Tutto  baciollo,  quasi  allora  uscito 
Dalle  branche  di  Morte , e lagriniandu  , 
Telemaco  , gli  disse  , amato  lume  , 

Venisti  adunque  ! Io  non  avea  più  speme  .^o 
Di  te  veder , poiché  volasti  a Pilo. 

Su  via  , diletto  figlio  , entrar  ti  piaccia  , 

Sì  ch’io  goda  mirarti  or  , che  d’altronde 
Nel  mio  soggiorno  capitasti  appena. 

Baro  i campi  tu  visiti , e i pastori  : 

Ma  la  città  ritientì , e la  funesta 
Turba  de'Proci  che  osservar  ti  cale. 

Entrerò  , babbo  mìo,  quegli  rispose: 

Chè  per  le , per  vederti , e le  tue  voci 

Per  ascoltare  , al  padiglione  io  veglio.  4o 

Pestami  nel  palagio  ancor  la  madre? 

O alcun  de’Fruci  disposolla , o nudo 
Di  coltri  e strati , e ai  suzzi  aragnì  in  preda 
Giace  del  figlio  di  Laerte  il  letto  ? 

Nel  tuo  palagio,  ripigliava  Eumóo , 

Rimali  con  alma  intrepida  la  madre , 

Benché  nel  pianto  a lei  passino  i giorni , 

Passili  le  notti  ; ed  ella  viva  indarno. 

Ciò  detto,  l’asta  dalla  man  gli  prese, 

E Telemaco  il  piè  mette  sul  marino  5o 

Della  soglia  , ed  entrava.  Ulisse  a lui 
Lo  scauno  , in  cui  sedea  , cesse  : ma  egli 
Dal  lato  suo  non  consentìalo  , e , Statti', 
P'orestier,  disse  , assiso:  un  altro  seggio 
Noi  troverem  nella  capanna  nostra, 


Nè  quell’uomo  è lontan  , che  dar  mel  puote. 

Ulisse  , indietro  fattosi  , di  nuovo 
Sedea.  Ma  il  saggio  guardìan  distese 
Virgulti  verdi  , e una  vellosa  pelle , 

E il  garzon  v’adagiò.  Poi  le  rimaste  Co 

Dal  giurilo  addietro  abbru.stolate  carni 
Lor  recò  su  1 taglieri;  e ne’cauestri 
Posti  l’un  sovra  l’altro  in  fretta  i pani, 

£ il  rosso  vino  nelle  tazze  infuso , 

Ad  Ulisse  di  centra  egli  s’assise. 

Sbramato  della  mensa  ebbero  appena 
Il  desiderio  natura) , che  queste 
Telemaco  ad  Euméo  dnzzu  parole  : 

Babbo  , d’onde  quest’ospite  r In  che  guisa 
E quai  nocchieri  ad  Itaca  il  meuaru  ? 

Certo  a piedi  su  l’onda  ei  qua  non  venne. 

E tu  così  gli  rispondesti , Kuinùo  : 

Nulla  , figliuoi , ti  celerò.  Natio 
Dell’ampia  Creta  egli  si  vanta  , e dice 
Molti  paesi  errando  aver  trascorsi 
Per  volontà  d’un  Nume  avverso.  Al  fine 
Sì  calò  giù  da  una  Tesprozia  nave  , 

K al  mio  tugurio  trasse.  Io  tei  consegno. 

Quel  che  tu  vuoi , ne  fa  : sol  ti  rammrnia 
Lh’ei  di  tuo  supplicante  ambisce  il  nome.  8o 

Grave  al  mio  cor  , Telemaco  riprese  , 

Parola  , Euméo , tu  proferisti.  Come 
L’ospite  ricettar  nella  paterna 
Magion  poss'io  ? T roppo  io  son  verde  ancora, 
Nè  rispinger  da  lui  con  questo  braccio 
Chi  primo  l’assalisse,  io  ini  confido. 

- La  madre  sta  infra  due  , se  , rispettando 
La  comun  voce  e il  maritai  suo  letto  , 

Viva  Col  figlio  , e la  magion  governi , 

O a quel  s’unisca  degli  Achei , che  doni  (j 
Le  presenta  più  ricchi , ed  è più  prode. 

Bensì  al  tuo  furestier  tunica  e manto  , 

E una  spada  a due  tagli  , e bei  calzari 
Dar  voglio,  e là  inviarlo  , ov’ei  desia. 

Che  se  a te  piace  ritenerlo  , e cura 
Prenderne,  io  vesti  , e d'ogni  sorta  cibi. 
Perchè  te  non  consumi,  e i tuoi  compagni. 

Qua  manderò.  Ma  cli’ei  s’accusu  ai  Proci , 

Che  d’ingiurie  il  feriscano  , e d’oltraggi 
Con  dolor  mio  , nun  sarà  mai  ch’io  sofl'ra.  too 
Che  potrìa  contro  a tanti  e sì  valenti 
Nemici  un  sol , benché  auimoso  e forte  ? 

Nobile  amico , così  allora  Ulisse  , 

Se  anco  a me  favellare  or  si  concede  , 

H cor  nel  petto  mi  si  rode  , udt'iulo 
La  indegnitade  in  tua  magion  de’Froci  , 

Mentre  di  tal  sembiante  Ìo  pur  ti  veggo. 

Cedi  tu  Tokjntario  ? O in  odio  forse 
Per  l’oraco!  d’un  Dio  t'ha  la  cittade? 

O i fratelli  abbandònanti , cui  tanto  i io 


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84  O B I S 

S'tìffida  l'uom  nelle  più  3nre  imprese  ? 

P'Tchè  con  questo  cor  l'età  mia  prima 
TJon  ho?  Perchè  non  son  d'Ulisse  il  figlio? 
Perchè  Ulisse  non  son  ? Vorrei  che  tronco 
Per  mano  estrana  mi  cadesse  Ì1  capo  , 
fi’io  , nella  reggia  penetrando  » tutti 
I^'on  mandassi  in  rovina.  £ quando  ancora 
3VIe  soverchiasse  l’inlinita  turba, 

Perir  torrci  nella  mia  reggia  ucciso 

Pria  che  mirar  tuttora  opre  si  turpi , ilo 

Gli  ospiti  mai  menati , violate 

Ahi  colpa  ! le  fantesche  , ed  inghiottito 

A caso  , indarno  , e senza  fine  o frutto  , 

Quanto  sì  miete  ogni  anno  e si  vendemmia. 

Straniero  , eccoti  il  ver , ratto  rispose 
Il  prudente  Telemaco:  non  tutti 
31 'odiano  ì cittadin  , nè  deTratellI, 

Cui  tonto  l’uom  nelle  più  dubbie  imprese 
Aiuole  appoggiarsi , ricliiamarmi  io  posso. 

Volle  il  Saturnio  che  di  nostra  stirpe  i3o 
D età  in  età  spuntasse  un  sol  rampollo. 

Arresio  generò  Laerte  solo , 

Laerte  il  solo  Ulisse,  e poscia  Ulisse 
3Io  lasciò  nel  palagio  , unico  figlio  , 

I)i  cui  poco  godè  : quindi  piantossi 
INeraira  gente  al  nostro  albergo  iinserio. 

Quanti  ha  I)ulichio  e Same  , e la  selvosa 
iacinto  , e la  pietrosa  Itaca  prenci  , 

C ascun  la  destra  della  madre  agogna. 

pnia  uè  rigettar  può  , nè  fermare  140 

I.e  inamabili  nozze.  Intanto  ì Proci 

Cuopruno  i deschi  con  le  pingui  membra 

I)e)le  sgozzate  vittime  , e gli  averi 

IVIi  struggo!)  tutti  ; nè  andiù  multo  forse , 

Che  più  grata  sarò  vittima  io  stesso. 

31a  Ciò  dc’Nunit  su  i ginocchi  posa. 

Ilabbo  , tu  vanne  rapido  , e alla  madre 
Amarra  che  salvo  io  le  tornai  da  Pilo, 

('osi  narralo  a lei , clic  alcun  non  Poda 
Begli  Achivì , e qua  riedì , ov’io  m’arresto.  i5o 
Jien  sai , che  multi  del  mio  sangue  han  sete. 

£ tu  in  risposta  gli  dicesti , £uméo  : 

Conosco , veggo  , ad  uom  , che  intende , parli. 
3tfa  non  vorrai  che  messo  aU’ml'elice 
Xaerte  ancor  per  la  via  stessa  io  vada  ? 

Pi , pensoso  d'Ulìsse  un  tempo  e tristo  , 
l'ur  dei  campi  ai  lavor  guardava  intento 
£ , dove  brama  nel  pungesse  , in  rasa 
Pasteggiava  co’  servi.  Ed  oggi  è fama 
Che  da  quel  di  che  navigasti  a Filo  , 160 

Kè  pasteggiò  co'  servi  , nè  de'  campi 
P.ù  ai  lavori  guardò  : ma  sospirando 
S^iede,  e piangendo,  e alle  scarne  ossa  intanto 
S'afEgge  , ohimè  ! l'inaridita  cute. 

Gran  pietade  ! Telemaco  riprese. 

3Ta  lasciamolo  ancor  per  brevi  istanti 
T^ella  sua  doglia.  Se  in  man  nostra  tutto 
Posse  , il  ritorno  a procurar  del  padre 
3fon  si  rivolgerebbe  ogni  mia  cura  ? 

Esponi  adunque  l’ imbasciata  , e rìedi , 170 

Kè  a lui  pe'  campi  divertir  ; ina  solo 
Priega  la  madre  , che  in  tua  v^-ce  al  vecchio 
Secreta  imbascìatrice  c frettolosa 
La  veneranda  economa  destini. 

Detto  cosi , eccitolio  ; ed  eì  con  mano 
Presi  i calzari^  e avvintiseli  ai  piedi , 


S E A 

Subitamente  alla  città  tendea. 

Non  parti  dalla  stalla  il  buon  custodei 
Che  l’armigera  Dea  non  se  ne  addesse. 

Scese  dal  cielo  , c somigliante  in  vista  180 

A bella  e grande , e de'  più  bei  lavori 

Femmina  esperta , si  fermò  alla  porta 

Del  padiglioii  di  contra  . e a Ulisse  apparve. 

Telemaco  non  vìdela  : cliè  a tutti 

Non  si  Diostran  glTddii.  Videla  il  padre  , 

K i mastini  la  videro , che  a lei 
Kon  abbajàr , ma  del  cortil  nel  fondo 
Trepidi  si  chiaro  e guajolanti. 

Ella  accennò  cu' sapracciglì . e il  padre 
La  intese  , ed  uscì  tuuri , e innanzi  stette  o 
Nella  corte  alla  Dea  , che  sì  gli  disse  : 

0 Laerziade  generoso  e accento  , 

Tempo  è che  al  tuo  fìgliuol  tu  ti  palesi , 

Onde,  sterminio  meditando  ai  Proci, 

Moviate  uniti  alla  città.  Vicina  , 

Ed  accinta  a pugnar  , tosto  m'avrete. 

Tacque  Minerva  , e della  verga  d'oro 
Tuccollo.  £d  ecco  circondargli  a un  tratto 
Belle  vesti  le  membra  , e il  corpo  farsi 
Più  grande  e più  robusto  ; ecco  le  guance  30o 
Stendersi , e già  ricolorari>ì  in  bruno  , 

E all’azzurro  tirar  su  per  lo  mento 

1 peli  , che  parean  d'argento  in  prima. 

La  Dea  spati , rientrò  Ulisse  ; e il  figlio  , 

Da  maraviglia  preso  e da  terrore  , 

Chinò  gli  sguardi  , e poscia  , Ospite  , disse , 
Altro  da  quel  di  prima  or  mi  ti  mostri, 

Altri  panni  tu  vesti , ed  a te  stesso 
Più  non  somigli.  Alcun  per  fermo  sei 
Degli  abitanti  dell’Olimpo.  Amico  210 

Guardane , acciò  per  noi  vittime  grate  , 

(irati  s'ofl'rano  a te  doni  nell’oro 
Con  arte  sculti  : ma  tu  a noi  perdona. 

Non  sono  alcun  deg’lmmortali , Ulis.se 
Gli  risporideo.  Perchè  agli  Dei  m'agguagl»? 
Tuo  padre  io  son  : quel  per  cui  fante  sodi  i 
Nella  tua  fresca  età  sciagure  ed  onte. 

Così  dicendo  , baciò  il  figlio  , e al  pianto, 
Che  dentro  gli  occhi  avea  costantemente 
Ritenuto  sin  qui , l’uscita  aperse.  220 

Telemaco  d’aver  su  gli  occclii  il  padre 
Credere  ancor  non  sa.  No,  replicava  , 

Ulisse  tu  , tu  il  genitor  non  sei , 

Ma  per  maggior  mia  pena  un  Dio  m’inganna. 
Tai  cose  oprar  non  vale  uom  da  tè  stesso  , 

Kd  è mestier  che  a suo  talento  il  voglia 
n ingiovanire  , od  invecchiarlo  , un  Nume. 
Bianco  i capei  testé  , turpe  le  vesti 
Eri , ed  ora  un  Celicelo  pareggi. 

Telemaco  , riprese  il  saggio  eroe  , a3o 
Poco  per  veritade  a te  s'addice  , 

-Mentre  po.ssiedi  il  caro  padre  , solo 
Maraviglia  da  luì  trarre  e spavento  ; 

Chè  un  altro  Ulisse  aspetteresti  indarno. 

Sì , quello  io  son  , che  dopo  tanti  adunili 
Durati  e tanti,  nel  vigesim'anno 
La  mia  patria  rividi.  Opra  fu  questa 
Della  Tritonìd  bcllico.sa  Diva  , 

Che  qual  più  aggrada  a lei , tale  mi  forma  , 

Ora  un  canuto  mendicante  , e quando 
Giovane  con  bei  panni  al  corpo  intorno  : 

Però  che  alzare  uu  de  mortali  al  cielo , 


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85 


LIBRO  OECIMOSESTO. 


0 nogìì  abi&si  porlo  , c lieve  ai  Numi. 

Cu»)  detto  , s’a9»ì»«.  Il  tiglio  allora 

Del  geiititor  fi’abbaiidunò  &ul  collo  « 

In  lagrime  scoppiando  ed  in  singhiozzi. 

Ambi  un  vivo  desir  senlian  del  pianto  : 

Nè  di  voci  ai  debili  e stridenti 
Risonar  s'ode  il  saccheggiato  nido 
D'aquila  o d'avoUojo  , a cui  pastore  l5u 
Rubò  i figliuoli  non  am  or  pennuti , 

Come  de’pianti  loro  e delle  grida 
lUiseramente  il  padigiioii  sonava. 

R già  piagnenti  e sospirosi  ancora 
^.asciali  avriaìi  » tramontando,  il  Sole, 

Me  il  figlio  al  padre  non  dìccu  : Qual  nave  , 
Radre  , qua  ti  condusse  , e quai  nocchieri  ? 
Certo  ili  Itaca  il  piè  non  ti  portava. 

Celerò  il  vero  a te?  l'eroe  rispose. 

1 Fcaci  sul  mar  dotti , e di  quanti  aGo 

Giungono  errando  alle  lor  piagge  , iudustri 
Ricoiuluttori  , me  su  ratta  nave 
Dormendo  per  le  salse  onde  guidare , 

R in  Itaca  ueposero.  Mi  lèro 
Di  bronzo  in  oltre  e d'uro  , e Intesti  f)armi , 
Bei  doni , e molli  , che  in  proionde  grotte 
Ver  consiglio  divin  giaccioumi  ascosi. 

Rd  io  qua  venni  al  hn , teco  de'Procr 
Nostri  nemici  a divisar  la  strage , 

Coll  l’avviso  di  Pallade.  Su  , via  , 370 

Contali  8 me , sì  ch’io  conosca  , quanti 
L'tuuini  sono  , e quali , e nella  mente 
Libri , se  contra  lor  combatter  soli  , 

O in  ajuto  chiamare  altri  convegna. 

O padre  mio , Telemaco  riprese  , 

10  sempre  ridia  te  celebrar  la  fama 
Bellicoso  di  man  , di  mente  accorto  t 
Ma  tu  cosa  dicesti  or  gigantesca 
Cotanto , che  alta  maraviglia  tiemmi. 

Due  soli  battagliar  con  molti  e lorti?  280 
Non  pensar  , che  a una  decade  , o a due  sole , 
Montili:  sono  assai  più.  Cinquantadue 
Ciiovani  eletti  da  Dulichto  uscirò  , 

R sei  donzelli  li  seguiano.  Venti 
Ne  mandò  Same  , e quattro  ; e abbaudonaro 
Venti  Zbciiito.  Itaca  stessa  danne 
Dridici , e tutti  prudi  ; e v’ha  con  essi 
Meduntc  araldo  , ed  il  cantor  divino , 

R due  nell'arte  loro  incliti  scalchi. 

Ci  aflronterem  con  questa  turba  intera  , 2qo 
Che  la  nostra  magìoii  possiede  a furjw  ? 

Temo,  che  allegra  non  ne  avrem  vendetta. 

rinvenir  si  può  r hi  a noi  soccorra 
Con  pronto  braccio  e cor  dunque  tu  pensa. 

Chi  a noi  soccorra  ? rispondeagli  Ulisse. 
Giudicar  lascio  a te,  fìglio  diletto. 

Se  Tallade  a noi  basti,  e busti  Giove, 

O cercar  d’altri , che  ci  ajuti , io  deggla. 

R il  prudente  Telemaco:  Quantunque 
Siedan  lungi  da  noi  su  l'alte  nubi , 3oo 

Nessun  ci  può  meglio  ajntar  di  loro  , 

Che  su  ì mortali  imperano,  e su  ì Divi. 

Non  sederan  da  noi  lungi  gran  tempo  , 

11  saggio  Uhsse  ripigliava  , quando 
Sarà  della  gran  lite  arbitro  Marte. 

Ma  tu  il  palagio  su  l’aprir  dtdi'alba 
Tiora,  e t'aggira  tra  i superbì  Proci. 

Me  poi  simile  in  visla  ai  uu  uiendtco 


Dispregevole  vecchio  il  fido  K'iméo 

Nella  cittade  condurrà.  Se  oluaggio  3lO 

Mi  verrà  latto  tra  le  uoalre  uiuiu  , 

SollVilo  ; e dove  ancor  tu  mi  vedessi 
Trar  per  li  piè  fuor  della  soglia  , o segno 
D’aceibi  colpi  far,  lo  sdegno  allVeiia. 

Sol  di  cessar  dalle  follie  gli  esorta 
Parole  usando  di  mele  cousperse , 

A cui  non  baderun  : però  che  pende 
L'ultimo  sovra  lor  giorno  fatale. 

Altro  dirotti , e tu  f(HÌe|  conserva 

Nel  tuo  pi'Uo  ne  fa.  Sei  tu  mio  tiglio?  320 

Scorre  per  le  tue  vene  il  sangue  mio  ? 

Non  oda  aleuti  ch'è  in  sua  magione  Ulisse  j 
K nè  a Lacrte  pur  , nè  al  lido  Euiuéo  , 

Nè  alla  stessa  Penelope  , ne  venga. 

Noi  soli  spì'erein  , tu  ed  io , l'ingegno 
Dell’ancelle  e de’  servi } e vedreiu  imi , 

Qual  ci  rispetti , e nel  suo  cor  ci  tema  , 

U quale  a me  non  guardi , e le  non  curi , 
Benché  fuor  dell’infanzia , e non  da  jeri. 

Padie,  riprese  il  giovineltu  illustre,  33o 
Spero  che  me  conoscerai  tra  poco  , 

E ch'io  nè  ignavo  ti  parrò  , nè  folle.  * 

Ma  troppo  utile  a noi  questa  ricerca  , 

Credo,  non  fora;  e c<ò  pesar  ti  stringo. 

Vagar  dovresti  lungamente,  e indamo, 
Visitando  i lavori , e ciascun  servo 
Tentando;  e intanto  i Proci  entro  il  palagio 
Ogni  sostanza  tua  struggon  tramjuiili. 

Ben  tastar  puoi  delle  iaiitesche  1 alma  , 

Qual  colpevole  sia  , quale  iiiuoceiite  : 3^0 

Ma  de' famigli  a investigar  pt:' campi 
Soprastare  io  vorrei , se  di  vittoria 
Segno  ti  diè  l’egidarmalo  Giove. 

Mentre  si  feaii  da  lor  queste  parole. 

La  nave,  che  Telemaco  e i compagni 
Condotti  avea  da  Pilo,  alla  cittade 
Giunse  , e nel  porto  entiò.  Tiraro  in  secco 
Gli  abili  servi , e disarmaro  il  legno  , 

K di  dito  alla  casa  i preziosi 
Duui  recaro  dell'Atride.  In  oltre 
Mosse  un  araldo  alla  niagiou  d'UIisse 
Nunzì'ando  a Penelope  che  il  tiglio 
Ne’  campi  suoi  si  truttcnt  a , perch'ella  , 

Visto  entrar  senza  lui  nel  porto  il  legno , 

Di  nuovo  pianto  non  bagnasse  il  volto. 
L’araldo  ed  il  pastor  dier  Tua  nell  altro 
Con  la  stessa  imbasciata  entro  i lor  petti. 

Vè  pria  varcar  della  magiou  la  soglia  , 

Che  il  bauditor  gridò  tra  le  fdnte»che: 

Heina  , è giunto  il  tuo  diletto  tiglio. 

Ma  il  pastore  a lei  sola , ed  all’oreu  hio  , 

Ciò  tutto  espose  , che  versato  in  cure 
felemaco  gli  avea  : quindi  alle  iiiaudre 
Ritornare  aHVettavasi  , l’eccelse 
Case  lasciando  , e gli  steccati  a tergo. 

Ma  tristezza  e dolor  t’animo  invane 
De’  Proci.  Uscirò  del  palagio  , il  vasto 
Cortile  aUraversaro  , ed  alle  porte 
S>*deaa  davanti.  Amici , in  colai  guisa 
Eurimaco  a parlar  tra  lor  lu  il  primo, 

Kbhen  , che  dite  voi  di  questo  , a cui 
Fede  sì  poca  ciascliedun  pregiava  , 

Viaggio  di  Telemaco  ? Gran  cosa 
CvUo,  e couduUa  audau^uu-uie  a Bue. 


5Go 


370 


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ODISSEA 


86 

Cunvìeu  nave  mandar  delle  mìftliori' 

Con  buoni  remiganti , acciocché  tornì 
Quella  di  botto  , che  agli  agguati  stava. 

Profferte  non  avea  Pultirae  voci, 

Che  Auhnomo  , rivolti  al  lido  gli  occhi , 

Un  legno  scorse  nel  profondo  porto  , 38o 

Ed  altri  intesi  a ripiegar  le  vele, 

Altri  ì remi  a deporre , e , dolcemente 
Kidendo  , non  s’ mvii  messaggio  alcuno  , 

Disse  , già  dentro  sono  : o un  Num«  accorti 
Li  fece , o trapassar  videro , e indarno 
Giunger  tentaro  del  garzon  la  nave. 

Sorsero  , e al  lite  andato.  Il  negro  legno 
Fu  tratto  in  secco , e disarmato  j e tutti 
Per  consultar  si  radunato  i Proci. 

Kc  con  lor  permettean  che  altri  sedesse,  690 
Giovane  o vecchio  ; e cosi  Antinoo  disse  : 

Poh  ! come  a tempo  il  dilivraro  i Numi  ! 
L'intero  di  su  le  ventose  cime 
A vicenda  sedean  gli  esploratori  : 

Poi , dato  volta  il  sol , la  notte  a terra 
Mai  non  passammo  , ma  su  ratta  nave 
Stancavam  Ponde  sino  ai  primi  albori , 
Tendendo  insidie  al  giovane,  e Pestremo 
Preparandogli  eccidio.  E non  pertanto 
Nella  sua  patria  il  ricondusse  un  Dìo.  400 
Coiisultiam  dunque  , come  certa  morte 
Dare  al  giovane  qui.  Speriamo  indarno 
La  nostra  impresa  maturar,  s'ei  vive: 

Chè  non  gli  falla  il  l>eiino  ^ e a lavor  nostro 
J.a  gente , come  un  dì , più  non  inchina. 

Non  aspettiam  che  a parlamento  ei  chiami 
Gli  Achivi  tutti , nè  crediam  che  lento 
Si  mostri,  e molle  troppo.  Arder  di  sdegno 
Veggolo , e,  sorto  in  piè , dir  che  ruiiia 
Noi  gli  ordivamo,  e che  andò  ilcolpoa  vòto.410 
Prevenirlo  è mestieri , e o su  la  via 
Della  cittade  spegnerlo  , o ne'campì. 

Non  place  forse  a voi  la  mìa  favella  , 

K bramate  ch'ci  viva , e dei  paterno 
Hetaggio  goda  interamente?  Adunque 
Noi  dal  fruirlo  ritiriameì,  Puno 
Disgiungasi  dall'altro,  e a!  proprio  albergo 
Si  renda  : indi  Penelope  rìchìena, 

E quel  cui  sceglie  il  fato , e che  offre  a lei 
Più  ricchi  doni,  la  regina  impalmi.  4^0 

Tutti  ammutirò  a cotai  voci.  Ai  fine 
Sorse  tra  lor  delPArezìade  Niso 
La  regia  prole  , Ànfìiiomo , che  , duce 
Di  quei  competitor  che  dal  ferace 
Dulichio  uscirò  , e di  più  sana  mente 
Tra  ì rivali  dotato  , alla  regina 
Men,  che  ogni  altro  , sgradìa  cu'detti  suol. 
Amici , disse,  troppo  forte  impresa 
Struggere  affatto  un  reai  germe.  I Numi 
Domandiamone  ìn  pria.  Sarà  dì  Giove 
Questo  il  voler?  Vibrerò  il  colpo  io  stesso, 
Non  che  gli  altri  animar  ; dov'ei  decreti 
Diversamente  , io  vi  consiglio  starvi. 

Così  d'Arezio  il  figlio,  e non  indarno. 

S’aÌ2:aro  , e rientrar  nell’ampia  sala  , 

E sovra  i seggi  nitidi  posaro. 

Ma  la  casta  Penelope , che  udito 
Avea  per  bocca  del  fede!  Medonte 
Il  mortai  rischio  del  figliuol , consiglio 
Prese  di  comparire  ai  traculauU  4W 


Proci  davante.  La  divina  donna 
Usci  dell'erma  stanza;  e con  le  ancelle 
Sul  limitar  della  Dedalea  sala 
Giunta , e adombrando  co'sottili  veli , 

Che  le  pendean  dal  capo , ambe  le  guance , 
Antinoo  rampognava  in  questi  accenti  : 

Antinoo  , alma  oltraggiosa  , e di  sciagure 

Macdiiiiator  ; nella  città  v’ha  dunque 

Chi  tra  gli  eguali  tuoi  primo  vantarti 

Per  saggezza  osi , e per  facondia?  Tale  45o 

Giammai  non  fosti. Insano!  e al  par  che  insano. 

Empio , che  di  Telemaco  alla  vita 

Miri , e non  curi  ì supplici  , per  cui 

Giove  dall’alto  si  dichiara.  Ignoto 

Forse  ti  fu  sin  qui , che  fuggitivo 

Qua  riparava  , e sbigottito  un  giorno 

Il  padre  tuo  , che  de'Tespruti  a danno 

Co'Tafj  predator  s'era  congiunto? 

Nostri  amici  eran  quelli , e porlo  a morte 
Voleanu , il  cor  volean  trargli  del  petto , 460 
Non  che  i suoi  campi  disertar  : ma  Ulisse 
Si  levò,  si  frammise  ; e,  Jjenchè  ardenti , 

Li  ritenea.  Tu  di  quest’uom  la  casa 
Ruini  e disonori  ; la  consorte 
Ne  ambisci , uccidi  il  figlio , e me  nel  fondo 
Sommergi  delle  cure.  Ah  ! cessa , e agii  altri 
Cessare  ancor , quanto  è da  te  , comanda. 

Figlia  illustre  d’icario , a lei  rispose 
Eiirimaco  di  Polibo  , fa  core  , 

E sì  tristi  pensier  da  te  discaccia.  47<* 

Non  è , non  fu  , non  sarà  mai  chi  ardisca 
Contro  il  figlio  d’UlishC  alzar  la  inaiio  , 

Me  vivo  , e con  questi  occhi  in  fronte  eperti. 
Di  cotestui , cosa  non  dubbia  , il  nero 
Sangue  scorrerla  giù  per  la  mia  lancia. 

Me  il  distruttor  delle  cittadi  Ulisse 
Tolse  non  rado  sovra  i suoi  ginocchi , 

Le  incotte  carni  nella  man  mi  pose, 

L’almo  licor  m'offri.  Quindi  uom  più  caro 
Io  non  ho  dì  Telemar.o  , e non  voglio  4^^ 
Che  la  morte  dai  Proci  egli  paventi. 

Se  la  mandan  gli  Dei,  chi  può  scamparne? 

Così  dicea  , lei  confortando  , e intanto 
L'eccidio  del  figliuol  gli  stava  in  core. 

Ma  ella  salse  alle  sue  stanze  , dove 
A lacrimar  si  dava  il  suo  consorte  , 

Finciiè,  per  tregua  a tanti  affanni,  un  dolce 
Sonno  inviolle  Pocchiglauca  Palla. 

Cuti  la  notte  comparve  il  fido  Euméo 
Ad  Ulisse  e a Telemaco  , che , pingue  490 
Sagrìfìcato  ai  Numi  adulto  porco, 

Lauta  se  ne  allestìan  cena  in  quel  punto. 

Se  non  che  Palla  al  Laerzìade  appresso 
Fecesi , e , lui  della  sua  verga  tocco  , 

Nella  vecchiezza  il  ritornò  dì  prima  , 

E ne'primi  suoi  cenci  ; onde  il  pastore 
Noi  ravvisasse  in  faccia,  e,  mal  potendo 
Premer  nel  cor  la  subitaua  giuja  , 

Con  l'annunzio  a Penelope  non  gisse. 

Ben  venga  il  buon  pastur  ! così  primiero  5oo 
Telemaco  parlò.  Qual  corre  grido 
Per  la  citta  ? Vi  rientraro  i Proci  ? 

0 mi  tcndon  sul  mare  insidie  ancora  ? 

E tu  così  gli  rispondesti , Euméo  : 

La  mente  a questo  Ìo  non  avea  , |mssando 
Fra  i cittadini  : chè  portar  l avvidu  , 


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87 


LIBRO  DEC 

K di  botto  redir , fu  sol  mia  cura. 

Bensì  m'avvenni  al  baiidìtor.  clip  primo 
Corse  parlando  alla  regina.  Un'altra 
Cosa  dirò  , quando  la  vidi  in  ate^sso.  5io 

Prendendo  li  monte  , che  a Mercurio  sorge  > 

K la  cittade  signoreggia  f vidi 
Rapidamente  scendere  nel  porto 
Nave  d’uomini  piena  , e d’aste  acute 
Carca , e di  scudi.  Sospettai  che  il  legno 


I M O S E S T O. 

Fosse  de'Proci  ; nò  più  aranti  io  seppi 
À tai  voci  Telemaco  sorrise  » 

Pur  sogguardando  i!  padre,  egli  occhi  a un  tempo 
Df’l  custode  schivando.  A questo  modo 
Fornita  ogni  opra  , e già  parati  ì cibi , 5ao 
D’una  egual  parte  in  questi  ognun  godea. 

Ma  come  il  lor  desio  più  non  richiese, 

Si  corcaro  al  Hit  tutti  , ed  il  salubre 
Dono  del  sonno  ricettar  nel  petto. 


LIBRO  DECIMOSETTIMO 


ARGOMENTO 

Arrivo  prima  di  Telemaco  alla  città,  e poi  dTjlisse  acrompa^oalo  da  Euméo.  UlUie  c iosultatn  dal  capra  |o 
Melaoiio , e riccooflciuto  alle  porte  del  paUazo  dal  vecchio  cane  Argo,  che  ne  muore  di  giuja.  Eotralu  dcÌU 
sala  io  forma  di  vecchio  mendico  , va  iotorao  accatUodo,  e Anliooo  lo  scaccia  superbamente  da  sè  , e uuo  sgabello 
gli  landa  contro,  rcocluiw  gli  ià  saper  per  Euioco,  die  desidera  di  lurbrgli.  llis£v>sU  d'Uiissc. 


TT OSTO  che  aperse  del  mattìn  la  figlia 
Con  rosea  man  Tcteree  porte  al  sole  , 
Telemaco  , d’Ulisse  il  caro  germe , 

Che  inurbarsi  volea , sotto  le  piante 
S'arvitise  i bei  calzari , e la  nodosa 
Lancia , che  in  man  ben  gli  scattava , tolse | 

E queste  al  suo  pastor  drizzò  parole  : 

Babbo,  a cittadc  io  vo  , perche  la  madre 
Veggami  , e cessi  Ì1  doloroso  pianto, 

Che  altramente  cessar  , credo , non  puote.  io 
Tu  rinfelice  forestier  la  vita 
Guidavi  a mendicar  : d'un  pan  , d*un  colmo 
Nappo  non  mancherà  chi  io  consoli. 

Nello  stato  in  ch'io  sono , a me  non  lice 
Sostener  tutti.  Montaranne  in  ira  ? 

Non  farà  che  il  suo  male.  Io  dal  mio  lato 
Parlerò  sempre  con  diletto  il  vero. 

Amico  , disse  allora  il  taggìo  Ulisse , 

Partire  intendo  anch'io.  Più , che  ne’  campi , 
Nella  ciitade  accattar  giova:  mi  frusto  30 
Chi  vorrà,  porgerammi.  Io  più  d'etade 
Non  sono  a rimaner  presso  le  stalle  , 
p'  obbedire  un  padron,  checche  m’imponga. 
Tu  vanne  : a me  quest'uom  sarà  per  guida , 
Come  tu  ingiungi , sul  che  prima  il  foco  > 

Mi  scaldi  alquanto  , e più  s’innalzi  il  sole. 
Triste , qual  vedi , ho  vestimcnta , e guardia 
Prender  degg'io  dal  mattutino  freddo , 

Che  sul  rammin  che  alla  ciMa  conduce , 

Ed  è,  sento,  non  breve,  oiFender  puommi.  3o 

Telemaco  senz’altro  in  via  sì  pose, 

Mutando  i passi  con  prestezza,  e mali 
Nella  sua  mente  seminando  ai  Proci. 

Come  fu  giunto  al  ben  fondato  albergo. 

Portò  l’asta , e appoggiolla  ad  una  lunga 
Colonna  , e in  casa  , la  marmorea  soglia 
Varcando  , penetrò.  Primiera  il  vide 
La  nutrice  Èuricléa , che  le  polite 
Felli  slendea  su  i variati  seggi, 

E a lui  diritta,  lagrimando  , accorse:  40 

Poi  tutte  gli  accorrean  l'altre  d'Ulìsse 
Fa.itesche  intorno , c tra  le  braccia  stretto 
Su  le  spalle  il  baciavano  , e sul  capo. 

Fratunto  useia  della  secreta  stanza. 


Pari  a Diana , e all'aurea  Vener  pari , 

La  prudente  Penelope,  che  al  caro 
Figlio  gettò  le  man , piangendo  , al  collo  , 

E la  fronte  baciògU  , ed  ambo  gli  occhi 
Stellanti  ; e non  restandosi  da)  pianto, 
Telemaco , gli  disse  , amata  luce , So 

Venisti  adunque  1 Io  non  credea  più  i lumi 
Fissare  in  te  , daccliè  una  ratta  nave. 

Centra  ogni  mìo  deslr  : dietro  alla  fama 
Dei  genitor  furtivamente  a Pilo 
T’addusse.  Parla  : quale  incontro  avesti  ? 

Madre , del  grave  rischio  ond’io  campai , 
Replicava  Telemaco  , il  dolore 
Non  rinno^rmì  in  petto , e lo  spavento. 

Ma  in  alto  sali  con  le  ancelle  : quivi 
Lavata  , e cinta  d'una  pura  veste  60 

membra  delicate  , a tutti  i Numi 
Ecatombe  legittime  prometti, 

Se  mi  consente  il  vendicarmi  Giove. 

10  per  un  degno  forestier,  che  venne 
Meco  da  Pilo,  andrò  alla  piazza.  Innanzi 
Co’miei  fidi  compagni  io  lo  spedii , 

E commisi  a Piiéo  , che  in  sua  magione 
L’introducesse,  esilio  al  mio  ritorno 
Con  onore  il  trattasse,  e con  aHbtto. 

Non  indarno  ci  parlò.  Lavata , e cinta  70 
Di  veste  pura  il  delicato  corpo  , 

Penelope  d'integre  a tutti  i Numi 
Ecatombe  votavasi , ove  al  figlio 

11  vendicarsi  consentisse  Giove. 

Nè  Telemaco  a uscir  fuor  del  palagio 
Molto  tardò  : l’asta  gli  empirà  la  mano , 

E due  bianchi  il  seguian  cani  fedeli. 

Stiipia  ciascun  , mentr’ei  mutava  il  passo  : 

Tal  grazia  sovra  lui  Palla  diffuse. 

Gli  alteri  Proci  stavangli  da  questo  80 

Lato , e da  quel , voci  parlando  amiche  | 

Ma  nel  profondo  cor  fraudi  covando. 

Se  non  ch’ei  tosto  sì  sciogtiea  da*essì  ; 

E là , dove  sedea  Mentore , dove 
Antifo  ed  Aliterse , che  paterni 
Gli  eran  compagni  dalla  prima  etade, 

A posar  s’avviò  : quei  d’ogni  cosa 
L addimatidaro.  Sopraggiunse  intanto 


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83  odi; 

Piréo,  lancia  famosa  , il  qual  noi  foro 
Per  la  cittatle  il  forestier  menava  , go 

A cui  s’alzò  Telemaco  , e s’offerse. 

E così  primo  l'avellò  Piréo  : 

Telemaco  , farai  che  al  mio  soggiorno 
Ven^an  le  donne  lue  per  qiie’superbi 
Doni , onde  Menelao  ti  fu  cortese. 

E il  prudente  Telemaco  : Piréo  , 

Ignoto  c ancor  di  queste  cose  il  fine. 

Se  i Proci , me  secretarnepte  anciso , 

Tutto  dividcransi  il  mio  retaggio, 

Prima  , che  alcun  di  loro  , io  di  que’doni  loo 
Vo’che  tu  goda.  E dove  io  lor  dia  morte  , 

A me  lieto  recar  li  potrai  lieto. 

Disse , e guidò  nella  sua  bella  casa 
L’ospite  sventurato.  Ivi,  depostd 
Sovra  ì troni  le  clamidi  vellute  , 

Sceser  nel  bagno  ; e come  astersi  ed  unti 
Per  le  servili  man  furo  , c di  manto 
Vago  e di  vaga  tunica  vestiti , 

Su  i ricchi  seggi  a collocarsi  andare. 

E qui  Pancella  da  bellaureo  vaso  Ho 

Purissim’acqua  n^l  bacii  d’argonlo 
Versava  , e steudea  loro  un  liscio  drsco , 

Su  cui  la  saggia  dlspensicra  i bianchi 
Pani  venne  ad  imporre  , e non  già  poche 
Delle  dapi  non  fresche , ond’è  custode. 

Penelope  sedea  di  fronte  al  caro 
Figlio , e non  lungi  dalle  porle  ; e fini 
Velli  purpurei  , a una  polita  sede 
Poggiandosi , lorcea.  Qne’due  la  destra 
Steudeano  ai  cibi  ; nè  tu  pria  repressa  i2u 
X.a  fame  loro , e la  lor  sete  spenta  , 

Che  in  tai  voci  la  madre  i labbri  apriva  : 

Io , figlio  , premerò , salita  in  alto , 

Quel  che  divenne  a me  lugubre  letto  , 

Dappoi  che  Ulisse  inalberò  le  vele 
Co’figliuoli  d’Atréo  ; lugubre  letto. 

Ch’io  da  quel  giorno  del  mìo  pianto  aspergo. 
Non  vorrai  dunque  tu,  prima  che  i Proci 
Entrino  alle  magion  , dirmi  se  nulla 
Del  ritorno  del  padre  udir  t’avvenne?  i3o 
E il  prudente  Telemaco  a rincontro: 

Madre  , il  tutto  Ìo  dirò.  Pilo  trovammo, 

Ed  il  pastor  de’popoli  Nestorrc: 

Qual  padre  accoglie  con  carezze  un  figlio 
Dopo  lunga  stagion  d’altronde  giunto  , 

Tal  me  in  sua  reggia , e tra  Tillustre  prole, 

La  bianca  testa  di  Nestorre  accolse. 

Ma  diceami , che  nulla  udì  d’Ulisse , 

0 vivo  fosse,  0 fatto  polve  ed  ombra. 

Quindi  al  pugnace  Menelao  maiidommi  140 
Con  buon  cocchio  e destrieri  j ed  io  là  vidi 
L’argiva  Eléna  , jkt  cui  Teucri  e Greci , 

Cosi  piacque  agli  Dei , tanto  sudato. 

Il  bellicoso  Menelao  repente 
Chiedeami,  qual  bisogno  alla  divina 
ìSparta  m’avesse  addotto.  Io  non  gli  tacqui 
Nulla  , e l’Atride  : Ohimè  ! d’nn  eroe  dunque 
Volean  giacer  nel  letto  uomini  imbelli  ? 

Siccome  allor  che  malaccorta  cerva , 

1 cerbiatti  suoi  teneri  e lattanti  i5o 

Depoati  in  tana  di  leon  feroce , 

Cerca , pascendo  , i gioghi  erti  e l’erbose 
Valli  profonde  j e quello  alla  sua  cava 
lliede  frattanto,  e cruda  morte  ai  fi^lì 


S E A 

Porta  , e alla  madre  ancor:  non  altrimenti 
Porterà  cruda  morte  ai  Proci  Ulisse. 

Ed  oh  piacesse  a Giove,  a Febo  e a Palla  , 

Che  qual  si  levò  un  di  cuntra  l’altero 
Filomelide  nella  forte  Lesbo, 

K tra  le  Iodi  degli  Achivi  a terra  tGo 

Con  mano  invitta  , lotteggiando  , il  pose  , 

Tal  costoro  affrontasse  ! Amare  nozze 
Foran  le  loro , e la  lor  vita  un  punto. 

Quanto  alla  tua  domanda  , il  re  soggiunso, 
Ciò  raccontarti  senza  fraude  intendo  , 

Cile  un  oraeoi  verace  , il  marin  vecchio 
Proteo,  svelommi.  Asseverava  il  Nume, 

Che  molte  e molte  lagrime  dagli  occhi 
Spargere  il  vide  in  soliUrio  scoglio, 

Soggiorno  di  Calijwo,  inclita  Ninfa,  170 
Che  rimandarlo  nìega  ; ond’ei , cui  solo 
Non  avanza  un  naviglio  , e non  compagni 
Che  il  carreggiti  del  raar  sull’ampio  dorso 
Star  gh  convien  della  sua  patria  in  bando. 

Ciò  111  Lparta  raccolto  , io  no  partii  ; 

E un  vento  in  poppa  m’invìaro  i Numi, 

Che  rattissimo  ad  Itaca  mi  spinse. 

Con  tai  voci  Tdnmaco  alla  madre 
L anima  in  petto  scompigliava.  Insorse 
Teocliméno  allora  : O veneranda  180 

Della  gran  prole  di  Laerte  donna , 

Tutto  eì  già  non  conobbe.  Odi  i miei  detti  : 
Vero  e integro  sarà  l’oracol  mio. 

Piimo  tra  i Numi  in  testimonio  Giove, 

E la  mensa  ospitai  chiamo,  ed  il  sacro  * 

Del  grande  Ulisse  limitar , cui  venni  : 

Lo  sposo  tuo  nella  sua  patria  terra 
Siede  , o cammina  . le  male  opre  ascolta  , 

F.  morto  a tutti  gli  orgogliosi  Proci 

Nella  sua  mente  semina.  Mei  disse  ino 

Chiaro  da!  cielo  un  volator  , ch’io  scórsi , 

E al  tuo  figlio  mostrai , sedendo  in  nave.  * 

L la  saggia  Penelope:  Deh  questo  , 

Ospite , accada  J Tali  e tanti  avresti 
Del  mio  sincero  amor  pegni , che  ognuno 
li  chiameria  , scontrandoti , beato. 

Mentre  così  parlando  , c rispondendo 
Di  dentro  ivan  la  madre , il  figlio  e il  vate 
Gli  alteri  Proci  alla  magion  davante 
Dischi  lanciavan  per  diletto,  e dardi  200 
Sul  pavimento  lavorato  e terso, 

Della  baldanza  lor  solito  arringo. 

Ma,  giunta  l’ora  della  mensa  , e addotte 
Le  vittime  da  tutti  intorno  i campi , 

Medonte,  che  nel  genio  ai  Proci  dava 
Più, che  altro  in  fra  gli  araldi;  e ai  lor  banchetti 
Sem  pre  assistea  , G iovani , disse  ,*quando 
Godeste  ornai  de’ giochi , entrar  v’aggradi , 

Sì  che  il  convivio  s’imbandisca.  Ingrata 
Cosa  «on  parnii  il  couvivare  al  tempo.  210 
Sorsero  immantinente,  ed  alle  voci 
Del  baiiditor  non  repugnaro.  Entrati, 

Deposer  su  le  sedie  i manti  loro. 

Pingui  capre  scaniiavansi , e i più  grandi 
iMontoni,  e grossi  porci , e una  buessa 
Di  branco;  e il  prandlos’eppreslava.  E intanto 
Dai  campi  alla  cittadc  andar  d’un  passo 
Preparavansi  Ulisse  ed  il  pastore. 

Pria  favellava  Euméo  d’uomini  rapo  : 
Stranier , se  il  mio  piacere  io  far  pute.'^sì , 220 


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Sg 


LIBRO  DECIHOSl’TTIMO. 


Tu  dellr  stiliti  rimarresti  a guardia. 

Ma  , {K)ichè  partir  bramì , e ciò  pur  vuoisi 
Dal  mio  aignur  , le  mi  rampogne  io  temo  , 
Però  che  gravi  i>on  Tire  de’  Grandi , 

Muviam  : già  vedi  che  scemato  è ii  giorno , 

K infredderà  più  l’aere  in  %èr  la  sera. 

Tairosrad  noni,  che  non  lo  ignora,  insegni, 
Ripigliò  il  Laerzwde.  Ebhen^  moviamo  : 

Ma  vammi  innanzi  , e da  , se  da  mia  pianta 
Il  recidesti , un  forte  legno , a cui  a3o 

Per  la  via  , che  nmivagia  odo,  io  mi  regga. 
Disse^  e agli  omeri  suoi  per  una  torta 
Curdfi  il  .suo  rotto  e vii  zaino  sospese , 

K il  bramato  basimi  porsegli  Enméo. 

Quindi  le  stalle  abbandonar  , dt  cui 
Rimaneanu  i famigli  a guardia  , e i cani. 

CoiI  vèr  la  città  sotto  le  forme 
D’un  infelice  mendicante  e vecchio, 

V.  curvo  sul  bastone , e con  le  membra 
Nelle  vesti  più  turpi , il  suo  re  stesso  240 
L’amoroso  pastore  allor  guidava. 

Già  , vinto  il  sentiero  a^p^o,  alla  cittade 
Si  f«  an  vicini , ed  appai  la  la  bella  , 

Donde  nttignea  ciascun , fonte  artefatta , 

Che  una  pura  tra  Terhe  onda  volvea. 
Construsserla  tre  regi  : Itaco  prima  , 

Poi  Neritoe  Polittore.  Rotondo 
D’alni  acquidosi  la  cerchiava  un  bosco. 

Fredda  ciidea  l’onda  da  un  sasso  , e sopra 
Un  aliar  vi  sorgen  sacro  alle  Ninfe , a5o 

Dove  oflVia  preci  il  viandmite , e doni. 

Qui  di  Dolio  il  figliuol , Melanzio  , in  loro 
S' incontrò  : comiucea  le  capre,  il  fiore 
D<»!  gregge,  ai  Proci  ; e il  seguìan  due  pastori. 
Li  vide  appena  , che  bravolli , e indegne 
Saettò  in  loro  , e temerarie  voci , 

Che  tutto  coinmovean  d’Ulìsse  il  core. 

Or  si , dicca  , che  un  tristo  a un  tristo  è guida. 
Giove  ii  forma  , indi  gli  accoppia.  Dove 
Meni  tu  quel  ghiottone  , o buon  porcajo,  a6o 
Quel  memlico  importuno  , e delle  mense 
Peste  , che  u molte  signorili  porte 
Logorerassi  gli  omeri , di  pane 
Frusti  chiedendo  , non  tn  pplcd» , o conche  ? 
Se  tu  le  stalle  a custodir  me!  dessi  , 

E a purgarmi  la  corte  , e a’  miei  capretti 
La  frasca  molle  ad  arrecar , di  solo 
Bi'vuto  siere  ingrosserìa  ne’  lianchì. 

Ma  , poiché  solo  alle  tristi  opre  intese  , 
Travagliar  non  vorrà  , voria  più  presto  , 270 
Di  porta  in  porta  domandando,  un  ventre 
Pascere  insaziabile.  Ma  senti 
Cosa  che  certo  avvenir  dee.  Se  all'alta 
Magion  s’accosterà  del  grande  Ulisse, 

IRulti  sgabelli  di  man  d’uom  lanciati 
Alla  sua  testa  voleranno  intorno, 

E le  coste  trarraimogli  di  loco. 

Ciò  disse , ed  appressollo  , e nella  coscia 
Gli  diè  d’un  calcio  , come  stolto  ch’era  , 

Nè  dalia  via  punto  Io  mosse  : fermo  380 

Restava  Ulisse  , e in  sé  volgea  , se  l’alma 
Col  nodoso  baston  torgli  dovesse  , 

O in  alto  sollevarlo , e su  la  nuda 
Terra  gettarlo  capovolto.  Ei  Pira 
Contenne,  e sopportò.  Se  non  ch’Enméo 
Al  caprar  si  converse  , e improveroUo  , 

ODISSEA 


R , levate  le  man  . molto  pregtiva  ; 

O belle  hglie  delPEgioco  , Ninfe 
Nàjadi , se  il  mio  re  v’arse  giammai 
Dagiielli  e di  capretti  i pingui  lombi , 2go 
Empiete  il  voto  mio.  Rieda , ed  un  Nume 
La  via  gli  mostri.  Ti  cadria , caprajo  , 

Quella  supeibia  dalle  ardite  ciglia  , 

Con  cui  Vieni  oltraggioso,  e si  frequente*, 

Dai  campi  alla  città.  Quindi  per  colpa 
De’  cattivi  pastori  a mal  va  ii  gregge. 

Oh , oh  , Melanzio  ripigliò  ui  b <tto  , 

Che  mi  latra  oggi  quello  sraltro  cane  , 

Che  un  giorno  10  spedirò  sovra  una  bruna 
Nave  dalla  serena  Itaca  lunge,  3oO 

Perchè  a me  in  copia  vettovaglia  trovi? 

Cosi  il  Dio  dal  sonante  arco  d’argento 
Telemaro  uccidesse  oggi , o dai  Proci 
Domo  fosse  il  garzon  , come  ad  Ulisse 
Non  sorgerà  della  tornata  il  giorno  ! 

Ciò  detto  , ivi  lasciolli  ambo , che  lento 
Moveano  il  piede,  e , suo  cammiri  seguendo  , 
D'Ulissealla  inagiun  ratto  pervenne. 

Subito  entrava  , e s’assidea  ira  i Proci 
Di  rimpetto  ad  Eurimacu , che  tutto  3io 
Kra  il  suo  amore  ; nc  i donzelli  accorti , 

E la  solerle  dispensiera  , innanzi 
Un  solo  istante  5’ indugiato  a ]>orglt 
Quei  p.*irte  delle  carni , e i pani  questa 

Ulisse  ed  il  pastore  al  regio  albrrgo 
Giungeano  intanto.  S’arre.‘'laro  , udita 
L'armonìa  dolce  della  ca^n  cetra  : 

Gilè  l'usata  canzon  Femio  intonava. 

Tale  ad  Ruméo,che  per  man  prese,  allora 
Favellò  il  Laerziade:  Euiiiéo  , d'Uiisse  3ao 
La  brlla  casa  ecco  per  certo.  1 ora  , 

Renelle  tra  molte  , il  ravvisarla  lieve. 

L'un  pian  su  l’altro  monta,  è dì  muraglia 
Cinto  il  cortile  , e di  slecc  ifi , doppie 
Sono  e salde  le  porte.  Or  chi  espugnarla 
Polria?Gran  prandio  vi  .si  tiene,  io  credo  : 
Poiché  l'odor  delle  vivande  ^aIc, 

£ risuona  la  celerà  , cui  fida 
Voller  compagna  de’convili  i Numi. 

K tu  così  gli  rispondesti , Humói»  : 55o 

Facile  a te,  che  lunge  mai  dal  seguo 
Non  vai,  fu  il  riconoscerla.  Su  , via, 

Ciò  pensiam  , che  dee  farsi.  O tu  primiero 
Entra  , c ai  Proci  ti  mesci , ed  io  qui  resto  ; 

O tu  rimani , e metterommi  io  dentro. 

Ma  troppo  a bada  non  islar  : chè  forse  , 

Te  v^’ggendo  di  fuor  , potrebbe  alcuno 
Percuoterti , o scaeciarti.  Il  tutto  pensa. 

Quel  veggio  anch’io,  che  a Ila  tua  meli  le  splende, 
Gli  replicava  il  paziento  Ulisse.  5^o 

Dentro  mettiti  adunque:  io  rimarrommì. 
Nuovo  ai  colpi  non  sono  e alle  ferite , 

E la  costanza  ni’ìnsegnaro  i molti 
Tra  Tarmi  e in  mar  danni  sofferti , a cut 
Questo  s’aggiungerà.  Tanto  cqmanda 
La  forza  invitta  delTingprdo  ventre, 

Per  cui  cotante  l’uom  dura  fatiche  , 

E navi  arma  talor , che  guerra  altrui 
DelTinfecotido  mnr  portan  su  ì campi. 

Così  dicean  tra  lor  , quando  Argo,  il  cane,  35o 
Ch’ivi  giacca  , del  paziente  Ulisse , 

La  testa  j ed  ambo  sollevò  gli  orecchi. 

13 


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I S s E A 


cp  O D 

Nnfrillo  nn  giorno  di  sua  man  IVroo  , 

Ma  còme  , spinto  dal  suo  fato  a Troja  , 

Poco  frutto  potè.  Bensì  condurlo 
Contra  i lepri  , ed  i cervi , e le  silvestri 
Capre  solca  la  gioventù  robusta. 

Negletto  allor  giacca  nel  molto  limo 
I):  muli  e buoi  sparso  alle  porte  innanzi, 
ririchè,  i poderi  a fecondar  d’Ulis.se , 5Go 
Nel  togliessero  i servi.  Ivi  il  buon  cane, 

Di  turpi  zecche  pieii , corcato  stava. 

Com’egli  vide  il  suo  signor  più  presso^, 

E , benché  tra  qiic’cenci , il  riconohhe. 
Squassò  la  coda  festeggiando  , ed  ambe 
X.e  orecchie  , che  drizzate  avea  da  prima  , 
Cader  lasciò  : ma  incontro  al  suo  signore 
Muover , siccome  un  di  , gli  fu  disdetto. 
Ulisse,  riguardatolo , s’asterse 
Con  man  furtiva  dalla  guaticia  il  pianto , 670 
Celandosi  da  Enméo  , cui  disse  tosto  r 
Eutnéo,  quale  stupor  ! Nel  fimo  giace 
Cotesto  , clic  a me  par  cane  sì  bello. 

Ma  non  so,  .se  del  pari  ei  fu  veloce, 

O n>illa  valse,  come  quei  da  mensa, 

Cui  nutron  per  bellezza  i lor  padroni. 

r tu  così  gli  rispondesti  . £umén  : 

I)el  mio  re  lungi  morto  è questo  il  cane. 

Se  tal  fosse  di  corpo  e d’atti  , quale 
I.asciollo  , a Troja  veleggiando,  Ulisse,  38o 
Sì  veloce  a vederlo  e sì  gagliardo. 

Gran  maraviglia  ne  trarresti:  fiera 
Non  adocchiava  , che  del  folto  bosco 
(Ili  fuggisse  nel  fondo  , e la  cui  traccia 
Perdesse  mai.  Or  l'infortunio  ei  sente. 

Perì  d’Itaca  hinge  il  suo  padrone. 

Nè  più  curan  di  lui  le  pigre  ancelle: 

Che  pochi  dì  stanno  in  cervello  i servi , 
(Quando  il  padrone  lor  più  non  impera. 
I/onnìveggonte  di  Saturno  figlio  Sgo 

Mezza  toglie  ad  un  uoni  la  sua  vìrtude, 

Come  sopra  gli  giunga  il  dì  servile. 

Ciò  detto  , il  piè  nel  sontuoso  albergo 
Mi.se  , e avvìossi  drittamente  ai  Proci; 

Ed  Argo , il  fido  can  , poscia  che  visfo 
Ebbe  dopo  dieci  anni  e dieci  Ulisse  , '' 

(Ili  occhi  nel  sotiiio  della  morte  chiuse. 

Ma  l’egregio  Telemaco  fu  il  primo 
Che  scorgesse  il  pastor  nella  superba 
Sala  passato;  e a sé  il  chiamò  cl’un  cenno.  400 
Ed  ei , rivolto  d’ogni  intorno  il  guardo, 
iL“vò  uno  scanno  ivi  giacente,  dove 
Seder  solca  lo  scalco  , e le  infinite 
Carni  partire  ai  banchettanti  Proci, 
l.evollo  , ed  a Telemaco  di  contra 
Il  piantò  presso  il  desco  , e vi  s’assi.se  ; 

E delle  carni  a lui  pose  (lavanti 
I.o  .«calco  , e pani  dal  canestro  tolti. 

Ulisse  ivi  a non  molto  anch’egli  entrava 
Siili  il  ne’cenci  e nel  bastoii  nodo.so  , 4*0 

Su  cui  piegava  il  tergo  , a un  infelice 
Paltonier  d'anni  carco.  Entrato  appena, 

Sopra  il  frassineo  limitar  .sedea  , 

Con  le  spalle  appoggiandosi  ad  un  saldo 
Stipite  cipressi!! , cui  già  perito 
Fabbro  alz,ò  a piombo  , e ripolì  con  arte. 
T^lemaro  il  pa.stor  chiama  , e , togliendo 
(^filanto  avea  pane  il  bel  canestro,  e quauta 


Carne  nelle  sue  man  rapir  potea  , 

Questo,  gli  dice,  all’ospite  tu  reca,  470 

E gli  comanda  che  a ciascun  de’Proci 
S’accosti  mendicando.  A cui  nel  fondo 
Dell’inopia  cascò  , nuoce  il  pudore. 

Andò  il  pastor  repente,  e , allo  straniero 
Sofi’ermandosi  in  faccia  , Ospite,  dis.se. 

Ciò  ti  manda  Telemaco  , e t’ingiunge 
Che  mendicando  ti  presenti  a ognuno 
De’Proci  in  giro.  A cui  nel  fondo  , ei  dice  , 
Dell’inopia  cascò,  nuoce  il  pudore. 

E il  Laerziade  rispondea  : re  Giove , 43o 

Telemaco  dal  ciel  con  occhio  guarda 
Benigno  sì,  cli’ei  nulla  brami  indarno. 

Detto  ciò  solo  , prese  ad  ambe  mani 
Ulisse  il  tutto  , e colà  innanzi  ai  piedi 
Su  la  bisaccia  ignobile  sei  pose. 

Finché  il  diviii  Demodoco  cantava  , 

Cibavas!  l’uoni  saggio  : al  tempo  stesso 
L’un  dal  cibo  cessò  , l’altro  dal  canto. 
Strepitavano  i Proci  entro  la  sala  : 

Ma  Palla  , al  figlio  di  I.acrte  apparsa  , 446 

[/esortò  i pani  ad  accattar  dai  Proci , 
Tastando  chi  più  asconda  o nien  tristezza  , 
Benché  a tutti  la  Dea  scempio  destini. 

F.i  volse  a destra  , e ad  accattar  da  tutti 
GIo  , stendendo  la  maii  , come  se  mai 
Esercitato  non  avesse  aitr’arte. 

Mossi  a pietade  il  soccorreano  , e forte 
Stiipiaiio  , e domamlavansi  a vicenda  , 

Chi  fosse  , e d’onde  il  lorestier  venisse. 

E qui  Melaiizio  , Udite  , o deH'illustre  45o 
Penelope,  dicea  , vagheggiatori. 

L’ospite  io  vidi , a cui  la  via  mostrava 
De’ porci  il  guardìaii  : ma  da  qual  chiara 
Stirpe  disceso  egli  si  vanti , ignoro. 

Guardian  famosissimo,  Antinóo 
Così  Euniéo  rimbrottò  , perchè  costui 
(xiiidastì  alla  città  ? Ci  mancali  forse 
Vagabondanti  paltonieri  infesti. 

Delle  mense  flagello  ? O , die  d’Ulisse 

(^)ui  si  nutra  ciascun,  poco  ti  cale,  460 

Che  questo  ancor , donde  io  noti  so  , chiamasti? 

E tal  risposta  tu  gli  festi , Euméo  : 

Prode,  Autinoo , sei  tu  , ma  ben  non  parli. 

Chi  un  forestiero  a invitar  mai  d’altronde 
Va,  dove  tal  non  sia  che  al  mondo  giovi  , 

Come  profeta  , o sanator  di  morbi , 

0 fabbro  industre  in  legno,  o nobil  vate. 

Che  le  nostr’alme  di  dolcezza  inondi  ? 

Questi  invitansi  ognor , non  un  mendico 
Che  ci  consumi , e non  diletti  , o serva.  470 
Ma  tu  i ministri  del  mio  re  lontano 
Più  , che  ogni  altro  de’Proci , e de’rainistri 
Me  più , che  ogni  altro  , tormentar  non  cessi. 
Nen  men  curo  io  però  , finché  la  saggia 
Penelope  e Telemaco  deiforme 
Vivono  a me  nella  magion  d’Ulisse. 

Ma  Telemaco  a lui  : Taci , parole 
Non  cangiar  molte  con  Antinoo.  E usanza 
Di  costui  l’assalir  con  aspri  detti 
Chi  non  l’ofl'ende , e incitar  gli  altri  ancora.  480 
Poi , converso  a quel  tristo  ; In  ver,  soggiunse, 
Cu'ra  di  me,  qual  padre,  Autinoo  , prendi , 

Tu  , che  l’o.spite  vuoi  sì  duramente 
Quinci  sbanciire.  Ah  noi  consenta  Giove! 


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9» 


LIBRO  DECI  OSE  T TIMO. 


Dagliene:  io,  non  che  oppormi , anzi  redigo. 

madre  d’annojare  , o alcun  tie'a<*rvt 
Del  {Kidre  mìo  , tu  non  temer  per  questo. 

IVlu  ci)sa  tal  non  è da  te  , cut  solo 
La  propria  gola  soddisfar  talenta. 

O alto  di  favella  e d'alma  indoino  , 4qo 
D'Eupite  disse  imumtanenle  il  liglio^ 

Che  parlasti , Telemaco?  Se  i Vroci 
Quel  don , th^o  serbo  a lui , gli  Tesser  tutti  f 
Starsi  almeno  ei  durila  tre  lune  in  casa 
Da  noi  lontano}  e,  lo  sgabello  preso, 

Su  cui  tenea  beendo  i molli  piedi , 

Aito  in  aria  il  mostrò.  Gii  altri  cortesi 
Gli  eran  pur  d'alcuii  che,  sì  ch’ei  Irovossi 
Di  carni  e pani  la  bisaccia  colma. 

Mentre  alla  soglia,  degli  Achivi  i doni  5ou 
Per  gustar,  rituniavu,  ad  Antinoo 
Si  fermò  innanzi , e disse  : Amico  , nulla 
Dunque  mi  porgi  ? Degli  Achivi  il  primo 
Mi  sembri , come  quei , che  a re  sumigliu. 
Quindi  più  ancor  , che  agli  altri , a te  s'addice 
Largo  mostrarli  : io  le  tue  lodi  , il  giuro , 

Per  tutta  spargerò  l'irouiensa  terra. 

Tempo  già  fu  , ch'io  , di  te  al  par  felice  , 

Belle  case  abitava , e ad  un  ramingo  , 

Qual  fosse,  e in  quale  stato  a me  venisse  , 5io 
Del  mio  Jarglu  : molti  avea  servi , e nulla 
Di  ciò  falliumi , onde  gioìscoii  quelli 
Che  ricchi  e fortunati  il  mondo  chiama. 
Giove,  il  perchè  ci  ne  sa,  strugger  mi  volle, 
£i , che  in  Egitto  per  mio  mal  mi  spinse 
Con  ladroni  tnohivaghi  : viaggio 
Lungo  e funesto.  Nell'F.gitto  fiume 
Fermai  le  ratte  navi , ed  ai  compagni 
Bestaruc  a guardia  ingiunsi,  e quell  ignota 
Terra  ire  alcuni  ad  esplorar  dall'alto.  620 
Ma  questi  da  un  ardir  folle  e dn  un  cieco 
Desio  portati , n saccheggiarle  belle 
Campagne  degli  Ivgìzj.  u via  menarne 
Le  donne  e i figli  non  parlanti , i grami 
Coltivatori  a uccidere.  Voluiiiie 
Tosto  il  romvirealla  città;  uè  prima 
L'Alba  s’imporpoiò,  che  i cittadini 
Vennero  , e pieno  di  cavalli  e fanti 
Fu  tutto  il  campo  , e del  fulgor  dell'armì. 
Cotale  allora  il  Fuliniuante  pose  53o 

Desir  di  fuga  de’ compagni  in  petto, 

Che  un  sol  far  testa  non  osava  : uccisi 
Fur  parte  , e parte  presi , e ad  opre  dure 
Sforzati  ; e ovumpic  rivoigeansi  gii  occhi, 

Un  disastro  apparìa.  Me  consegnaro 
A Demetore  Jaside,  che  in  quelle 
Parti  era  giunto  , e dominava  in  Cipro, 

Dond*  io,  carco  di  mali , al  fin  qua  venni. 

£ di  nuovo  cosi  d'Eupitc  il  nglio: 

Qual  Genio  avverso  una  si  fatta  lue  , 540 

Le  nostre  mense  a conturbar  , ci  addusse? 
Tienli  nel  mezzo  , p dal  mio  desco  luiige, 

Se  un’altra  Egitto  amara  , c un’altra  Cipro 
Trovar  non  brami  in  Itaca,  lo  mendico 
Mai  non  con.obbi  più  impudente  e audace. 
T'ofTri  a ciascun  Tun  dopo  l’altro,  e allarga 
Ciascun  per  te  la  maii  senza  consiglio  : 

Gilè  rotto  cade  ogni  ritegno  , dove 
Regna  la  copia  , e daU’aitrui  si  dona. 

Poh  ! replicava  il  Laerziade,  iiidìetro  55o 


Ritirandosi  alquanto,  alla  sembianza 
Poco  l’animo  atiunque  in  te  risponde. 

Chi  mai  creder  potria  che  pur  di  »ule 
A supplicante  tu  daresti  uji  grano 
Dalla  tua  mensa  , tu  , che  un  frusto  darmi 
Dall’altrui  non  sapesti , e così  ricca  ? 

Montò  Antinoo  in  più  furia , e , torve  in  lui 
rissando  le  pupille , Ora  tu  non  penso  , 

Che  uscirai  quinci  con  le  niembia  saiiu  , 

Poscia  che  ali’oiite  ne  venisti.  Disse , 660 

E alleiTÒ  lo  sgabello,  ed  avvcntoilo  , 
l'I  in  su  la  punta  della  <leslra  spalla 
Percosse  il  lorestiero.  Ulisse  lei  ino 
Stette,  qual  rupe,  nè  d'Anliiioo  il  colpo 
Smosselo:  bensì  tacito  la  testa 
Crollò,  agitando  la  vendetta  in  core, 
ludi  sul  limitar  sedea  di  iiumo  , 

De^iosto  il  zaino  tutto  pieno  , e ai  Proci 
favellava  cosi:  Competitori 
Dell’illustre  reina,  udir  vi  piaccia  670 

Ciò  che  il  cor  dirvi  mi  cotitamlii.  Dove 
Pe' campi,  per  la  greggia  o per  l'armento 
Pugnando  è l’uom  ferito,  il  porta  in  pace. 

Me  per  la  trista  ed  impurluna  fanie, 

Gran  fonte  di  disastri , Antinoo  olle.'C. 

Ma  se  ha  propiz)  i Dei , se  ha  fune  ultrici , 

Citi  non  ila  nulla  , delia  morte  il  giorno 
Pria  , che  quel  d^lie  tiozzi* , Antinoo  colga. 

E d'Eupiie  il  figliiiol  : Tranquillo  e assisti, 
Cibati , o foreatiere , o quinti  sgombra  , .òifa 
Acciò  gli  schiavi  , poiché  sì  favelli  , 

Per  li  piedi  c le  maii  te  del  palagio 
Non  traggati  fuori  , e tu  ne  vada  in  pezzi. 

Tutti  d’ira  s’accesero  , ed  alcuno  , 

.Mal,  disse,  lesti,  Kupitide,  un  tapino 
Viandante  a ferir.  Sciaurato  ! S’cgli 
Degli  abitanti  dell'Ol  impo  losae  ? 

Spesso  d'estrano  pellegrino  in  forma 
Per  le  cittadi  si  raggira  un  Nume, 

Vestendo  ogni  sembianza  , e alle  malvage  5q'> 
De’mortoU  opre,  ed  alle  giuste  guarda. 

Ta>  Voci  Antinoo  dispregiava.  Intanto 
Della  percossa  rea  gran  duo!  nel  petto 
Teieuiacn  nodrìa.  Non  però  a terra 
Dalle  ciglia  una  lagrima  gli  cadde. 

Sol  crollò  aucb'ei  tacitamente  il  capo  , 
Ruminando  nel  cor  l’alta  vendetta. 

Ma  la  saggia  Penelope,  cui  giuiiso 
L’annunzio  in  alto  dell’indegno  colpo, 
fra  le  ancelle  proruppe  in  questi  accenti  : 600 
Deh  cosi  lui  d'uii  de'suoi  dardi  il  Nume 
Dal  famoso  d'argento  arco  ferisca  ! 

Ed  Euriiiotne  u lei  : Se  gl’Iminori.ili 
Fesser  pieni  i miei  voti , a un  sol  de'Proci 
Non  mostreriasi  la  nuuv'alba  in  cielo. 

Nutrice  mia  , Penelope  riprese, 

Mi  spiaccion  tutti , perchè  tutti  ingiusti  : 

Ma  del  par  che  la  morte  Antinoo  abbono. 

Move  per  casa  un  ospite  infelice 

Dalla  sua  fame  a niriidicar  costretto.  610 

Ciascun  gli  dà  , tal  ch’ei  ii’ha  il  zaino  colmo  , 

E d’Èupite  il  figliuol  d'nuo  >g libello 

Nella  punta  dell'omero  il  percuote. 

Cotesti  accenti  tra  le  ancelle  assisa 
Liberò  dalie  labbra  ; e in  quella  Uiis.se 
11  suo  prandio  compiva.  Ma  la  icgiiu  , 


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ga  O D 1 S 

Buméo  chiamato  a sè , Va  , gli  dicea  » 

De' pastori  il  più  egregio , ed  a me  invia 
Quel  forestiere,  onde  in  colloquio  io  seco 
Hi  restringa  , e riciùedagli , se  mai  6au 

D’IJlissc  ud'i , se  il  vide  mai  con  gli  occhi , 

£i , che  di  gran  viaggi  uom  mi  ra»seinbra 

£ tu  cosi  le  rispondesti  , Euméu  : 

Oh  volesser  gli  Achei  per  le,  regina  , 

Tacersi  alcuni  istanti  l £t  tal  favella  • 

Che  somma  in  cor  ti  verseria  dolcezza. 

Io  (re  giorni  appo  me  l'ebbi , e tre  notti , 

Che  fuggito  era  da  un’odiata  nave  : 

Kè  però  tutti  mi  narrò  ì suoi  guai. 

Qual  racceso  dai  Numi  illustre  vate  63o 

Voce  sì  grata  agli  ascoltanti  innalza  , 

Che  rurecchio , fissando  in  lui  le  ciglia  , 
iie  dal  canto  riman.,  tendono  ancora: 

Tal  mi  beava  nella  mia  capanna. 

Dissemi  che  di  padre  in  figlio  a Ulisse 
Dell’ospitalità  stringcalo  il  nodo: 

Che  nativo  di  Creta  era  , del  grande 
Hinosse  culla  \ o che  di  là  , cadendo 
D’un  mal  sempre  nell’altro,  a'tuoi  ginocchi 
Venia  di  gramo  supplicante  in  atto.  640 

H’aifermò  che  d'Ulisse  avea  tra  i ricchi 
Tesproti  udito,  che  vive  anco,  e molti 
J^ll’avita  magion  tesori  adduce. 

La  prudente  Penelope  a rincontro  ; 

Vanne , ed  a me  Piuvìa  , sì  ch’io  Pa«:olti. 

Gli  altri  o fuor  delle  porte  o nel  palagio 
Trastullili  pur , poscia  che  han  lieto  il  core. 
Crescono  i monti  delle  lor  sostanze  , 

Di  cui  solo  una  parte  i servi  loro 
Toccano  j ed  essi  qui  l’intero  giorno  65o 
Danchettan  lautamente,  e il  iior  del  gregge 
Struggendo  e deiParmento  , e le  ricolme 
Della  miglior  vendemmia  urne  vòtando  , 
Fanno  una  strage:  nè  v’iia  un  altro  TJlìsse, 
Clic  atto  a fermarla  sia.  Ha  l’eroe  giunga, 

£ piena  con  Telemaco  di  tanti 
Darbari  oltraggi  prenderà  vendetta. 

Finito  non  uvea  , che  il  figlio  ruppe 
In  un  alto  starnuto , onde  la  casa 
Kisonò  tutta.  La  regina  rise,  6G0 

£ , va , disse  ad  Humóo,  corri , e il  mendico 
JVIandami.  Starnutare  alle  mie  voci 
Hon  udisti  Telemaco?  Maturo 
De’Proci  è il  iato , nè  alcun  fìa  che  scampi. 

Ciò  senti  ancora  , e in  mente  il  serba.  Quando 
Verace  in  tutto  eì  mi  riesca , i cenci 
Gli  cangerò  di  botto  in  vesti  belle. 

Corse  il  fido  pastore  , e allo  straniero, 
Standogli  presso,  Ospite  padre,  disse, 

Te  la  saggia  Penelope,  la  madre  670 

Ti  Telemaco,  vuole  : il  cor  la  spinge 
D’inisse  a ricercar  , benché  sul  dato 


S £ A 

Le  abbiali  sin  qui  le  sue  ricerche  duolo. 

Quando  verace  ti  conosca , i cenci 
Ti  cangerà  di  botto  in  vesti  belle. 

Cibo  non  mancherà  chi  ti  largisca  , 

Se  tu  l’andrai  per  la  città  chiedendo. 

Huméo  , rispose  il  paziente  Ulisse, 

Alla  figlia  d’icario,  alla  prudente 
Penelope  , da  me  nulla  del  vero  6S0 

Si  celerà.  So  le  vicende  appieno 
D’Ulisse , con  cui  sorte  io  m’ebbi  eguale  : 

Ma  la  turba  difficile  de’Pruci  , 

Di  cui  del  ciri  sino  alla  ferrea  volta 
Monta  l’audace  tracotanza  , io  temo. 

Por  testé , mentr’io  già  lungo  la  sala  , 

Nulla  oprando  di  mal , percos:<o  io  fui  ; 

£ non  prevenne  il  doloroso  insulto 
Telemaco,  non  che  altri.  11  sol  cadente 
Ad  aspettar  nelle  sue  stanze  adunque  690 
Tu  la  conforta.  Mi  domandi  alloia 
Del  ritorno  d'Ulisse  innanzi  al  foco  : 

Poiché  il  vestito  mio  mal  mi  difende. 

Tu  il  sai . cui  prima  supplicante  io  venni. 

Diè  volta  , udito  questo  il  buon  pastore; 

£ Penelope  a luì , che  già  la  soglia 

Col  piè  varcava  : Non  mel  guidi , Euméo  ? 

Che  pensa  il  foresiier  ? Tema  de’ Proci , 

O vergogna  di  sé  , forse  occupollo  ? 

Guai  quel  mendico  , cui  ritieii  vergogna  l 700 
Ma  tu  così  lé  rispondesti , Eumeo: 

Ei , come  altri  farebbe  in  pari  stato  , 

De’  superbi  schivar  Ponte  desia. 

Bensì  l’esorta  sostener  , regina , 

Finché  il  dì  cada.  Così  meglio  voi 
Potrete  ragionar  sola  con  solo. 

Gran  senno  in  lui , chiunque  sìa  , dimora , 
F.lla  riprese  r chè  sì  audaci  e ingiusti 
Non  ha  Finterò  mondo  uomini  altrove. 

Euméo  ritornò  ai  Proci , e di  Telemaco  7x0 
Parlando  , ond-?  altri  non  potesse  udirlo  , 
All’orecchia  vicin  , Caro  , gli  disse  , 
f.e  marni  re  , tua  ricchezza  e mio  sostegno  , 

A custodire  io  vo.  Tu  su  le  cose 

Qui  veglia  , e più  sovra  te  stesso  , e pensa 

Che  i giorni  passi  tra  una  gente  ostile  , 

Cui  prima  , ch’ella  noi , Giove  disperda. 

Sì  , babbo  mio  , Telemaco  rispose. 

Partì,  ma  dopo  il  cibo  , e al  di  novello 
Torna,  e vitnnie  pingui  adduci  teco,  720 
Tacque;  ed  Euméu  sovra  il  polito  scanno 
Nuovamente  sedea.  Cibato  , ai  campi 
Ire  aCFiettossi , gli  steccati  addietro 
Lasciando,  e la  magìmi  d'uomini  piena 
(rozzoviglianti , cui  piacere  il  ballo 
Era  , e il  canto  piacer  , mentre  spiegava 
L'ali  sue  nere  sovra  lor  la  Notte. 


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LIBRO  D E G I M 0 T T A V 0 


ARGOMENTO 

ComlMUijDeDto  Ira  Irò  ed  Ulisw  , che  rimane  al  di  sopra.  Penelope  si  presenU  ai  Proci  y e sì  la^a  cbe 
iosultÌDO  glioapilì,  e che,  aspiraodu  alle  omze  di  lei,  in  vece  di  ofterirle  i duni  secuudu  il  O'Stutue,  divorino 
le  sue  S4.<staave.  Duni  dc'i’roci  a Pi‘oeU*|ie.  Sopravvenuta,  la  notte,  LKsse  è insultatu  nuuvauicute  , prinu  con 
parole  dall'ancella  Melaolu,  e poi  da  Eurimaco,  che  uno  sgabello,  come  già  lece  Antiooo  , lanciagli  contro. 


XJn  accattante  pubblico  sorvenne, 

3>i  nieudicare  per  laciltiule  u«ato, 

Famulo  vurator  , che  mai  non  tlii>&a 
Per  mollo  cibo , e per  vin  molto  , Rasta  , 

^ gigante  a vederlo  , ancor  che  poco 
X)i  ioiza  e cuore  in  ȓ  gran  corpo  tosse. 

Egli  avra  nome  Aniéu:  rosi  cliiamollo, 

^’el  di  che  iiaique  , la  diletta  madie. 

Ma  dai  giovani  tutti  Irò  nomalo 

Era  , come  colui  che  le  imbasciaie  io 

portar  solca  , (piai  gliene  desse  il  carco. 

G-iunto  iu  appena  , che  scacciava  Ulisse 

Xlalla  sua  casa  , cd  il  mordea  co'  detti  : 

Vecchio  , via  dal  vestibolo,  se  vuoi 

Cli'  io  non  ti  tragga  iuor  prr  un  de' piedi. 

Kon  vedi  l’ummìccar , perdi'io  ti  tragga. 

Di  tutti  a me?  Pur  m'arrossisco,  e stonimi. 
Ma  levali , o alle  prese  io  con  te  veglio. 

Bieco  Ulisse  guatolio  , e . Sciagurato , 

P ispose,  in  opra  io  non  t'ollendo,  o in  voce,  3u 
Kè  che  alcuno  a te  doni , anco  a man  piene  , 

T' invidio  io  punto.  Questa  soglia  entrambi 
Ci  capirà.  Tu  non  dovresti  noja 
Del  mio  bene  sentir  , tu  , che  un  mendico 
Mi  sembri  al  par  di  me.  Dìspensaturi 
Delle  ricchezze  alTuom  sono  i Celesti. 
Invitarmi  a pugnar  non  ti  consìglio. 

Onde  inhammuto,  benché  vrccbio,  d’ira 
Le  labbra  io  non  t'insanguini , ed  il  petto. 

Più  assai  traiujuiUo  io  ne  sarei  domane:  3u 

Chè  alla  niagion  del  tiglio  di  Laerte 
Biiorno  iar  tu  non  potresti , io  credo. 

Poh  , sdegnato  lì  pezzente  Irò  riprese, 

Più  volubili  i detti  a questo  ghiotto 
Corrono  , e ratti  più  , ihe  non  a veci  hia , 

Che  sempre  al  focolar  s’aggira  intorno. 

S’io  queste  maii  pongogli  addosso  , tutti 
Dalle  mascelle  , come  a ingordo  porco 
Entrato  ita  le  biade  , i denti  io  schianto. 

Or  bene  , un  cinto  senza  più  li  cuopra  , 4^ 

£ questi  ci  conoscano  alla  pugna , 
die  tosto  avremo,  lo  veder  voglio  , come 
Con  uom  combatterai  tanto  più  verde. 

Così  sul  liscio  limitar  dell'alto 
Porte  garrìan  d'ingiuriosi  motti. 

Avviso'sciie  Antiuoo  , e , dolcemente 
Bìdendu  , sciolse  lai  parole  : Amici , 

Nulla  di  sì  giocondo  a questi  alberghi 
Gli  abilator  dell'etra  unqua  maiidaro. 

Si  bisticcian  tra  lor  l’o«pite  ed  Irò  , 5o 

£ già  le  man  frammischiano.  Su  , via. 

Meglio  alla  zuffa  raccendiamli  ancora. 

Tutti  s'alzaro  , nelle  risa  dando  , 

£ ai  due  straccioni  s’aB'ullaro  intorno. 

£ Antinoo  così  : Nobili  Proci , 

Seiitito  un  peusìer  mio.  Di  qua’  ventrigli 


Di  capre  , che  di  sangue  e grasso  empiuti 
Sul  loco  stai!  per  la  lutiira  iena  , 

Scelga  qual  più  vorrà  chi  vince  , e quindi 
D'ogiiì  iiustto  convito  a parte  aia  ; Co 

Nè  più  tra  noi  s'aggiri  aliro  cencioso. 

Ciò  piacque  a tutti.  Ma  Taccono  eroe  , 

Cui  noti  iàllian  le  astuzie  , Amici , dtsso  , 

Ad  uum  dagli  anni  e da)  disastri  rutto 
Con  giovane  pugnar  non  panni  bello. 

K pur  botte  a ricevere  , e ferite 
La  rea  mi  spitig«i  itnpeTiusa  fame. 

Ma  voi  giurate  alineii  che  nessuno,  Irò 
Ter  favorir,  me  della  niaii  gagliarda 
Percuoterà  , male  adopiaudu  : troppo  70 
Mi  tornerebbe  aliar  duro  il  cimento. 

Gturaro.  £ di  T'eiemacu  Ìii  tal  guisa 
La  sacra  possa  laveilò:  Straniero  , 

Di  re.'<piriger  costui  ti  detta  il  core? 

Ke.’ìpingilu  : nè  alcun  temer  de’Proci. 

Chi  t’oseià  percuotere,  con  molti 
A combattere  avià.  Gli  ospiti  io  curo, 

E tal  favella  non  condannan  certo 
Eurimaco  ed  Antinoo  , ambo  prudenti. 

Disse;  e ciascuno  approvò  il  detto.  Ulisse  80 
Si  spogliò  tosto  , c de'suoi  panni  un  cinto 
Formussi , c nudi  i lati  omeri , nudo 
Mostrò  il  gran  petto  e le  robuste  braccia  , 

E i magni  liancfii  discoprì  : Minerva  , 

Che  per  lui  scese  dalTOlimpo  , tutte 
Ue’pojioli  al  |>astor  le  membra  crebbe. 

S'upiro  i Proci  iieramenle,  e alcuno 

Così  direa,  volgendosi  al  vicino  y 

Irò,  g à non  più  Irò  , in  su  la  te^la 

S'avrà  tratto  egli  stesso  il  suo  malanno  , 90 

Tai  iianchi  ostenta  e tali  braccia  il  veglio  ! 

A queste  voci  malamente  dTro 
1/aiiiino  commoveasì.  E non  pertanto 
Col  cinto  ai  lombi , e pallido  la  faccia  , 

Gii  schiavi  a forza  il  cunduceau  : su  Tossa 
TremavangU  le  carni.  Antinoo  allora 
Prendealo  a rimbrottar:  Millantatore, 

Perchè  or  non  muori,  o ache  nascesti  un  giorno, 
Tu  , che  sì  temi , e tremi  uom  dagli  aifuniii , 
Non  men  che  dall'età,  snervato  e domo?  100 
Ala  odi  quel  che  di  te  fia.  Se  a terra 
Con  vincitrice  man  colui  ti  mette  , 
lo  te  gettato  m una  ratta  nave 
Manderò  nelTEpiro  al  rege  Echeto  , 

Flagello  de’inortali , il  qual  ti  mozzi 
Gli  orrecchi  e il  naso  con  acerbo  ferro  , 

E,  da  stracciarsi  crudi , a un  can  vorace 
Butti  gii  svelti  genitali  in  preda. 

Un  tremor  gli  entrò  in  corpo  ancor  più  forte; 
Ma  il  condusser  nel  mezzo.  I due  campioni  1 10 
Le  mani  alzare  : dubitava  Ulisse , 

Se  del  pugno  così  dar  gli  dovesse  , 


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ODISSEA 


9i 

Cile  lui  caduto  abbandonasse  l’alma , 

O atterrarlo  , e non  più  , con  iniuor  colpo. 
Questo  partito  scelse  , onde  agli  Achiri 
Celarsi  meglio.  Irò  la  destra  spalla 
Ad  Ulisse  colp:  ; ma  Ulisse  in  guisa 
Sotto  l’orecchia  l’investì  nel  cullo, 

Che  fossa  iVacassògli  : uscìagli  il  rosso 
Sangue  lùorper  la  bocca,  ed  ei  mugghiando  120 
Cascò  , digrignò  i denti , e il  pavimento 
Calcitrando  batte.  Gli  amanti  a quella 
Vista  , levate  le  lor  braccia  in  alto  , 
Scoppiavan  delle  risa.  Intanto  Ulisse  | 

X.’nu  de’pledi  aH’erratogli  , il  traea, 

Pel  vestibolo  t’uor  sino  alla  corte  , 

E aU'eutraia  del  portico.  Ciò  l’atto 
Col  dosso  al  muro  l’appoggiò,  gli  pose 
Bastone  in  mano  , e , Qui , gli  disse , or  siedi, 
E scaccia  dal  palagio  i cani  e i ciacchi  j i3o 
E'è  più  arrogarti , così  vii , qual  sei  , 

Su  gli  ospiti  dominio  e su  i mendichi: 

Che  un’altra  volta  non  t'incontri  piaggio. 

Così  dicendo,  si  gittava  intorno 
Alle  spalle  il  suo  zaino  , e al  limitare 
Ritornava  , e sedeavi.  Rientrare 
Culi  dolce  riso  in  su  le  labbra  i Proci  f 
Ed  a lui  blande  rivolgean  parole  : 

Ospite  , Giove  a te  con  gli  altri  Numi 
Quanto  più  brami , e t’è  più  caro  , invii,  140 
A te  , che  la  città  smorbasti  a un  tratto 
Di  questo  insaziabile  accattone. 

Che  ad  Echeto  , degli  uomini  flagello  , 

Tra  poco  andrà  su  gli  Epiroti  lidi. 

Così  parlare  ; e dell’augurio  Ulisse 
Gudea  nell’alma  ; eAntinuu  un  gran  ventriglio 
Di  sangue  e di  pinguedine  ripieno 
Gli  recò  innanzi.  Ma  il  valente  Aniinomo 
Due  presentògli  dal  canestro  tolti 
Candidissimi  pani , e,  propinando  i5o 

Con  aurea  tazza  , Salve , disse , o padre, 
Forestier  , salve  : se  infelice  or  vivi , 

Eieti  scorranti  almeno  i dì  futuri. 

Aniinomo,  l’eroe  scaltro  rispose, 
D’intendimento  , e di  ragion  dotato 
Mi  sembri , e in  questo  tu  ritrai  dal  padre  , 
Da  Niso  Dulichiense , ond’io  la  fama 
Sonare  udìa  , buono  del  par  , che  ricco, 

Da  cui  dicontl  nato  } e fede  ancora 
!Ne  fa  il  tuo  senno , e le  parole  e gli  atti.  160 
A te  dunque  io  favello  , e tu  i miei  detti 
Ricevi , e serba  in  te.  Sai  tu  di  quanto 
Spira  , e passeggiti  su  la  terra  , o serpe , 
Ciòcheal  mondo  ha  v vi  di  più  infermo?È  l’uomo. 
Finché  stato  felice  i Dei  gli  danno, 

E il  suo  ginocchio  di  vigor  fiorisce  , 

INon  crede  che  venir  dcbbagli  sopra 
D’infortunio  giammai.  Sopra  gli  viene? 

Con  ripugnante  alma  indegnata  il  soffre: 

Che  quali  i giorni  son  , thè  foschi  o chiarì,  170 
De’ mortali  il  gran  padre  e de’Celesti 
D’alto  gli  manda  , tal  dell’uomo  è il  core. 

Vissi  anch’io  vita  fortunata  e illustre, 

E , secondando  la  mia  forza , e troppo 
Nel  genitor  fidando  e ne’germani , 

Non  giuste,  vaglia  il  vero  , opre  io  commisi. 
Ma  ciascuno  a ben  far  dee  por  l’ingegno , 

£ quel,  che  dai  Numi  ha,  fruir  tranquillo  : 


Nè  costoro  imitar , che  iniquamente 
Struggono  i beni , e la  pudica  donna  180 

Oltraggiali  d’un  eroe  , che  lungo  tempo 
Dalla  sua  patria  e dagli  amici , io  credo , 
Lontano  ancor  non  rimarrà  ; che  a questi 
Luoghi  anzi  è assai  vicino.  Al  tuo  ricetto 
Quindi  possa  guidarti  un  Dio  pietoso  , 

K torti  agli  occhi  suoi , com’egli  appaja: 

Poiché  decisa  senza  molto  sangue  , 

Messo  ch’egli  abbia  in  sua  magione  il  piede. 
Non  Ha  tra  i Proci  e lui  l’alta  contesa. 

Libò  ciò  detto,  e accostò  ai  labbri  il  nappo,  igo 
E tornoilo  ad  Anfiiioino.  Costui 
Per  la  sala  iva  , conturbato  il  core, 

E squassando  la  testa  , ed  il  suo  male 
Divinando  , ma  itivan  : f uggir  non  puote, 
Legato  anch’ei  da  Palla  , onde  cadesse 
Per  l’asta  di  Teleuiaco.  Nel  seggio. 

Donde  sorto  era  , ai  ripose  intanto. 

Ma  d’icario  alla  figlia,  alla  prudente 
Penelope,  la  Dea  dai  glauchi  lumi 
Spirò  il  disegno  di  mostrarsi  ai  Proci  , 220 

Perchè  lor  s’allargasse  il  core  in  petto 
Di  nuova  speme,  ed  in  onor  più  grande 
Presso  il  consorte  e il  figlio  ella  salisse. 

Diede , nè  ben  sa  come  , in  un  grau  riso  , 

E tai  detti  formò  : Sento  un  desire 
Non  pria  sentito  di  mostrarmi  ai  Proci , 
Eurinome  , bench’io  tutti  gli  abborra. 

Utile  avviso  in  lor  presenza  io  bramo 
A Telemaco  dare  , il  qual  troppo  usa 
Con  que’suptrbi  giovani , che  àcceuti  210 
Ti  drizzan  blandi,  e iiisidiariti  da  tergo. 

Saggio  è il  consiglio  , Euriuoine  rispose. 

Va  , figlia  , dunque , ed  il  tuo  nato  asseuua. 

Ma  pria  ti  lava  , e su  le  guance  poni 
L’usato  unguento.  Apparir  vuoi  con  faccia 
Dalle  lagrime  tue  solcata  e guasta  ? 

Quel  pianger  sempre  , e dall’un  giorno  all’altro 
Nullo  divario  far  , poco  s’addice. 

Già  venne  il  figlio  neH’età  fiorita  , 

In  cui  vederlo  con  l’onor  del  mento  220 
Si  ardentemente  supplicavi  ai  Numi. 

Per  zelo  che  di  me  l’alma  ti  scaldi , 
Replicava  Penelope  , di  bagni  , 

Eurinome  , u di  lise) , or  non  parlarmi. 

Il  dì  che  Ulisse  s'imbarcò  per  Troja  , • 

Tolsermi  ogni  beltà  dal  volto  i Numi. 

Bensì  Autonoe  mi  chiama  , e Ippodaraia  , 

Che  da  lato  mi  stieno.  Ai  Proci  sola 
Non  olTrirommi:  chè  pudor  iiiel  vieta. 

Tacque;  e la  vecchia  Eurinome  le  donne  200 
A chiamar  tosto  , e ad  affrettarle  , uscio. 

Ma  t’occhiazzurra  Dea  , nuovo  pensiero 
Formando  nella  mente,  alla  pudica 
Figlia  d’icario  un  molle  sonno  infuse. 

Mentre  giacca  sovra  il  suo  seggio  , e tutte 
Il  molle  sonno  le  sciogliea  le  membra, 

Palla  Minerva  di  celesti  dopi 
La  riforma  , perchè  di  lei  più  sempre 
Invaghisser  gli  Achei.  Pria  su  le  guance 
Quella  , che  tien  dalla  bellezza  il  nume  , 240 

Sparse  divina  essenza  , onde  si  lustra 
La  inghirlandata  d’òr  Vener , se  mai 
Va  delle  Grazie  al  dilettoso  ballo  : 

Poi  di  corpo  la  crebbe  , c ricolmoUa 


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9» 


LIBRO  DEC 

Nel  volto,  e tal  su  lei  candor  distese, 

Che  Tavoriu  tagliato  allora  allora 
Ceder  doveale  al  paragon.  La  Diva 
Risali  deirOlintpo  in  su  le  cime. 

Venner  le  aiinelle  strepitando , e ratto 
Si  riscosse  Penelope  dal  sonno  , 25o 

F.  con  man  gli  occhi  stropicciossi  , e disse: 
Qual  dolce  sonno  delia  sua  lese 'ombra 
We  infelice  copii  l Deh  cosi  dolce 
IVIorte  subitamente  in  me  la  casta 
Artemide  scoccasse;  ed  io  Petade 
Più  non  avessi  a consumar  nel  pianto, 
iìospiraiidu  il  valor  sommo,  infinito 
D'iin  eroe , cui  non  sorse  in  Grecia  il  pari. 

Cosi  detto  , scendea  dalle  superne 
J.ucide  stanze  al  basso,  e non  già  sola  , 260 

]Vla  con  Autonoe  e lpp4>damia  da  tergo. 

Sul  limitar  della  Dedalea  sala  , 

Ove  i Proci  sedean  , trovasi  appena  , 

Che  arresta  il  piè  tra  l'una  e l’altra  ancella 
J/ottima  delle  donne  , e co'sottili 
Veli  del  capo  ambe  le  guance  adombra. 

Senza  forza  restaro  e senza  moto: 

L’alma  più  inteneria-,  si  raddoppiava 
J)elle  nozze  il  desire  in  ogni  petto. 

EU.1  queste  a Telemaco  parole  : 270 

piglio  j io  te  più  non  riconosco.  Sensi 
>iutrìvi  in  mente  più  maturi  e scorti 
Kelia  tua  fanciullezza  ; ed  or  che  grande 
Ti  veggio , e in  un’età  più  ferma  entrato  , 

Or , cne  stranier , che  a riguardar  si  fèsse 
La  tua  statura  e la  beltà  , tc  prole 
D'uom  beato  diria , più  non  dimostri 
Giustizia  , o senno.  Tollerar  sì  indegno 
Trattamento  d’un  ospite  in  tua  reggia  ! 
Oltraggio  sì  crude! , che  vendicato  280 

Kon  siagli , puote  a un  forestier  qui  usarsi , 
Che  su  te  non  ne  cada  eterno  scorno  ? 

Il  prudente  Telamaco  rispose  ; 

Wadre , perchè  ti  crucci , io  non  mi  sdegno. 
Meglio,  che  pria  ch’io  di  fanciullo  uscissi  , 

Le  umane  cose  , il  pur  mi  credi  , intendo  , 

Li  tra  lor  non  confondo  il  torto  e*il  dritto. 

ISIa  tutto  oprare , o antiveder , non  valgo , 
Circondato  qual  sono  e insidiato 
Da  fiera  gente  , e d’assistenti  solo.  2t)0 

Quanto  alla  lotta  tra  l’estranio  ed  Irò  , 

Parte  i Proci  non  v^ebbero,  e del  primo 
Fu  la  vittoria.  Ed  oh  ! piacesse  al  padre 
Giove,  e alla  Diva  Fallade  , e ad  Apollo , 

Che  tentennasse  a cotestor  già  domi 
La  testa  , e si  sfasciassero  le  membra  , 

Liei  vestibolo  agli  uni  , e agli  altri  in  sala  : 
Come  a quelPIro , che  alle  porle  or  siede 
Dell’atrio,  il  capo  qua  c là  piegando, 

D’un  ebbro  in  guisa,  e che  su  i piedi  starsi  5oo 
Kun  può  , nò  a casa  ricondursi  : tanto 
Le  membra  riportonne  .afflitte  e peste. 

Così  la  madre  e il  fìglio.  Indi  tal  voci 
Eurimaco  a Penelope  drizzava: 

Figlia  d’icario  , se  te  vista  tutti 
Avesser  per  Tlasìo  Argo  gli  Achlvi, 

Turba  qui  di  rivali  assai  più  folta 
Banchetterìa  dallo  spuntar  dell’Alba  : 

Che  non  v’ha  donna  che  per  gran  sembiante  , 
Per  bellezza  e per  senno  a te  s’agguagli.  3io 


M 0 T T A V 0. 

E la  nobile  a lui  d’icario  figlia  : 

Eurimaco  , virtù  , sembianza  , tntto^ 

Mi  rapirò  gli  Dei  , quando  gl»  Argivi  ^ 

Sciol&cr  per  Troja  , c con  gl»  Argivi  Ulisse. 
S’egli , riposto  in  sua  magione  il  piede  , 

A reggere  il  mio  staro  ancor  prendesse, 

Ciò  mia  gloria  sarebbe,  e beltà  mia. 

Ora  io  m’angoscio  : tanti  a me  sul  capo 
Mal»  pioijìbaro.  Ei , d’ imbarcarsi  inatto, 
Prese  la  mia  con  la  sua  destra  , e,  Donna,  320 
Disse,  non  credo  io  già  che  i iorti  Achei 
Da  Troja  tutti  riederanno  illesi: 

Poiché  sento  pugnaci  essere  i Teucri, 

(iran  sagiltarj  , e cavalieri  egregi , 

Che  pel  campo  agitar  sanno  i destrieri 
Rapidamente  : quel  che  in  breve  il  fato 
Delle  guerre  terribili  decide. 

Quiiidi , se  me  ricondurran  gli  Eterni , 

0 Troja  riterrà  morto , o cattivo , 

Sposa , io  non  so.  Tu  sovra  tutto  veglia.  33o 
Rispetta  il  padre  mio , la  madre  onora  , 

Come  oggi , od  ancor  più,  fìnch’io  soi»  luiige. 
E allor  che  del  suo  pel  vedrai  vestito 
Del  figlio  il  mento , a qual  ti  fia  più  in  grado  , 
Lasciando  la  magion  , vanne  consorte. 

Tal  favellava  ; cd  ecco  giunto  il  tempo. 

L’ infausta  notte  apparirà  , che  dee 
Portare  a me  queste  odiose  nozze , 

A me  ♦ cui  Giove  ogni  letizia  spense. 

Ma  ciò  la  mia  tristezza  oggi  più  aggrava  , 340 
Che  gli  usi  antichi  mm  si  guardar»  punto. 
Color,  che  donna  illustre  , e d’uom  possente 
Figlia  un  di  ambiano  , e contendean  tra  loro, 
Beile  conduCean  vittime  , gli  amici 
Per  convitar  della  bramala  donna  , 

E doni  a questa  olTiian:  non  già  raltru» 
Slniggeano  impunemente  a mensa  assisi. 

Disse,  e l’eroe  gioì  ch'ella  in  tal  modo 
D»  ’ Proci  i doni  procurasse  , e loro 
Molccsse  il  petto  con  parole  blande  , 55a 

Mentre  in  fondo  del  core  altro  volgea. 

Ma  così  Antinoo  allori  Nubìl  d’icario 
Figlia  , saggia  Penelope  , ricevi 

1 doni  ,*che  gli  Achei  già  per  ofi’rirli 
Sono  , e cui  fora  il  ricusar  stoltezza  : 

Ma  noi  di  qua  non  ci  torrem  , se  un  prima 
De’  piu  illustri  fra  noi  te  non  acquista. 

Piacquero  i detti  ; e alla  sua  casa  ognuno 
Per  li  doni  spedì.  L'araldo  un  grande 
Recò  ad  Antinoo,  e vario  cassa»  bel  peplo,  36o 
Che  avea  dodici  d’òr  fibbie  lampanti 
Con  ardiglioni  ben  ricurvi  aitate. 

Kiiriinaco  un  monile  addiir  si  fece. 

D’oro  , e intrecciato  d’ambra  , opra  da  insigne 
Mastro  sudata  , che  splendea  qual  sole. 

Due  serventi  portaro  a Euridamante 
Finissimi  orecchini  a tre  pupille  , 

Donde  grazia  infinita  ascia  di  raggi. 

Fregio  non  fu  men  prezioso  il  vezzo. 

Che  re  Pisandro  , di  Polittor  figlio  , 370 

Dalle  mani  d’un  servo  ebbe  ; e non  meno 
Bell»  d’ogni  altro  Acheo  parvero  i doni. 

difina  Penelope,  seguita 
Dairancelle , co’  doni  alle  superne 
.Stanze  montava  ; e » Proci  al  ballo  e al  canto  • 
Fiuchè , a romper  nel  mezzo  ì lor  diletti , 


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96  ODI 

L’ombra  notturna  sovra  lor  cadesse. 

Caduta  sovra  lur  l’umbra  notturna  , 

Tre  gran  bracieri  saettanti  luce  , 

Cui  legne  secche  e dure  , e fesse  appena  , 3tì<.> 

Nodrìano  , i servi  collocar  nel  mezzo  ; 

E alluniàr  qua  e là  più  faci  ancora. 

Cura  di  questi  fuochi  aveauo  alterna 
Le  donne  del  palagio.  A queste  feo 
Tal  detti  il  ricco  di  consigli  Ulisse  : 

Schiave  d’UIisse,  del  re  vostro  assente 
Per  sì  lunga  stagion,  la  veneranda 
Begina  vostra  a ritrovar  salite. 

Fusi  rotando , o pettinando  lane^ 

Sedetele  vicino,  e ne’snoi  mali  Sqo 

La  coniortatc.  Mio  pensier  frattanto 
Sarà,  che  ai  Proci  non  i'allisca  il  lume. 

Quando  attendere  ancor  volesser  l’Alba  , 

Me  non  istancheran  : cliè  molto  io  sono 
Da  molto  tempo  a tollerare  avvezzo. 

Questi  detti  lor  feo.  Riser  le  ancelle, 

E a vicenda  guarda vansi , e schernirlo 
Con  villane  parole  una  Melante  , 

Bella  guancia  , s’ardìa.  Dolio  costei 
Generò  , ma  Penelope  nutrilla  , 400 

Siccome  figlia  , nulla  mai  di  quanto 
Lusinga  le  fanciulle,  a lei  negando: 

F>è  s’afflisse  per  ciò  con  la  regina 
Melanto  mai , che  anzi  tradìala  , e s’era 
A Eurlmaco  d’amor  turpe  congiunta. 

Costei  pungea  viliaiiaim-nte  Ulisse: 

Ospite  miserabile  , tu  sei 

Un  uomo  , io  credo  , di  cervello  uscito  , 

Tu  , che  in  vece  d’andar  neJl’oflìcina 
D’un  fabbro  a coricarti , o in  vii  taverna , 410 
Qui  tia  una  schiera  te  ne  stai  di  prenci , 
Lungo  cianciando,  e intrepido.  Alla  mente 
Ti  .salì  senza  forse  il  molto  vino  , 

O d’uom  briaco  hai  tu  la  mente  , e quindi 
Senza  construtto  parli.  O esulti  !anto, 

Perchè  il  ramingo  Irò  vincesti  ? Bada, 

Non  alcun  qui  senza  indugiare  insorga  , 

Che  , d'Iro  assai  miglior  , te  nella  testa 

Con  le  robuste  man  pesti  e t’insozzi 

Tutto  di  sangue  , e del  palagio  scacci.  420 

Bieco  gnatolla  , e le  rispose  Ulisse: 

Cagna  , io  ratto  a Telemaco  i tuoi  sensi , 
Perch’el  ti  tagli  qui  medesmo  in  pezzi,  * 
A riportare  andrò.  Così  dicendo  , 

Le  femmine  atterrì , che  per  la  casa 
Mosser  veloci , benché  a tutte  forte 
Le  ginocchia  tremassero:  sì  presso 
Ciò  ch’ei  lor  detto  avea  , ctedeano  al  vero. 

Ei  si  fermò  presso  i bracieri  ardenti  , 

La  luce  ravvivandone  , e tenendo  43o 

GII  occhi  ne’Proci  ognor,  mentre  nemiche 
Cose  agitava,  e non  indarno,  in  petto. 

Minerva  intanto  non  lasciava  i Proci 
Rimanersi  dall’onte  , acciò  in  Ulisse 
Crescer  dovesse  col  dolor  lo  sdegno. 

Eurimaco  di  Polibo  parlava 
Primo  , l’eroe  mordendo  , e a nuovo  riso 
Provocando  i compagni  : Udite,  amanti 
DeU’i:icllta  regina  , un  mio  pensiero  , 

Che  tacer  non  poss’io.  Non  senza  un  Nume  440 
Venne  costui  nella  magion  d'Ulisse. 

Splender  gli  veggo , come  face  , il  capo , 


S .S  F.  A 

Sovra  cui  non  ispnnta  un  col  capello. 

Quindi , al  rovesciator  delle  munite 
Città  converso  , Forestler , soggiunse , 

Vorreste  a me  servir  , s’io  ti  pigliassi 
Per  assestar  nel  mio  poder  le  siepi , 

E gli  alberi  piantar  ? Buona  mercede 
Tu  ne  otterresti  : cotidiano  vitto  , 

E vestimenti  al  dosso  , e ai  piè  calzari.  4bt> 
Ma  perchè  sol  fosti  di  vizj  a scuola , 

Anzi  , che  faticar,  pìttocar  vuoi, 

Onde  se  t’è  possibile  , sfamarti. 

Eurimaco  , rispose  il  saggio  Ulisse, 

Se  tra  noi  gara  di  lavor  sorgesse 
A primavera  , quando  il  giorno  allunga, 

E con  adunche  in  man  falci  taglienti 
Ci  liienesse  un  prato  ambo  digiuni 
Sino  alla  notie  , e non  mancasse  l’erba  ; 

O fosser  da  guidare  ad  ambo  dati  4^® 

Grandi,  ros'si , gagliardi,  e d’erba  sazj 
Tauri  d’eladee  di  virtude  uguali  , 

E date  quattro  da  spezzar  sul  campo 
Sode  bubitlce  col  posante  aratro  , 

Vedresti  il  mio  vigor,  vedresti  . come 
Aprir  saprei  dritto  e profondo  il  .solco! 

Poni  ancor,  che  il  Saturnio  un’aspra  guerra 
Da  qualche  parte  ci  volgesse  adtiosso, 

Ed  io  scudo  e due  lance  , ed  alle  tempie 
Salda  celata  di  metallo  avessi , 470 

Misto  ai  primi  gtierrier  mi  st^orgeresti 
Nella  battaglia,  e l’importuna  fame 
Gittare  a me  non  oseresti  in  faccia. 

Or  protervo  è il  tuo  labbro  , e duro  il  core  , 

E forte  in  certa  guisa  , e grande  sembri , 
l’f  rchè  con  poca  gente  u.si  , e non  brava  : 

Ma  Ulisse  giunga  , o appressi  almeno,  e queste 
Porte  , benché  assai  larghe  , a te  già  vólto 
Negli  amari , cred’io  , passi  di  fuga  , 

Deh  come  a un  tratto  sembreriano  anguste!  480 

Eurimaco  in  maggior  collera  salse, 

E , guardandolo  bieco  ; Ah  ! doloroso  , 

Di.^se  , vuoi  tu  ch’io  ti  diserti?  Ardisci 
Così  gracchiar  fra  tanti  , e nulla  temi  ? 

O il  vili  t’ingombra  , o tu  nascesti  pazzo  , 

O quel  vinto  Irò  ti  cavò  di  senno. 

Ciò  detto  , prese  lo  .sgabel  : ma  Ulisse 
S’abbassava  d’Anfinomo  ai  ginocchi , 

Per  can.sarsi  da  Eurlmaco  , die  in  vece 
Nella  man  destra  del  coppier  percosse.  49® 
Cascata  rimbombò  la  coppa  in  terra, 

E il  pincerna  ululando  andò  riverso. 
.Strepitavano  i Proci  entro  la  sala 
DalTombre  cinta  della  notte  ; e alcuno  , 
Mirando  il  suo  vicin  , Morto  , dicea  . 

Prima  che  giunto  qua  , Tospile  fosse! 

Portato  non  ci  ayrìa  questo  sì  grave 
Tumulto.  Or  si  battaglia  , e per  chi  dunque  ? 
l’er  un  nieudico  5 e già  svanì  de’nostri 
Prandj  il  diletto  , ed  il  più  vii  trionfa.  5oo 

E Telemaco  allor  : Che  insania  è questa  , 
Miseri , a cui  non  cal  più  della  mensa  ? 

Certo  vi  turba  e vi  coiiunnove  uii  Dio. 

Su  , via  , poiché  de’cibi  e de’licori 
Tacerà  il  desiderio  in  tutti  voi  , 

Ite  a corcarvi , se  vel  detta  il  core, 

Ne’vostri  alberghi , che  nessuno  io  scaccio. 

Tutti , mordendo  il  labbro  , alle  sicure 


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LIBRO  DECIMOTTAVO. 


97 


Parole  di  Telemaco  stupirò. 

Ma  tra  lor  sorse  Anfinomo , l’illustre  5io 
Figliuol  di  Niso  : Amici,  a chi  ben  parla 
Sinistro  più  non  si  risponda  , o acerbo  , 

Kè  l’ospite  s’oltraggi , o alcun  de’servi , 

Che  in  corte  son  del  rinomato  Ulisse. 

Muova  il  coppiere  in  giro  , e poscia , fatti 
I libamenti , nelle  nostre  case  , 

Le  membra  al  sonno  per  offrir,  si  vada  , 

£ si  lasci  a Telemaco  la  cura 


Dello  stranier  , quando  al  ano  tetto  el  renne. 

Disse,  e non  tii,  cui  non  piacesse  il  detto,  òao 
L’inclito  Mulio,  il  Dulichiense  araldo 
D’Anfinomo  , versò  dall’urna  il  vino , 

K a tutti  in  giro  nelle  tazze  il  porse  ; 

Ed  i Proci  libavo  , e del  licore 
Dolce , qual  mele  , s’inondaro  il  petto. 

Ma  com’ebber  libato,  e a piena  voglia 
Bevuto  , ognun , per  dar  le  membra  al  sonno, 
Afiifettò  di  ritrarsi  al  proprio  albergo. 


LIBRO  DECIMONONO 


argomento 

Partili  i Proci , trasportano  Ulisse  e Telemaco  Panni  nelle  sUnre  superiori.  Telemaco  va  a coricarsi  ; e Penelope 
scende  per  favellar  con  Ulisse,  che  solo  è rimasto.  Questi  finge  una  storia  , che  la  regina  ode  con  grande  commozion 
d’animo.  I.a  nutrice  Euricléa  riconosce,  lavandolo,  Ulisse.  Pcncloi^  gli  narra  un  sogno,  c gli  palesa  il  cimento, 
che  intende  proporre  ai  Proci , come  condirion  delle  nozsie , alle^quali  nop  può  oramai  piu  sottrarsi. 


Etti 'ampia  sala  rimaneo  l’eroe. 

Strage  con  Palla  macchinando  ai  Proci. 

Subito  al  figlio  si  converse,  e disse  : 

Telemaco  , levar  di  questi  luoghi 
L’armi  conviene  , e trasportarle  in  alto. 

Se  le  bell’armì  chiederanno  i Proci , 

Con  parolette  a lusingarli  volto  , 

10  , lor  dirai , dal  fumo  atro  le  tolsi , 

Perchè  non  eran  più  quali  lasciolle 

Ulisse  il  giorno  , che  per  Troja  sciolse;  io 
Ma  deturpate,  scolorate,  ovunqne 

11  bruno  le  toccò  vapor  del  foco. 

Sovra  tutto  io  temei , nè  senza  un  Nume 
Destossi  in  me  questo  timor , non  furso 
Dopo  molto  volar  di  dolci  tazze 

Tra  voi  sorgesse  un’improvvisa  lite, 

E l’un  l’altro  ferisse , ed  il  convito 
Contaminaste  , e gli  sponsali.  Grande 
Allettamento  è all'uom  lo  stesso  ferro. 

Telemaco  seguì  del  suo  diletto  20 

Padre  il  comando  , e alla  nutrice  , cui 
Tosto  a sè  dimandò  , Mamma  , dicea , 

Su  via,  ritieni  nelle  stanze  loro 
Le  femmine  rinchiuse  , in  sin  ch’io  l’armi , 
Cile  qui  nella  mia  infanzia  , e nell’assenza 
Del  padre  , mi  guastò  neglette  il  fumo  , 
Tr.ìsporti  in  alto.  Collocarle  io  voglio, 

Dove  del  foco  non  le  attinga  il  vampo. 

£d  Euricléa  , Figlio,  rispose  ; in  petto 
Deh  ti  s’annidi  al  fin  sénno  cotanto  , 3o 

Che  regger  possi  la  tua  casa  , e intatti 
Serbar  gli  averi  tuoi  ! Ma  chi  la  strada 
Ti  schiarerà  ? Quando  non  vuoi  che  innanzi 
Con  le  fiaccole  in  man  vndan  le  ancelle. 

Il  lorestier  , Telemaco  riprese. 

Chi  si  nutre  del  mio  , benché  venuto 
Di  lunge,  io  mal  non  patirollo  inerte. 

Tanto  bastò  a colei , perchè  ogni  porta 
Del  ben  constrntto  ginecèo  fermasse. 

Ulisse  incontanente  e il  caro  figlio,  4® 

Correano  ad  allogar  gli  elmi  chiomati, 

Gli  umbilicati  scudi  e Paste  acute  ; 

ODISSEA 


E avanti  ad  ambo  l’Atenéa  Minerva , 

Tenendo  in  mano  una  lucerna  d’oro , 
Chiarissimo  spargea  lume  d'intorno. 

E Telemaco  al  padre:  O padre,  quale 
Portento  ! Le  pareti  ed  i laci  palcni , 

E le  travi  d’abete  e le  sublimi 
Colonne  a me  rifulgorare  io  veggio. 

Scese,  io  credo , qua  dentro  alcun  de’Numi.  5e 

Taci , rispose  Ulisse  : i tuoi  pensieri 
Rinserra  in  te  , nè  cercare  oltre.  Usanza 
Degli  abitanti  delPOlimpo  è questa. 

Or  tu  vanne  a corcarti  : io  qui  rimango 
J.e  ancelle  a spiar  meglio  , e della  saggia 
Madre  le  inchieste  a provocar , che  molte 
Certo  , ed  al  pianto  miste  , udire  avviso. 

Disse  ; e il  figliuolo  indi  spiccossi , e al  vivo 
Delle  faci  splendor  nella  remota 
Cella  si  ritirò  de’  suoi  riposi , 60 

J/Aurora  ad  aspettar  : ma  nella  sala , 

Strage  con  Palla  agli  orgogliosi  Proci 
Architettando , rimanea  l’eroe. 

La  prudente  reina  intanto  uscìa 
Pari  a Diana  , e all’aurea  Vener  pari , 

Della  stanza  secreta.  Al  foco  appresso 
L’usato  seggio  di  gran  pelle  steso , 

E cui  d’Icmalio  d’ingegnosa  mano 
Tutto  d’avorii  e argenti  area  commesso  , 

Le  collocaro  : sostenea  le  piante  70 

Un  polito  sgabello.  In  questa  sede 
La  madre  di  Telemaco  posava. 

Yenner  le  ancelle  dalle  bianche  braccia 
A tor  via  dalle  mense  il  pan  rimasto , 

E i vóti  nappi , onde  bevean  gli  amanti. 

Poi  dai  bracieri  il  niezzuspentu  foco 
Scossero  a terra  , e nuove  legna  , e molte , 
Sopra  vi  accatastar , perchè  schiarata 
La  sala  fosse,  e riscaldata  a un  tempo. 
Melanto  allor  per  la  seconda  volta  80 

Ulisse  rampognava:  Ospite  , adunque 
La  notte  ancor  t’avvolgerai  molesto 

IPer  questa  casa  , e adocchierai  le  donne  ? 

Fuori , sciagurato  , esci , e del  convito^, 

i5 


98  ODI 

Che  ingoiasti , t’appaga  , o rer,  pcrcoMO 
Da  questo  tiazo  , salterai  ìa  soglia. 

Con  torvo  sguardo  le  rispose  Ulisse: 
Malvaj'la  f perchè  a me  guerra  sì  atroce? 
Percliè  la  faccia  mia  forse  non  lustra? 

Perch’io  mal  vesto  , e,  dal  bisogno  astretto  , 90 
Qual  tapino  uomo  , e viandante,  accatto  ? 
Felice  uu  giorno  anch’io  splendidi  ostelli 
Tra  le  genti  abitava  , e ad  un  ramingo , 

Qual  fosse  » o in  quale  stato  a me  s'ollVisse  , 
Dd  mio  largìa  ; molti  a\ea  servi , e nulla 
Di  ciò  mi  venia  meno,  ond’è chiamato 
Ricco  , e beata  l'uom  vita  conduce. 

Ma  Giove,  il  figlio  di  Saturno , e nota 
La  cagione  n’è  a lui , disfar  mi  volle. 

Giiar^  però , non  tutta  un  giorno  cada , 100 
Donna , dal  viso  tuo  quella  beitade , 

Di  cui  fra  l’altre  ancelle  or  vai  superba  : 
Guarda  , non  monti  in  ira , e tì  punisca 
La  tua  padrona;  o non  ritorni  Ulisse ^ 

Come  speme  iie’petti  ancor  ne  vive. 

12  s’ei  perì,  tal  per  favor  d’Apollo 
Fuor  venne  il  figlio  dell’acerba  eiade , 

Che  femmina,  di  cui  sien  turpi  i fatti, 

Ma!  potila  nel  palagio  a lui  celarsi. 

Udì  tutto  Penelope  , e l’ancella  ilo 

Sgridò  repente:  O temerario  petto, 

Caglia  sfacciata  , io  pur  nelle  tue  colpe  ) 

Che  in  testa  ricadrannoti , ti  colgo. 

Sapevi  ben  , poiché  da  me  l’udisti , 

Ch’io  lo  straniero  interrogar  volea  , 

Uu  conforto  cercando  in  tanta  doglia. 

Dopo  questo  , ad  Furinome  si  volse 
Con  tali  accenti  : Furinome,  uno  scanno 
Reca , e una  pelle , ove , sedendo , m’oda 
L'ospite  favellargli , e mi  risponda.  120 

Disse  ; e la  dispensiere  un  liscio  scanno 
Recò  in  fretta  , e giù  pose , e d’una  densa 
Pelle  il  copti.  Vi  s’adagiava  il  molto 
Dai  casi  aiUilto , e non  mai  domo  , Ulisse | 

Cui  Penelope  a dir  così  prendea  : 

Ospite,  io  questo  chiederotti  in  prima. 

Chi  ? di  che  loco  ? e di  che  stirpe  sei  ? 

F Ulisse  , che  più  là  d’ogni  uomo  seppe  : 
Donna,  esser  può  giammai  pel  mondo  tutto 
Chi  la  lingua  snodare  osi  in  tuo  biasmo  ? i5o 
La  gloria  tua  sino  alle  stelle  sale  , 

Qual  di  re  sommo,  che  sembiante  a un  Nume, 
L su  molti  impelando  uomini,  e forti, 
Sostiene  il  dritto  : la  ferace  terra 
Di  folti  gli  biondeggia  orzi  e frumenti. 

Gli  arbor  di  frutti  aggravansi , robuste 
Figliati  le  pecorelle,  il  roar  dà  pesci 
Sotto  il  prudente  reggimento,  e giorni 
L’intera  nazion  m<;na  felici. 

Ma  pria  , che  della  {latria  e del  lignaggio  , 140 
Di  tutt’altro  mi  chiedi , acciò  non  cresca 
J)Ì  tal  memorie  il  dolor  mio  più  ancora. 

Un  infelice  io  son , nè  mi  conviene 
Seder  , piagnendo  , nella  tua  magione: 

Chè  isuoi  confini  ha  il  pianto, e ai  luoghi  vuoisi 
Mirare  , e ai  tempi.  Se  non  tu  , sdegnarsi 
Ben  potria  contro  a me  delle  serventi 
Tue  donne  alcuna  , e dire  ancor,  che  quello  , 
Che  fuor  m’esce  degli  occhi , è il  molto  vino. 

£ la  saggia  Feueiope  a rincontro  : i5o 


; S F A 

Ospite , a me  virtù  , sembianza , tutto 
Rapito  fu  dagl’immortali , quando 
Co’  Greci  ad  Ilio  navigava  Ulisse. 

S’ei , r'ieutraiido  negli  alberghi  aviti , 

A reggere  il  mio  stalo  ancor  togliesse | 

Ciò  mia  gloria  sarebbe  , c beltà  mia. 

Or  le  cure  m’oppriniuno  , che  molte 
Mandato  a me  gli  abitator  d'Olimpo. 

Quanti  hu  Dulichio  e Sanie  , e la  selvosa 
Zacmto,  e lu  serena  Itaca  prenci , 160 

Mi  timbiscon  ripugnante  ; e sottosopra 
Volgoli  COSI  la  reggia  mia  , che  poco 
Agli  ospiti  ornai  fomini , e ai  supplicanti 
Veder , nè  troppo  degli  araldi  io  curo. 

Io  mi  consumo,  sospirando  Ulisse. 

Quei  m’aiTretlano  intanto  all’abborrito' 

Passo , ed  io  cuntra  lor  d’inganni  m’armo. 

Pria  grande  a oprar  tela  sottile  , immensa , 
Nelle  mie  stanze  , come  un  Dio  spiroinmi  , 

Ali  diedi,  e ai  Proci  incontanente  io  dissi:  170 
Giovani , amanti  miei , tanto  vi  piaccia  , 
Quando  già  Ulisse  tra  i defunti  scese, 

Le  mie  nozze  indugiar  , ch’io  questo  possa 
Lugubre  ammanto  per  l’eroe  Laerte  , 
Acciocché  a me  non  pera  il  vano  stame , 

Prima  fornir  , che  l’iiiclem»-i)tc  Parca 
Di  lunghi  sonni  apportatrice  il  colga. 

Non  vo’  che  alcuna  delle  Achee  mi  morda, 

Se  ad  uom  , che  tanto  avea  d’arredi  vivo  , 
Fallisse  un  drappo,  in  cui  giacersi  estinto.  180 
A questi  detti  s'acchetaro.  Intanto 
Io  , finché  il  dì  splendea , l’insigne  tela 
Tesseva,  e poi  la  distessea  la  notte 
Di  mute  faci  alla  propizia  fiamma. 

Un  triennio  cosi  l’accorgimento 
Sfuggii  degli  Achei  tutti,  e fede  ottenni.' 

Ma  , giumumi  il  quarto  anno , e le  stagioni 
Tornate  in  tè  con  lo  scader  de’mesi , 

E de’celerl  di  compiuto  il  giro  , 

Còtta  dai  Proci , {ler  viltà  dì  donne  190 

Nulla  di  me  curanti , alla  sprovvista  , 

E gravemente  ìmproverata  , il  drappo 
Condurre  al  termin  suo  dovei  per  forza. 

Ora  io  nè  declinar  le  odiate  nozze 
»So  , nè  trovare  altro  compenso.  A quello 
M’esortano  i parenti , 0 non  comporta 
Che  la  sua  casa  gli  si  strugga  , il  figlio  , 

Che  ornai  tutto  conosce , e al  suo  retaggio 
Intender  può  , qual  cui  da  gloria  Giove. 

Ad  ogni  modo  la  tua  patria  dimmi , 200 

Dimmi  la  stirpe  : d'una  pietra  certo 
Tu  non  uscisti,  o d’uim  quercia  , corno 
Suona  d’altri  nel  mondo  antica  fama. 

O veneranda , le  rispose  Ulisse  , 

Donna  del  Laerz'iade , il  mìo  lignaggio 
^Sa|)er  vuoi  dunqne?  Io  te  l’insfgno.  È vero, 
Che  augumento  ne  avran  gli  aOanni  miei  , 
Naturai  senso  di  chiunque  vìsse 
Misero  peilegriii  mult’anni  e molti 
Dalla  patria  lontau  : ma  tu  non  cessi  210 
D’intrrrogarmi , e satisfarti  io  voglio. 

Bella  e feconda  sovra  il  negro  mare 
Giare  una  terra  , che  a’appelU  Creta , 

Dalle  salse  ondt;  d’ognì  parte  attinta. 

Gli  abitanti  v’abbondano,  e novanta 
Coatien  citudì , e la  favella  è mista  : 


99 


LIBRO  DECIMONONO. 


Poiché  vi  son  gli  Achei,  sonvi  i natii 
Magnanimi  Cretesi  ed  i Cidoiiii  , 

£ i Dui  li  in  tre  divisi  , c i buon  Pelasgi. 
Gnosso  vi  sorge,  città  vasta  , in  cui  320 

Quel  Minosse  regnò  , che  del  Tonante 
Ogni  nono  anno  era  agli  arcani  ammesso. 

Ei  generò  Ecucaìione  , ond'io  , 

Cui  nascendo  d’Etòn  fu  posto  il  nome, 

Eac(jni  , e nac(]ue  il  mio  frate  Idomenéo 
X)ì  popoli  pastor»chedi  virtute 
Primo  , non  che  d'età  , co’degni  Atridi 
Ad  Ilio  andò  su  le  rostrate  navi. 

Là  vidi  Ulisse,  ed  ospitah  doni 
Gli  feci.  A Creta  spinto  avealo  un  forte  23o 
Vento , che  , meiitr’eì  pur  vèr  la  superba 
Truja  tendea  , dalle  Malcc  lo  svolse, 

E il  fermò  nell’Amniso , ove  lo  speco 
D'ililia  s’aprc  in  disastrosa  piaggia  , 

Si  che  scampò  dalle  burrasche  appena. 

Entrato  alla  città  , d'idometiéo  , 

Che  venerando  e caro  egli  chiamava 
Ospite  suo  , cercò:  se  non  che  il  giorno 
Correa  decimo  , o undeciino  , che  a Troja 
Passato  il  mio  Irateilo  era  sul  mare.  240 

Ma  io  l’addussi  nel  palagio  ; a cui 
E'ulla  d'agi  mancava  , e dove  io  stesso 
Quell’onor  gli  rendei , ch'io  seppi  meglio. 

È fu  pec  opra  mia  che  la  cittade 
Bianco  pan  , dolce  vino  , e buoi  da  mazza  | 

1 suoi  compagni  a rellegrar,  gli  diede. 

Dodici  di  nell’isola  rcstàru, 

Perchè  levato  da  uu  avverso  Nume 
Imperversava  un  Aquilon  si  hero  , 

Che  a stento  si  reggea  l’uomo  su  i piedi.  260 
Quello  il  di  terzodecimo  al  fm  cadde  j 
E solcavan  gli  Achei  Tonde  tranquille. 

Coai  fingt-a,  menzogne  molte  al  vero 
Simili  prulFerendo  : ella  , in  udirle  , 

Pianto  versava  , e distruggeasi  tutta. 

£ come  neve  che  su  gli  alti  monti 
Subito  vento  d’Occideiile  sparse, 

Sciogliesi  d’Euro  all’improvviso  fiato  , 

Si  che  gonfiati  al  mar  corrono  I fiumi  : 

Tal  si  stemprava  in  lagrime  , piangendo  260 
L’uom  suo  diletto , che  sedeale  al  fianco. 

Ditlla  consorte  lagrimosa  Ulisse 
Pietà  nelTalma  riseiiila:  magli  occhi 
Stavangli , quasi  corno  o ferro  fosse, 

Nelle  palpebre  immoti , e gli  stagnava 
Nel  petto  ad  arte  il  ritenuto  pianto. 

Ella  , poiché  dì  lagrime  fu  sazia  , 

Cosi  ripigliò  i detti  : Ospite  , io  voglio 
Far  prova  ora  di  te , se  , qual  racconti , 

Ulisse,  e i suoi,  tu* ricettasti  in  Creta.  270 
Dimmi  : qua!  panni  rivesfianlo?  e quale 
Di  lui , de’suot  compagni  era  {'aspetto  ? 

Rispose  il  ricco  di  consigli  Ulisse  : 
VIgesini’anno  è ornai  ch'egli  da  Creta 
Si  drizzò  a Truja , e il  favcliaro  , o donna  , 

Di  sì  antica  stagion  duro  mi  sembra. 

Io  tutta  volta  ubbidirò  , per  quanto 
Potrà  sovra  di  sè  tornar  la  mente. 

Un  folto  Ulisse  avea  manto  velloso 
Di  porpora , cui  doppio  unìa  sul  petto  280 
Fermaglio  d'oro , e nel  dinanzi  ornava 
Mirabile  ricamo  : un  can  da  caccia 


Tenea  co’piedi  anteriori  stretto 
Vajo  cerbiatto  , e con  aperta  bocca 
Sovra  lui , che  tremavane , pendea  ; 

K sttipìa  il  mondo  a rimirarli  in  oro 
KfHgiati  ambo  così,  che  Tuno 
Soifoca  l’altro  , e già  l’addenta  , e l'altro 
Fuggir  sì  sforza  , e palpita  ne’pìedi. 

In  do-tso  ancora  io  gli  osservai  si  molle  290 
Tunica  , e fina  sì , qual  di  cipolla 
Vidi  talor  l'inaridita  spoglia  , 

K splendea  , come  il  Sol  ; tal  che  di  molte 
Donne,  che  l'adocchiàr,  fu  maraviglia. 

Ma  io  non  so  , se  in  Itaca  gli  stessi 

Vestiti  usasse,  o alcun  di  quei , che  seco 

Partirò  su  la  nave,  o in  !ur  magioni 

Viaggiante  l’accolsero,  donati 

(vii  avesse  a lui:  che  ben  voluto  egli  era, 

l'ì  pochi  Tagguagliaro  in  Grecia  eroi,  600 

So  , che  una  spada  del  più  fino  rame , 

E un  bel  manto  purpureo  , e una  talare 
Vesta  in  dono  io  gii  porsi , e alTimpalcata 
Nave  il  guidai  di  riverenza  in  seguo. 

Araldo  , che  d’età  poco  il  vincea  , 
L'acconipagnava  : alto  di  spaile,  e grosso  ^ 
Uov'io  rappresentarlo  a te  dovessi, 

Nero  la  cute  , ed  i capelli  crespo  , 

K chiamavasi  Euribate.  Fra  tutti 

I suoi  compagni  Tapprezzava  Ulisse  , 9io 
Come  più  di  pensieri  a sè  conforme. 

A queste  voci  maggior  voglia  in  lei 
Surse  di  pianto , conosciuti  1 segni , 

Che  sì  chiari  e distinti  esporsi  udiva. 

Fermato  il  lagrimare,  Ospite  , disse  , 

Di  pietà  mi  sembrasti,  e d'ora  iunaiizì 
Di  grazia  mi  parrai  degno,  o d'ouore. 

Io  stessa  gli  recai  dalla  secreta 
Stanza  piegate  le  da  te  descritte 
Vesti  leggiadre , io  nel  purpureo  manto  5ao 
La  sfavillante  d'òr  fibbia  gii  affissi. 

Or  nè  vederlo  più , nè  accorlu  in  questa 
Sua  dolce  terra  sperar  posso.  Ahi  crudo 
Destin  ben  fu , che  alla  malvagia  Troja  , 

Nome  abborrito,  su  per  l’onda  il  trasse! 

D'Ulisse , egli  riprese  , inclita  donna  , 

Al  bel  corpo  , che  struggi , ornai  perdona» 

Nè  più  volerti  macerar  nelTalma  , 

L’uom  tuo  piangendo.  Nongià  ch’io  ten  bìasmì: 
Chè  ognuna  spento  quell’uom  piange,  acuì  d3o 
Vergine,  sì  congìuiue,  e diede  infanti, 

Benché  diverso  nel  valor  da  Ulisse, 

Che  agli  Dei  somigliar  canta  la  lama. 

Ma  resta  dalle  lagrime,  e l’orecchio 
Porgi  al  mio  dir  , che  sarà  vero  e integro. 

Io  dc’Tesproti  tra  la  ricca  gente  , 

Ch’ei  vive,  intesi  , e già  ritorna  , e molti 
Tesor  , che  qua  è là  raccolse  , adduce. 

E ver  che  perde  il  legno  e i suoi  compagni , 
Delia  Trinacria  abbandonando  i lidi,  340 
Per  la  giusta  di  Giove  ira  . e del  Sole , 

Di  cui  morto  que'folli  aveaii  Tarnieiiio. 

II  mar  , che  tutti  gTinghiottì , sospinse 
Lui  su  gli  avanzi  delia  nave  infranta 
.Al  caro  degli  Dei  popol  Feace. 

Costor  di  cuore  il  rìverlan  qual  Nume , 
Colmavanlo  di  doni , e in  patria  salvo 
llicoudurrd  il  voleau  : su  non  che  nuora 


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uro  ODI 

Terre  Teder  pellegrinando  , e motti 

Te&ori  radunar  « più  saggio  arvifio  55o  i 

Parve  all’eroe  d’accorgimenti  mastro  , I 

p<  cui  non  v’ha  chi  di  saver  non  ceda.  ,| 

Così  a me  de’Tesproti  il  re  Fidò  ne 

Disse  f c giurava  , in  sua  luagion  libando , j 

Che  varata  la  barca  era  , e parati 

Color  che  deon  ripatrìarlo.  Quindi 

congedò  : chè , per  Dulichio  a sorte  j 
De  vele  alzava  una  Tespruzia  nave. 

!Ma  ei  mostrommì  in  pria  , quanto  area  Uli^«e 
Kaccolto  errando,  e che  una  casa  intera  36o 
Per  dieci  etadi  a sostener  bastava. 

Poi  soggiungeami , che  a Dodona  ir  volle  , 
Giove  per  consultare , e udir  dall’alta 
Quercia  indovina  , se  ridursi  ai  dolci 
Campi  d’itaca  sua  dopo  si  lunga 
Stagion  dovesse  alla  scoperta  , o ignoto, 
iialvo  è dunque  , e vicin  ; nò  dagli  amici 
Disgiunto  , c «chiuso  dalle  avite  mura 
Gran  tempo  rimarrà.  Vuoi  tu  ch’io  giuri  ? 
Prima  il  Saturnio  in  testimonio  io  chiamo,  370 
Sommo  tra  i Numi , ed  ottimo  , e d’Uhsse 
Poscia  il  sacrato  locolar,  cui  venni  : 

Tutto,  qual  dico,  seguir  dee.  Quest’anno  , 
D’uno  uscendo  de'uesi , o entrando  l'altro  , 
Varcherà  Ulisse  le  paterne  soglie. 

Oh  s’avveri  l Penelope  rispose. 

Tai  dell’aflfetto  mio  pegni  tu  avresti , 

Che  quale,  o forestiero  , in  te  con  gli  occhi 
Desse , dirla  : Vedi  mortai  beato  ! 

Ma  altro  io  penso,  e quel  ch’io  penso,  fìa:  38o 
Nè  riedeià  il  consorte,  nè  tu  scorta 
Impetrerai  \ chè  non  v'ha  piu  un  Ulisse 
Qui  , se  pur  v'era  un  giorno,  e non  fu  sogno, 
Un  Ulisse  non  v’ha  , che  i venerandi 
Ospiti  accor  nel  suo  reai  palagio 
Sappia  , ed  accommiatarli.  Or  voi,  mie  donne, 
Davate  i piedi  allo  straniero , e un  denso 
Di  coltri  e vesti  e splendidi  mantelli 
Detto  gli  apparecchiate  , ov'ei  corcato 
Tutta  notte  si  scaldi  in  sino  all’Alba.  5^o 
D’Alba  comparsa  in  Oriente  appima, 

Voi  tergetelo  e ungetelo;  ed  ei  mangi 
Seduto  in  casa  col  mio  figlio , e guai 
De’servi  a quel  che  ingiuriarlo  ardisse  ! •* 
Ufficio  più  non  gli  saia  commesso  , 
per  cruccio  ch’ei  moslrasseiie.  Deh  corno 
Sapresti , o forestier  ch’io  l’altre  donne 
Vinco,  se  vinco  , di  bontade  e senno,  | 

Mentre  di  cenci  e di  squailor  coverto  ! 

Pastegg  ir  ti  lasciassi  entro  l’albergo?  400 
Cose  brevi  son  gii  uomini.  Chi  nacque 
Con  alma  dura  , e duri  sensi  nutre  , 

De  sventure  a lui  vivo  il  mondo  prega  , 

D il  maledice  morto.  Ma  se  alcuno 
Ciò,  che  v’ha  di  più  bello,  ama , ed  iti  alto 
Poggia  con  rintelletto  , in  ogni  dove 
<ili  ospiti  portan  la  sua  gloria  , e vola 
Dlernu  il  nome  suo  di  bocca  in  bocca. 

Saggia  del  figlio  di  Laerte  donna, 

Ripigliò  Ulisse,  le  vellose  vesti  4to 

Cadeanmì  io  odio , ed  i superbi  manti  f 
Da  quel  dì  che  su  nave  a lunghi  remi 
Lasciai  di  Creta  i ncvicosi  munti, 
lo  giacerò , qual  pur  solea , passando 


S S E A 

Le  intere  notti  irfsonne.  Oh  quante  notti 
Giacqui  in  sordido  letto  , e deirAurora 
Mal  corcato  affrettai  la  sacra  luce  ! 

Nè  a me  de’piedi  la  lavanda  piace  : 

Nè  delle  donne  , che  ne’iuui  servigi 
I Speudonsi,  alcuna  toccherà  il  mio  piede,  410 
Se  nòn  è qualche  annosa  e onesta  vecchia, 

, Che  al  par  di  me  sofferto  abbia  a’suoi  giorni, 
j A questa  il  piè  non  disdirei  toccarmi. 

I E l’egregia  Penelope  di  nuovo  : 

Ospite  caro  , pellegrin  di  senno 
Non  capitò  qua  mai , che  di  te  al  core 
Mi  s’accosta«se  più , di  te  , che  in  mudo 
Leggiadro  esprimi  ogni  prudente  senso. 

Una  vecchia  no  molto  avvisata  e scorta  , 

Che  nelle  braccia  sue  quell’infelice  43o 

Raccolse  uscito  dal  materno  grembo  , 

E buon  latte  gli  dava  , ed  il  crescea. 

Ella , benché  di  vita  un  sofHo  in  lei 
Rimanga  sul  ti  laverà  le  piante. 

Via  , fedele  Kuricica  , sorgi,  e a chi  d’anni 
Pareggia  il  tuo  signor,  le  piante  lava. 

Tal  «e'piedi  vederlo  , e nelle  mani 
Parmi  in  qualche  da  noi  lontana  parte: 

Chè  ratto  i’uom  tra  le  sciagure  invecchia. 

Euricléa  con  le  man  coperse  il  volto  , 44^ 

E versò  calde  lagrime,  e dolenti 
Parole  articolò  : Me  sventurata, 

Figlio,  per  amor  tuo!  Più,  che  altri  al  mondo, 
Te,  che  noi  merli , odia  il  Saturnio  padre. 
Tanti  non  gli  arse  alcun  i!i>iidi  lombi , 

Tante  ecatombe  non  gli  i>fferse  , come 
I Tu  , di  giunger  pregandolo  a tranquìiia 
; Vecchiezza , e un  prode  allevar  figlio  ; ed  ecco 
Che  del  ritorno  il  dì  Giove  ti  spense. 

Obuon  vegliardo, allor  che  a un  altoalbergo45o 
I Xf’alcun  signor  lontano  et  jiellegriuo 
j S’appresserà  , PinsuUeran  le  donde, 
r Qual  te  insultaro  tutte  queste  serpi , 

I Da  cui  Ponte  schivandone  e gli  oltraggi , 

Venir  tocco  ricusi  ; etl  a me  quindi 
r.a  hglia  saggia  del  possente  Icario 
Tal  ministero  iinpoii , che  non  mi  grava. 

I lo  dunque  il  compierò,  sì  per  amore 
' Della  reina,  e si  p'T  tuo  : che  Torte 
i Commossa  dentro  il  sen  Palma  io  mi  sento.  460 
Ma  tu  ricevi  un  de'mtei  detti  ancora  : 

Fra  molti  grami  forestier,  che  a qiiesta 
Magion  s’awicinaro,  un  sol , che  Ulisse 
Nella  voce,  iie’piedi,  in  tutto  il  corpo  , 
Somigliasse  cotanto  , io  mai  noi  vidi. 

Vecchia  , rispose  lo  scaltrito  eroe  , 

Così  chiunque  ambo  ci  scorse,  afferma  : 

Correr  tra  Ulisse  e me  , qual  tu  ben  dici , 
Somiglianza  cotal,che  Puh  par  l’altro. 

L’ottima  vecchia  una  lucente  conca  47^ 
Prese  . e molta  iredd'acqua  entro  versovvi  , 

E su  vi  sparse  la  bollente.  Ulisse  , 

Che  al  focolar  sedea,  vèr  Poinbra  tutto 
Si  girò  per  timor  , non  Euricléa 
Scorgesse,  brancicandolo,  Pantica 
Margine,  ch’eì  portava  in  su  la  coscia, 

K alla  sua  fraude  si  togliesse  il  velo. 

Euricléa  nondimen , che  già  da  presso 
Fatta  gli  s’era  , ed  il  suo  re  lavava, 

‘ Il  seguo  ravvisò  della  ferita  480 


101 


LIBRO  DECIMONONO. 


Dal  biacco  dente  d’uti  cinghiale  impressa 
Sul  munte  di  Parnaso  ; e ciò  fu  , quando 
Delia  6ua  madie  al  genitur  lamo.so 
Garzone  andò  , ad  Auiòlico  , che  lutti 
Del  rapir  vinse  , e del  giurar  iieirartì, 

Per  favor  di  Mercurio,  a cui  «i  grate 
Coiice  d'agnelli  ardeva  , e di  capretti , 

Che  ogni  duo  pas.'^o  accompagnava  il  Nume» 
Autólico  un  dì  venne  ali'llacese 
Popolo  in  mezzo,  e alia  città  , che  nato  49^ 
Kra  di  poco  alta  sua  hglia  un  ligllo. 

Questo  Euricléa  su  le  giuticchia  all'avo 
Dopo  il  convito  pose  , e feo  tai  detti  : 
Autólico , tu  stesso  il  nume  or  trova 
Da  imporre  in  fronte  al  grazioso  pa  rto  , 
l'er  CUI  stancasti  co’tuoi  voti  ì Numi. 

D prontamente  Autólico  in  risposta  : 

Genero,  e hglia  mia , quel  gl'imp(»rrete 
Nome  , ch'io  vi  dirò.  D'uomini  e donne 
Su  l'altrice  di  molti  immensa  terra  óoo 

Spavento  io  fui  ; dunque  si  chiami  I^iisse. 

10  poi,  se  , di  bambiii  fatto  garzone, 

Ke»  superbo  verrà  materno  albergo 
Sovra  il  Parnaso,  ove  ho  le  mie  ricchezze, 
Doni  gli  porgerò  , per  cui  più  lieto 
Discctideià  da  me  , che  a ma  non  salse. 

A ricevere  Ulisse  andò  lai  doni, 

£ Autólico  l'accoUe,  ed  i suoi  hglì , 

Con  amiche  parole,  e aperte  braccia} 

£ l'Avola  Anhtéa,strettoio  al  petto,  5io 

11  capo,  ed  ambi  gli  baciò  i begli  occhi. 

Ai  Hgii  il  padre  comandò , nè  indarno. 

La  niensu:  un  bue  di  cinque  anni  meuaro, 

Lo  bcojùr,  Pacconciàr,  tutto  il  partirò} 

£ i brani , che  ne  fur  con  arte  fatti , 

Negli  schidoni  infìssero  , e ugualmente 

Li  dispensar,  domi  che  gli  ebbe  il  foco. 

Così  tutto  quel  dì  d'ugual  per  tutti 
Piandio  godcaii  sino  all'occaso.  11  Sole 
Caduto , e appar.sa  della  notte  l'ombra  , Sso 
La  dolcezza  provar  , cui  reca  il  sonno. 

JVIa  come  liglia  del  matliu  l'Aurora 
Mi  mostiò  111  ciel  ditirosata  e bella, 

I figliuoli  d’Autòlico  ed  Ulisse 

Con  molti  cani  a una  gran  caccia  uscirò. 

La  vestila  di  buschi  alta  montagna 
Salgono,  e in  breve  tra  i ventosi  gioghi 
Veggonsi  di  Parnaso.  Il  Sol  recente, 

Dalle  placide  sorto  acque  profonde 
DeU’Occàn  , su  i rugiadosi  campi  53o 

Saettava  i suoi  raggi,  e i cacciatori 
Scendeano  in  una  valle:  innanzi  i cani 
Ivan  , fiutando  te  salvatic'orme} 

B co’hgli  d' Autólico  , pallando 
Una  lancia  , che  lunga  umbra  gittava  , 

Tra  i cani  e cacciatori  andana  Uiisse. 
Smisuialo  cinghiale  in  così  folta 
Macchia  giacea  , che  nè  di  venti  acquosi 
P^orza,  iiè  raggio  mai  d’acuto  Sole 
La  percoleva  , nè  le  piogge  afi'utto  54o 

V'entravano:  coprìa  di  secche  foglia 
Gran  dovizia  la  terra.  Il  cìnghia)  fiero, 

Che  al  calpestìo  , che  gli  sonava  intorno  , 
Appressare  ogiior  più  sentìa  la  caccia, 

Sbucò  del  suo  ricetto,  e orribilmente 
Kizzaudo  i peli  della  sua  ccr\  ice , 


E con  pregni  di  foco  occhi  guatando , 

Stette  di  contra.  Ulis^  il  primo , l'asta 
Tenendo  sopramano  , impeto  lece 
In  lui , ch'ei  d'impiagare  ardca  dì  voglia:  35o 
Ma  la  fera  prevennelo,  ed  il  colse 
Sovra  il  ginocchio  con  un  colpo  obliquo 
Della  gran  sauna , e ne  rapì  assai  carne } 

Nè  però  della  coscia  all'osso  aggiunge, 
l'erilla  Ulisse  allor  nell'omer  destro, 

Dove  il  colpo  assestò  : scese  profonda 
L'aguzza  punta  della  fulgid’asta  } 

K il  mostro  su  la  polvere  cade, 

Mettendo  un  grido  , e ne  volò  via  l'alma. 

Ma  d'Autólico  i figli  a Ulisse  tutti  6Go 

'i'ravagliavansi  intorno:  acconciamente 
Fasciar  la  piaga  , e con  possente  incanto 
U sangue  tie  arreslaro,  e dell'amato 
Padre  all’albergo  il  tiasportaro  in  fretta. 
Sanato  appieno  , e di  bei  doni  carco  , 

Contenti  alla  cara  Itaca  contento 
Lo  rimandaro.  Il  padre  suo  Laerte 
K la  madre  Anticléa  giotun  pur  troppo 
Del  suo  ritorno,  e il  richiedean  di  tutto, 

E più  della  ferita  j ed  ei  narrava  , 670 

Come,  invitato  a una  silvestre  guerra 
Da’Hgiiuoli  deH’avu  , il  bianco  dente 
Piagollo  d'iin  cinghiai  sovra  il  Parnaso. 

Tal  cicatrice  l’amorosa  vecchia 
Conobbe,  brancicandola  , ed  il  piede 
Lasciò  andar  giù  : la  gamba  nella  conca 
(^dde . ne  rimbombò  il  concavo  rame  , 

E piegò  tutto  da  una  banda  , e in  terra 
L'acqua  si  sparse.  Gaudio  a un'ora  e duolo 
La  prese , e gli  occhi  s'empièr  di  pianto  , 58o 

E in  uscir  le  tornò  la  voce  indietro. 
l'rorup|>c  al  fin  , prendendolo  pel  inei>to  : 

Caro  figlio  , tu  sei  per  certo  Ulisse  , 

\è  io  , uè  io  ti  ravvisai,  che  tutto 
Pria  non  avessi  il  mìo  signor  tastato. 

Tacque  ; e guardò  Penelope  , volendo 
Mostrar  che  l’amor  suo  lungi  non  età. 

Ma  la  reina  nè  veder  di  coutra 

Poteo  , nè  mente  por:  chè  Palla  Ìl  core 

Le  torse  altrove.  Ulisse  intanto  strinse  690 

JoQ  la  man  destra  ad  Euricléa  la  gola  , 

E a sè  tirolla  con  la  manca , e di&>e  : 

Vutrice , vuoi  tu  perdermi  ? Tu  stessa. 

Si , mi  tenesti  alla  tua  poppa  un  giorno  , 

k' nell'anno  ventesimo  soflùrte 

Pene  iiiBnite  , alla  mia  patria  io  venni. 

Via,  poiché  mi  scopristi , e un  Dìo  sì  volle  , 
Taci , e di  ine  qui  dentro  altri  non  sappia  : 
Però  ch’io  giuro,  e non  invau  , che  s'io 
Con  l’ajuto  d'^’Numi  1 Proci  spegno  , 600 

N'è  da  to  pur,  beuchò  mia  balia  , il  braccio  , 
Che  l’altre  donne  ucciderà  , ritengo. 

Figlio  qual  mai  dal  core  osò  parola 
Salirti  in  su  le  Libbra  ? ella  riprese. 

Non  mi  conosci  tu  ne!  petto  un'alma 
Ferma  ed  inespugnabile  ? Il  segreto 
lo  serberò , qual  dura  selce  , o bronzo. 

Ciò  senti  ancora  , e tei  rammenta  : dove 
Spengaii  gli  Dei  per  la  tua  mano  i Proci , 

Delle  donne  in  palagio  ad  una  ad  una  610 
Qual  t'ingiuria  , io  dirotti , e qual  t'uiiura. 

Nutrice,  del  tuo  indizio  uopo  iiuu  havvi , 


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O D I S S E A 


loa 

Kìpigliò  UHsse.  Io  per  me  stesso  tutta 
Le  osserverò , couoscerolle  : solo 
Tu  a tacer  pensa  » e lascia  il  resto  ai  Numi. 

La  vecchia  tosto  per  iiuov’acqua  uscio , 
Sparsa  tutta  la  prima.  Asterso  ch’ebbe 
Ui  isse , ed  unto , ei  nuovamene  ai  loco , 

Calde  aure  a trarne,  s'accostò  col  seggio, 

£ co’panni  la  margine  coverse.  620 

E Penelope  allor:  Brevi  parole, 

Ospite,  ancora.  Già  de’dolci  sonni 
li  tempo  è giunto  per  color , cui  lieve 
Doglia  consente  il  ricettarli  in  petto  : 

Ma  doglia  a me  non  lieve  i Numi  diero. 

Finché  riluce  il  di,  solo  ne'pianti 
Piacere  io  trovo,  e ne’sospiri , mentre 
Guardo  ai  lavori  dell'ancelle  , e a'mieì. 

La  notte.poì , quando  ciascun  s’addorme , 

Che  vai  corcarmi , se  le  molte  cure  63o 

Crudele  iiitorqp  al  cor  muovonmi  guerra? 
Come  allor  che  di  Pandaro  la  iiglia 
Ne’giorni  primi  d*-l  rosato  aprile. 

La  ìioriscente  Filomela,  assisa 
Degli  arbor  suoi  trae  le  piu  dense  fronde , 
Canta  soavemente , e in  cento  spezza 
«Suoni  diversi  la  instancabil  voce, 

Iti,  chea  Zeto  partorì  piangendo, 

Iti  caro  , che  poi  barbara  uccise 
Per  insania  , onde  piu  sé  non  conobbe  : 640 

Non  altrimenti  io  piango  , e Palma  incerta 
In  questa  or  piega , ed  ora  in  quella  parte , 
S’io  stia  col  figlio  , e intégro  serbi  il  tutto  , 

Le  sostanze , le  serve  , e gU  alti  tetti , 

Del  mio  consorte  rispettando  il  letto , 

£ del  popol  le  voci  ; o quello  io  siegua 
Degli  Acliel  tra  i miglior , che  alle  mie  nozze, 
Doni  infiniti  presentando  , aspira. 

Sino  a tanto  che  il  figlio  era  di  senno  , 

Come  d'età  , fanciullo  ancor,  lasciata  65o 
Questa  Ìo  mai  non  avrei  per  altra  casa  : 

Ma  or  ch'ei  crebbe  , e delia  pubertade 
Già  la  soglia  toccò , men  priega  ei  stesso , 

Non  potendo  mirar  lo  strazio  indegno , 

Che  di  lui  fan  gli  Achivi.  Or  tu  , su  , via , 
Spiegami  uti  sogno , ch'io  narrarti  intendo. 
Venti  nella  mia  corte  oche  io  nutrisco, 

E di  qualche.diletto  emmi  il  vederle 
Coglier  da  limpid'acqua  il  biondo  grano. 
Meutr’io  le  osservo,  ecco  daiPaltu  monte  65o 
Grande  aquila  calar  curvorostrata , 

Frang'?re  a tutte  la  cervice , tutte 
L'ima  su  l'altra  riversarle  spente, 

E risalir  vèr  l’etere  divino. 

Io  mettea  lai , benché  nel  sogno , e strida , 

£ le  nobili  Achee  dal  crin  ricciuto 
Veoìano  a me , che  miserabilmente 
L'oche  plorava  dall’agugiia  morte, 

£ a me  intorno  affolla vausi.  Ma  quella, 
Kivolando  dal  eie! , su  lo  sporg'^nte  670 

Tetto  sedeasi , e con  umana  voce , 

Ti  raccheta  , dìceami , e spera , o figlia 
Del  glorioso  Icario  : un  vana  sogno 
Questo  non  è , ma  visìon  verace 
Di  ciò  che  seguirà.  Nell'oche  i Proci 
Kavvisa , e in  queste  d'aquila  sembianze 


Il  tuo  consorte , che  al  fin  venne  , e tutti 
Stenderà  nel  lor  sangue  a terra  i Proci. 

Tacquesi  ; e Ìl  soiuiu  ubbandonommi , ed  io, 
Gittaudo  gli  occhi  per  la  corte  , vidi  6S0 
Le  oche  mie  , che  nel  truogolo  , qual  prima  , 

I graditi  frumeiiti  ivan  beccando. 

Donna,  risposo  di  Laerte  il  figlio, 
Altramente  da  quel , che  Ulisse  leo , 

Non  lice  il  sonno  interpetrar  ; Peccidio 
Di  tutti  i Proci  manifesto  appare. 

E la  saggia  Penelope:  Non  tutti  , 

Ospite  , i sogni  investigar  si  ponno. 

Scuro  parlano,  e ambiguo,  e non  risponde 
L’effetto  sempre.  Degli  aerei  sogni  690 

Sori  due  le  porte,  una  di  corno  , e f'aftra 
D’avorio.  Dall’av.orio  escono  i falsi , 

B fantasmi  cori  sé  fallaci  c vani 
Portano  : i veri  dal  polito  corno  , 

E questi  mai  l'uom  non  iscorge  indarno. 

Ah  ! creder  non  poss'io  che  quinci  uscisse 
L’ immagia  fiera  d’un  evento  , donde 
Tanta  verrebbe  a me  gioja  , e a)  mio  figlio. 

Ma  odi  attento  1 detti  miei.  Già  l’Alba  , 

Che  rimuover  mi  dee  da  questi  alberghi , 700 
Ad  apparir  non  tarderà.  Che  làrmi  ? 

Un  giuoco  io  propor  vo'.  D )dici  pali , 

Qnai  puntelli  di  nave  , iuturnu  a cui 
Va  del  fabbro  la  man  , piantava  Ulisse 
L’un  dietro  all'altro  con  anelli  in  cima} 

Ed  ci , lunge  tenendosi , spiiigea 
Per  ogni  anello  la  pennuta  freccia. 

Io  tal  cimento  proporrò.  Chi  meglio 
Tender  l'arco  sapra  fra  tutti  i Proci , 

E d’anello  in  anello  andar  col  dardo  , 710 

Lui  seguir  non  ricuso  . abbandunaiido 
Questa  sì  bella  , e ben  fornita , e ricca 
Miigion  de'  miei  verd’anni , oud’auche  in  sogno 
Dovermi  spesso  ricordare  io  penso, 

0 veneranda  , ripigliava  Ulisse  , . 

Donna  del  Laerziade  , una  tal  prova 
Punto  non  differir  : pria  , che  un  de’ Proci 
Questo  maneggi  arco  lucente,  e il  nervo 
Ne  tenda,  e passi  pe’  ritoudi  ferri , 

Ti  s'ofTrirà  darante  il  tuo  consorte,  720 

E Penelope  al  fine  : Ospite  , quando , 

Vicino  a me  sedendoti , il  diletto 
Protrar  della  tua  voce  a me  volessi , 

Non  mi  cadrebbe  su  le  ciglia  il  sonno. 

Ma  non  può  sempre  l'uom  vìvere  insonne  : 

Chè  le  gge  a tutto  stabilirò  , e meta 

8u  la  terra  fruttifera  gli  Eterni. 

lo  , nelle  stanze  alte  salita  , un  letto 

Premerò  , che  divenne  a me  lugubre 

Dal  dì , che  Ulisse  il  canape  funesto  75« 

Per  la  nemica  sciolse  infamia  Troja. 

Tu  nel  palagio  ti  riposa,  e a terra 
Sdràjati  , o , se  ti  piace  , a te  le  mie 
Doime  appareccineran  , dove  corrarti. 

La  reg.iia , ciò  detto , alle  superne 
Montò  sue  stanze , e non  già  sola  j ed  ivi 
Sino  a tanto  piangea  l'amato  Ulisse, 

Che  un  dolce  sonno  sovra  lei  spargesse 
La  cifestra  negli  occhi  augusta  Diva. 


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LIBRO  VENTESIMO 


argomento 

Ulisse  si  idraj»  nciralrio , t oaserra  la  disonestà  deirancclle.  Chiede  a Giore  qualche  segno  farorerole  ; M • 
esaudito.  Tementi  di  Melanaio  , e arcoglieiua  amorevole  di  FiW.  Ctesippo  bccia  cootroad  LiUse  un  pie  di 
bue:  ma  noi  coglie.  VaUcinio  diTeoaiméno.  I Frtà  se  ne  fan  beffici  e sdierniscono  Llisse  ancora  e Tclemao». 


Il  magnanimo  figlio  di  Lafrte 
Giacca  nciratrìo.  Una  recente  pelle 
Steso  aveasi  di  bue  con  altre  molte 
Di  pingui  agnelle  dagl^ingordi  Achei 
Sagrificate:  e d’un  velloso  manto 
J.iii  già  corcato  Eurìnome  coverse. 

Qui  co*  pensieri  suoi  l'eroe  vegliava  , 

Sventure  ai  Proci  divisando.  Intanto 
X.e  ancelle , che  solcano  ai  Proci  darsi , 

Uscirò  di  lor  camere  , in  gran  rìso , ^ io 

Prorompendo  tra  loro,  e in  turpe  gioja. 

Ei  forte  l’alma  si  senlia  commossa  , 

E bilanciava  , se  avventarsi  , e tutte 
Porle  a morte  dovesse  in  un  istante , 

O consentir  che  per  l’estrema  volta 
Delinquesser  le  tristi  ; e in  sè  frenica. 

E come  allor  che  ai  cagnolini  intorno 
Gira  la  madre,  e , se  un  ignoto  spunta  , 

J.atra  , e brama  pugnar  : non  altrimenti 
Egli,  che  mal  palla  l’opre  nefande,  20 

Alto  fremea  nel  generosi»  petto. 

Pur,  battendosi  lanca,  e rampognando 
Egli  Stesso  il  suo  cor  , Sofl'ri , gli  disse  , 

Tu , che  assai  peggior  male  allur  sofiristi  p 
Che  il  Ciclope  fortissimo  gii  amici 
Wi  divorava.  Tollerar  sapesti  , 

Finche  me  fuor  del/anlro  il  senno  trasse, 
Qiiand’io  già  delta  vita  era  in  su  l’orlo. 

Et  cosi  i moti  reprimea  del  core  , 

Che  ne’recinti  suoi  cheto  si  stette.  3o 

Non  lasciava  però  su  l’tin  de’fianchi 
Di  voltarsi , o su  l’altro  in  quella  guisa , 

Che  pien  di  sangue  e d’adipe  ventriglio 
Uom  , che  sì  strugge  di  vederlo  incotto , 

D’un  gran  foco  all'ardor  volge  e rivolge. 

Su  questo  ei  si  voltava  , o su  quel  fiancOi 
IMeditando  fra  sé,  come  potesse 
Scagliarsi  al  fin  centra  i mainali  prenci. 

Conira  molti  egli  solo  j ed  ecco , scesa 
Di  cielo, -a  lui  manifestarsi  in  forma  4^ 

D’una  mortale  l'Atenéa  Minerva. 

Stcltfgli  sovra  il  capo,  e tai  parole 
Gli  volse  : 0 degli  umani  il  niù  infelice, 
Perchè  i conforli  rifiutar  del  sonno? 

Sci  pur  nel  tuo  palagio  , appo  la  fida 
Tua  donna  , e al  fianco  d ui»  figliuolo  ,acui 
Vorrìano  aver  l’ugnale  i padri  tulli. 

Il  ver  parlasti , o Dea , rispose  Ulisse  : 

Se  non  die  meco  io  mi  consiglio  , come 
Scagliarmi  ai  Proci  svergognati  incontro  » 5o 
Mentre  in  folla  og;  or  son  quelli,  ed  io  solo. 

In  oltre  io  penso  , e ciò  più  ancor  mi  turba  , 
Che  , quando  col  favore  anco  m’avvenga 
Del  Tonante , e col  tuo , cacciarli  a Dite , 

Non  so  dove  sottrarmi  a quella  turba 


Che  vengiarli  vorrà.  Tu  questo  libra. 

Tristo  l riprese  la  negli  occhi  azzurra  , 
L’uomo  a un  compagno  suo  crede,  a un  mortale 
Peggior  di  sè  talvolta  , e meno  esperto, 

E tu  non  a me  Diva  , e a me , che  in  ogni  60 
Travaglio  tuo  sempre  ti  guardo?  Sappi, 

Che  se  cinquanta  d'uomini  parlanti 
Fosserci  intorno  pugnatrici  schiere, 

Sparsi  per  la  campagna  i greggi  loro 
Tua  preda  diverrìano,  e i loro  armenti. 
Chétati,  e il  sonno  nel  tuo  seii  ricevi: 

Ghè  vegliando  passar  la  notte  in  guardia 
Troppo  è molesto.  Uscirai  fuor  tra  poco 
Da  tutti  senza  dubbio  i mali  tuoi. 

Disse , c un  sopor  dolcissimo  gl’infuse  : 70 

Kc  pria  le  membra  tutte  quante  sciolte 
Gli  vide , e sgombra  d’ogni  aJlànno  l'alma , 
Che  all’Olimpo  tornò  rinclita  Diva. 

Ma  il  sonno  sen  fuggi  dagli  occhi  a un  tratto 
Della  reina  , che  già  sovra  il  molle 
Letto  sedeasi , c ricadea  ne)  pianto. 

Come  sazia  ne  fu  , calde  a Diana 
Preghiere  alzò  la  sconsolata  donna  : 

0 del  Saturnio  figlia  , augusta  Dea  , 

Deh  ! nel  mio  seno  unde’tuoi  dardi  socca,  80 
E ratto  poni  in  libertà  quest’alma, 

O mi  rapisca  il  turbine  , e trasporti 
Per  l’aria , e nelle  rapide  correnti 
Dell’Oceàn  retrogrado  mi  getti. 

Così  già  le  Fandaridi  sparirò  , 

Che  per  voler  de’Numi  alla  lor  madre 
Crucciati , e al  padre,  nella  mesta  casa 
Orfanelle  rimaste  , erano  , e sole. 

Venere  le  nutrì  di  dolce  mele , 

Di  vili  soave  e di  rappreso  latte:  90 

Senno  c beltade  aovia  ogni  altra  donna 
Giuno  compartì  loro,  Artemi  un'alta 
Statura  , ecl  ai  lavori  i più  leggiadri 
Mano  e intelletto  la  gran  Dea  d’Atene- 
Già  Venere  d Olimpo  i gioghi  eccelsi 
Montato  avea  , per  dimandar  le  nozze 
Delle  fanciulle  al  fuminanie  Giove, 

Che  nulla  ignora  , e i tristi  eventi  e i lieti 
Conosce  de'mortali  ; e quelle  intanto 
Dalle  veloci  Arpie  furo  rapite,  lOO 

E in  balia  date  alle  odiose  Erinni. 

Così  d’Itaca  me  tolgano  i Numi , 

O d’un  de’dardi  suoi  ruricrinita 
Diana  mi  ferisca  ; ond’io  ritrovi , 

Benché  ne’regni  della  morte,  Ulisse, 

E del  mio  niantaggio  uom  non  rallegri| 

Che  di  lui  fia  tanto  minore.  Ahi  lassa  ! 

Ben  regger  pnossi  la  più  ria  sventura, 

Quando  , passati  lagrimando  i giorni , 

Le  notti  almen  ci  riconforta  il  sonno  | 1 io 


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O D I S S E A 


Che  su  )beni  l’obblio  sparge,  c su  i mali. 

Ma  sogni  a me  fallaci  un  Nume  invia  : 

E questa  Tu»tte  ancor  mi  si  corcava 
Da  presso  il  mio  consorte  in  quel  sembiante 
Che  area  nei  di  che  su  la  nave  ascese. 

Tacque;  e sul  trono  d*òr  l’Aurora  apparve. 

Ulisse  udì  le  lagrimose  voci , 

Ed  in  sospetto  entrò , che  fatta  accorta 
Dì  lui  si  fosse  , e già  pareagll  al  capo 
Vedersela  vicina.  Alzossi  , e il  manto  120 
E i cuoi , tra  cui  giacca , raccol.se , e pose 
Sovra  una  sedia,  e la  bovina  pelle 
Fuor  portò  del  palagio.  Indi  , levate 
mani  ; a Giove  supplicava  : 0 Giove 
Padre,  e Dei  tutti , che  per  terra  e mare 
Me  dopo  tanti  aSanni  al  patrio  nido 
lUconauceste  , un  lieto  augurio  in  bocca 
Mettete  ad  uu  di  quei  che  nelPinterno 
Vegghiano;  e aU’aria  aperta  un  tuo  prodigio, 
Giove  , mi  mostra.  Così , orando , disse.  i5o 

Udillo  il  sommo  Giove  , e incontanente 
Dal  sublime  tonò  lucido  Olimpo  , 

E l’eroe  giubbilonne.  Al  tempo  istesso 
Donna  , che  il  grano  macinava  , detti 
Presaghi  gli  mandò,  donde  non  lungi 
Del  pastor  delle  genti  eran  le  mole. 

Dodici  donne  con  assidua  cura 
Giravan  ciascun  dì  dodici  mole , 

E in  bianca  polve  que’fruraenti  ed  orzi 
Kiducean  , che  dell’uom  son  forza  e vita.  140 
Le  altre  dorrolan  dopo  il  travaglio  grave  : 

Ma  quella , cui  reggean  manco  le  braccia , 
Cqmpiuto  non  l’avea.  Costei  la  mola 
Fermò  di  botto  , e feo  volar  tal  voci , 

Che  segnale  al  re  fiiro  : O padre  Giòve , 

Degli  uomini  signore  e degli  Dei, 

Forte  tonasti  dall'eterea  volta  , 

E non  v’ha  nube.  Tal  portento  è ài  certo 
Per  alcun  de'mortali.  Ah  ! le  preghiere 
Anco  di  me  infelice  adempii,  o padre,  i5o 
Cessi  quest'oggi  nella  bella  sala 
Il  disonesto  pasteggiar  de’Proci, 

Che  di  fatica  m’hanno,  e di  tristezza 
Presso  un  grave  macigno  ornai  con.sunta. 
L'ultimo  sia  de’lor  banchetti  questo. 

Della  vece  allegravasi , e del  tuono 
L'illustre  figlio  di  Laerte,  e l’alta 
Già  in  pugno  si  tenea  giusta  vendetta. 

L'aìtre  fantesche  raccoglieansi  intanto, 

E un  foco  raccendean  vivo  e perenne.  260 
Ma  il  deiforme  Telemaco  di  letto 
Surse  , vestì  le  giovanili  membra  , 

L'acuto  brando  all'omero  sospese , 

Legò  sotto  i piè  molli  i bei  calzari , 

E una  valida  strinse  asta  nodosa 
Con  fino  rame  luminoso  in  punta. 

Giunto  alla  soglia , s’arresto  col  piede, 

£ ad  Euriclca  parlò  : Cara  nutrice, 

11  trattaste  voi  ben  di  cibo  e letto 
L’ospite?  O forse  uon  curato  giacque?  270 
Anco  la  madre  mia,  benché  sì  saggia , 

Sfallisce  in  questo  : ehi  è men  degno,  onora, 

£ non  cura  onorar  chi  più  sei  merta. 

Ed  Euricléa  : Figliuol , non  incolparmi 
La  'innocente  tua  madre.  A suo  piacere 
£evea  Ibspite  assisoe  quanto  all'esca| 


Domandato  da  lei , disse , mestieri 
Non  ne  aver  piu.  Come  appressava  l'ora 
Del  riposo  e del  sonno,  apparecchiargli 
C’jmpose  un  letto  : ma  i tappeti  molli  180 
Rifiutò , qual  chi  vive  ai  mali  in  grembo. 
Oorcossi  nel  vestibolo  su  fresca 
Pelle  di  tauro  e cuoi  d'aguelle  : noi 
D'una  vellosa  clamide  il  coprimmo. 

Telemaco,  ciò  udito,  usda  dell’alte 
Stanze  , al  foro  per  ir  , con  l'asta  in  mano  ; 

E due  seguianlo  pieveloci  cani. 

Colà  gli  Achei  dagli  schinieri  egregi 
Raccolti  Pattf-ndean  : mentre  l’antica 
D Opi  di  Pisenòr  figlia,  le  ancelle  ino 

Stimolando  , Affrettatevi , dicea  ♦ 

Parte  a nettar  la  sala  : e ad  inaffiarla  , 

E le  purpuree  su  i ben  fatti  seggi 
Coverte  a dispiegar;  parte  le  mense 
Con  le  umide  a lavar  forate  spugne  , 

E i vasi  a ripolire  , e ì lavorati 
Nappi  rotondi  ; ed  al  profondo  fonte 
Parte  andate  p»*r  l'acqua  , e nel  palagio 
Recatela  di  fretta,  i Proci  mollo 
Non  tarderan:  selleciiar  li/lee  300 

Questo  dì , che  festivo  a tutti  splende. 

Tutte  ascoltato,  ed  ubbidirò.  Venti 
Al  fonte  s’avvìàr  delle  nere  acque  : 

L'altre  gli  altri  conipieano  interni  ufllci. 
Vennero  i servi  degli  Achivi,  c secche 
Legna  con  arte  dividean  ; le  donne 
Venner  dal  fonte  ; venne  Euniéo  , guidando 
Tre , della  mandra  fior  , nitidi  verri , 

Che  nel  vasto  corti!  pascer  lasciava. 

Quindi,  fermate  nel  suo  re  le  ciglia , aio 
Vecchio  , imparato  a rispettarti  forse, 

0 , disse , a t’oltraggiar  scguon  gli  Achei  ? 

Eumco  , rispose  il  re,  piacesse  ai  Numi 
Questa  gente  punir,  che  nell'altrui 
Magion  rei  fatti,  ingiuriando,  pensa, 

E dramma  di  pudor  non  serba  in  petto! 

Cosi  tra  lor  dicean  , quando  il  caprajo 
Co'più  bei  della  greggia  eletti  corpi , 

L'avido  ventre  a riempir  de'Proci , 

Giunse  , Melanzio  ; e seco  due  pastori.  220 
Ei  le  capre  legò  sotto  il  sonante 
Portico , e morse  nuovamente  Ulisse  : 

Stranier , molesto  ci  sarai  tu  ancora , 
Mendicando  da  ognun  ? Fuori  una  volta 
Non  uscirai  ? Difficilmente,  io  credo. 

Noi  ci  dividerein,  che  l'un  dell'altro 
Assaggiate  le  man  non  abbia  in  prima  : 

Però  che  tu  villanamente  accatti. 

Altra  mensa  in  città  diuiqne  non  fuma? 

Nulla  l’otfeso  eroe  : ma  sol  crollava  23o 
Tacitamente  il  capo,  e la  risposta, 

Che  farà  con  la  man  , tra  sè  solgea. 

Filezio  in  quella  sopraggiunse  terzo  , 

Grassa  vacca  iiienatido,  e pingui  capre, 

Cui  traghettò  su  passeggierà  barca 
Gente  di  mar  , che  a questa  cura  intende. 

Le  avvinse  sotto  il  portico,  e vicjiio 
Fattosi  a Eurnéo,  l'jiiterrogava  : Euméo  , 

Chi  è quello  stranier  , die  ai  nostri  alberghi 
Testé  arrivò?  Quali  es.ser  dice  , e dove  240 
La  sua  terra  nativa,  e i padri  suoi  ? 

Lasso!  uu  Monarca  egli  mi  sembra  iu  vista. 


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t I B R O V K 

Certo  |)tace  «gli  Dei  metter  uel  fondo 
Delie  sventure  i viandanti  « quando 
Si  deistina  da  loro  ai  rt^  tal  sorte. 

Disse  y e appressando  il  lure.stiero , e a lui 
La  man  porg»*ndo,  Ospite  padre  , salve  , 
Soggiunse  : almeu  , se  nella  doglia  or  vivi , 
Sorganti  più  sereni  i giorni  estremi  ! 

Giove  , qual  inai  di  le  Nume  più  crudo , 260 

Che  alla  fatica  e aU^iuforlunio  in  preda 
1^;)CÌ  i m<jrtali  , cui  la  vita  desti  ? 

Freddo  sudur  bagnommi , e mi  scempierò 
Gli  occhi  di  piaii’u  , immaginando  Ulisse  f 
Cui  veder  parmi  con  tai  panni  in  dosso 
Tra  gli  uomini  vagar  , se  qualche  terra 
Sostienio  ancora  , e gli  risplende  il  Sole. 
Sventurato  di  me  ! L^inclito  Ulisse 
A me  fanciullo  delle  sue  giovenche 
La  cura  diè  ne*Cefaleni  campi  \ 260 

£d  io  sì  le  guardai , che  in  siihnitn 
L’armento  crebbe  dalle  larghe  fronti. 

Questo  sul  mare  trasportar  per  esca 
Deggiu  a una  turba  di  signori  estrani , 

Che  nè  guarda  al  hgliuol  , nè  gli  Dei  teme  : 
^Mentre  dc’beni  del  mio  Sir  lontano 
La  parte  , cui  finor  perdonò  il  dente  , 

Con  gli  occhi  ella  divora  , e col  desìo. 

Ora  io  stommi  fra  due:  perchè  lea  cosa 
Certo  sarìa  , vivo  il  figliuolo,  a un’altra  170 
Gente  con  ramientu  ir^  ma  d’altra  parte 
Pesami  fieramente  appo  una  niandra 
Restar,  che  a me  divenne  ornai  straniera. 

£ se  non  fosse  la  non  morta  ppeme  , 

Che  quel  misero  rieda  , e spci  da  i Proci , 
lo  di  qualque  uiagiianimo  p.idrone 
Giù  nella  corte  rìpiiralo  avrei: 

Che  tai  cose  durar  più  non  si  panno. 

£ l’eroe  si  gli  rispuiidea  ; Pastore , 

Poiché  malvagio  non  mi  sembri,  e stolto,  2S0 
£ senno  anche  dimostri  , udì  i miei  delti, 

£ il  giuramento  che  su  questi  sit'de. 

10  pria  tra  i Numi  in  testimonio  Giove, 

£ la  meiisH  ospitai  chiamo  , e d'Ulisse 

11  venerando  tucular  , cui  venni: 

Giungerà  il  figlio  di  Laerte  , e all’Orco 
Precipitargli  usurpatori  Proci 
Vedianlo  , se  tu  vuoi , gli  occhi  tuoi  stessi. 

Ospite,  questo  il  Satiirnide  adempia, 

Replicò  il  guardian  : vedresti,  come  200 
Intrepido  seguir  del  mio  signore 
l.a  giusta  ira  io  saprei.  Tacque  ; ed  Euméo 
S’uiiìa  con  esso  , e agt’Inimuriali  tutti 
Pel  ritorno  del  re  preghiere  fea. 

Morte  intanto  a Telemaco  s’ordìa 
Dai  Proci.  K ver  , che  alla  sinistra  loro 
Uiraquila  comparve  altovolaiite , 

Che  avea  colomba  trepida  tra  Pugne. 

Tosto  Aiifìnomo  sorse  , e , Amici , disse , 
Lasciarti  da  un  lato  la  cruenta  trama  , 3t>0 

Cui  più  , che  ìnvan  , si  pensa  ; ed  il  convito 
Ci  sovvenga  più  presto,  li  il  detto  piacque. 

I Proci  eii’ruro  noi  palagio,  e i manti 
Sovra  i seggi  deposero  : le  pingui 
C'ipre  e i montoni  s’immolaro  , corse 
D'*'verrÌ  il  sangue,  e la  buessa  , onore 
Dell’armento , cadè.  Furo  spai  lite 
Le  abbrustolate  vuccre,  e mesciuto 
omssxA. 


N T E S I M O.  io5 

Nell’urne  il  rosso  vino.  Euméo  le  tazze, 
Filrzio  i pani  dispensò  ne’vagbi  3io 

Canestri  : ma  dall’urue  il  buon  licore 
Mela  ozio  nelle  ciotole  versava. 

K già  i prenci  volgeano  all'apprestate 
Mense  il  peiisier  , quando  d' Ulisse  il  figlio, 
Non  senza  un  suo  perché  seder  fe'il  padre 
Pressa  il  marmoreo  limitar  su  ruzzo 
Scanno  , ed  a picciol  desco;  e qui  una  parte 
Gl’imbandì  delle  viscere  , e gl’iafuse 
Vermiglio  vino  Ìii  tazza  d’oro,  e tale 
Parlò  : Tu  pur  siedi  cu’prenci , e bevi.  320 

10  dalle  lingue  audaci  e dalle  mani 

Ti  schermirò  : che  11011  è questo  albergo 
Pubblico,  ma  d'Ulisse  , ed  a me  solo 
Egli  acquistollo.  E voi  [renate  , o Proci, 

Le  luan  , non  che  le  lingue , onde  contesa 
Qui  non  a’acceiida,  esubitana  rissa. 

Strinser  le  labbra  , ed  inarcar  le  ciglia. 

Ed  Àntinoo  così  : La  minacciosa  , 

Compagni , di  Telemaco  tavella  , 

Per  molesta  che  sia  , durarla  vuoisi.  33o 
Giove  il  protegge:  chè  altramente  imposto, 
Benché  canoro  arriiigatur  , gli  avremmo 
Silenzio  eterno  da  gran  tempo.  Disse: 

£ il  dispregiò  TeUriiiaco , c si  tenne. 

Già  i banditori  recatumbe  sacra 
Degli  Dei  conducean  per  la  cittade, 

E raccoglieansi  Ì capeduti  Acliivi 
Sotto  il  bosco  frondifero  d' A pollo, 

Di  cui  per  cotanto  aero  il  dardo  vola. 

£ al  tempo  sGsso,  incotte  ornai  le  carni , 340 
Nel  palagio  d'Ulisse  , e dagli  acuti 
Si  hidoiii  tratte,  e poi  divise  in  brani, 

L'alto  vi  ai  tenea  prandio  solenne. 

Parte  uguale  con  gli  altri  anco  ad  Ulisse 
Fu  posta  innanzi  Boi  ministri , come 
Volle  il  caro  figliuol  : nè  degli  oltraggi 
Però  Minerva  cunscnlìa  , ciie  i Proci 
Rimettessero  un  punto  , acciocché  al  rege 
L'ira  più  addentro  penetrasse  in  petto. 

V’era  tra  loro  un  nuivagio  uom'.  che  avea3jo 
Nome  Ctesip^K) , e dimorava  in  Same* 

Costui , fìdando  ne’tesur  paterni , 
l.a  consorte  del  re  con  gli  altri  ambiva. 

Sarse  , e tal  favellò  : Proci , ascoltate  : 

11  forestier  , qual  conveniasi , utteiino 
Parte  uguale  con  noi.  Chi  mai  vorrìa 
Di  Telemaco  un  ospite  fraudarne  , 

Chiunque  fosse?  Ora  io  di  fargli  intendo 
Un  nobii  don,  ch'egli  potrà  in  mercede 

Dar  poscia  o al  bagnajtiulo.oa  qual  trai  serri  36o 
Gii  piacerà  deirimmortule  Ulisse. 

Così  dicendo  , una  bovina  zampa 
Levò  su  da  un  canestro  , e con  gagliarda 
Mano  avventulla.  L’iiicoiicusso  eroe 
Sfuggilla  , il  capo  declinando  alquanto  , 

Ktl  in  quell’atlu  d'un  colai  suo  riso 
Sardonico  ridendo  : e il  piè  dtl  bue 
A percuotere  andò  nella  parete. 

Meglio  d’as>ai  per  te  , che  noi  cogliesti , 

Si  Telemaco  allora  il  tracotante  370 

Ctesippo  rabbuffò:  uiegliu  , che  il  colpo 
L’oste  schivas.^e  ; però  ch’io  nel  mezzo 
Del  cor  seiiz’àicun  dubbio  ui/asta  acuta 
Tavrei  piantata , e delle  nozze  in  vece 

14 


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ODISSEA 


luC 

Ct^lebrate  t’avria  Tesequie  il  padre, 
pine  dunque  agl^nsulti.  Io  più  fanciullo 
IVon  son  , tuttu  m’è  noto  , ed  i confini 
Segnar  del  retto , e del  non  retto  , io'valgo. 
Credete  voi  ch’io  soffrirei  tal  piaga 
Nelle  sostanze  mie,  se  forte  troppo  58o 

Non  fosse  impresa  il  frenar  molti  a un  solo? 
Su  via , cessate  dairoflese , o , dove 
Sete  del  sangue  mio  l'alme  vi  punga  , 
Prendetevi  il  mio  sangue.  Io  dò  pria  voglio , 
Che  veder  ciascun  giorno  opre  sì  indegne , 

I forestieri  dileggiati , e spesso 
Battuti  ,e  nello  splendido  palagio 
Contaminate , oh  reità  ! le  ancelle. 

Tutti  ammutirò , e sol , ma  tardi  molto  » 
Favellò  il  Damastoride  Agelao  : 39 

Nobili  amici , a chi  parlò  con  senno , 

Nessun  risponda  ingiurioso  « avverso; 

Nè  forestier  più  si  percuota  , o altr’uomo 
Che  in  corte  serva  uel  divino  Ulisse. 

Io  poi  darò  a Telemaco  e alla  madre 
Util  consiglio  con  parole  blande  , 

Se  in  cor  loro  entrerà.  Finché  speranza 
Del  ritorno  d’Ulisse  a voi  fioriva  , 

Gl’indugi  perdonare)  ed  i pretesti 

Vi  si  poteano , e ÌJ  trarre  in  lungo  i Proci:  400 

Chè  ) qtiando  apparsa  la  sua  faccia  fosse , 

Di  prudenza  lodati  avrìavi  il  mondQ. 

IVIa  chiaro  parmi  che  più  Ìo  man  d'Ulìsse 

II  ritorno  non  è.  Trovala  madre 

Dunque , e la  pressa  tu , che  a quel  de’Proci , 
Che  ha  più  virtude , e più  doni  offre  ) vada  : 
Onde  tu  rientrar  ne'beni  tutti 
Del  padre  possi,  e alla  tua  mensa  in  gioja  , 
Non  che  in  pace  ) seder  ) mentre  la  madre 
Del  nuovo  sposo  allegrerà  le  mura.  410 

E il  prudente  Telemaco,  per  Giove  , 
Rispose  ) e per  li  guai  del  padre  mio , 

C'h’erra , o perì , dalla  sua  patria  lungo 
Ti  protesto  , Agelao , ch’io  della  madre 
Non  indugio  le  nozze  ; anzi  la  esorto 
Quello  a seguir  che  più  le  aggrada  , ed  offre 
Doni  in  copia  maggior  : ma  i Dii  beati 
Tolgali  che  involontaria  io  la  sbandisca 
Da  queste  soglie  con  severi  accenti. 

Disse,  e Minerva  inestinguibil  riso  420 
Destò  ne’Procì,  e nc  travolse  il  senno. 

Ma  il  riso  era  stranier  su  quelle  guance  : 

Ma  sanguigne  inghiottìan  delle  sgozzate 
Bestie  le  carni , e poi  dagli  occhi  a un  tratto 
^igorgava  loro  un  improvviso  pianto, 

H di  previsa  disventura  il  duolo 
N'e’  lor  petti  regnava.  E qui  levossi 
’J'focliniéuo , il  gran  profeta , e disse  : 


Ah  miseri , che  veggio  ? £ qual  v’incontra 
Caso  funesto  ? Al  corpo  intorno  , intorno  4^*^ 
D’atra  notte  vi  gira  al  capo  un  nembo. 

Urlo  fiero  scoppiò  : bagnatisi  i volti 
D’involontarie  lagrime;  di  sangue 
Tingoiisì  le  pareti  ed  i bei  palchi  ; 

L’atrio  s’empie  e il  cortil  d’ómbre,  che  in  fretta 
Giù  discendon  nell’Èrebo;  disparve 
Dal  cielo  il  Sole  , e degli  aerei  campi 
Una  densa  ceiìgìne  ìnduunossì. 

Tutti  beffarsi  del  profeta , c queste 
Voci  Eurimaco  sciolse  : Il  forestiero,  44o 
Che  qua  venne  testé  non  so  da  dove  , 

Vaneggia  , io  penso.  Giovani , su  , via  , 
Mettetel  fuori,  acciocché  in  piazza  ei  vada , 
Poscia  che  qui  per  notte  il  giorno  prende. 

£ Pindovino,  Eurimaco , rispose  , 

Coleste  guide  , che  vuoi  darmi , tienti. 

Occhi  ho  iu  testa , ed  orecchi , e due  piè  sotto, 
E di  tempra  non  vile  un’alma  In  petto. 

Con  tai  soccorsi  io  sgombrerò,  scorgendo 
Il  mal , che  sopra  voi  pende , e a cui  torsi  460 
Non  potrà  un  sol  di  voi , che  gli  stranieri 
Oltraggiate,  e studiate  iniquitadi 
Nella  magion  del  pari  ai  Numi  Ulisse. 

Ciò  detto,  uscì  da  loro,  ed  a Firéo  , 

Che  di  buon  grado  il  ricevè , s'addusse. 

Ma  i Proci , riguardandosi  a vicenda , 

E beffe  d'ambo  i forestier  facendo , 

Provoca van  Telemaco.  Non  havvi , 

Talun  dtcea , chi  ad  ospiti  stia  peggio  , 
Telemaco , di  te.  L’uno  è un  mendico  460 
Errante , ornai  di  fame  e sete  morto , 

Senza  prodezza  , senza  industria  , peso 
Disutil  della  terra  ; e l’altro  un  pazzo  , 

Che  , per  far  del  profeta  , in  piè  si  leva. 

Vuoi  tu  questo  seguir  , ch’io  ti  propongo  , 
Sano  partito  ? Ambo  gittiamlì  in  nave , 

K li  mandiam  delia  Sicilia  ai  lidi. 

Più  gioveranno  a te,  se  tu  li  vendi. 

Telemaco  di  luì  nulla  curava  : 

Ma  levati  tcnea  tacito  gli  occhi 

Nel  genitor,  Sempre  aspettando  il  punto  , 

Ch’ei  fatto  contra  i Proci  impeto  avrebbe. 

In  faccia  della  sala,  e in  su  la  porta 
Del  ginecèo , da  un  suo  lucente  seggio 
Tutti  i lor  detti  la  regina  udìa. 

B quei , ridendo , il  più  soave  e lauto  , 

Però  che  molte  avean  vìttime  uccise  , 

Convito  celebrar  : ma  più  iogioconda 
Cena  di  quella  non  fu  mai , che  ai  Proci , 
Degna  mercè  della  neouizia  loro , 4^*^ 

Stavan  per  imbandir  ralla  ed  Ulisse. 


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LIBRO  VENTESIMOPRIMO 


argomento 

P«*nelope , per  ifpirasìon  di  Minerve , propone  il  cimento  dellareo , pr«*U  di  quello  sputare  tra  i rrr>c» . rSe 
saprà  teoderlu , e spinger  secondo  la  iiripctsU  legge  lo  strale.  Telemaco  apiMrecchia  il  giuoco,  ed  egli  stesa» 
pruovasi  il  primo  y pensando  di  ritenere  in  casa , se  il  giuoco  gli  riesce , la  madre  ; ma  in  sul  più  bello  il  padre 
gli  comanda  di  starsi.  Si  pruovano  alcuni  Proci,  ed  iimiilineote.  Ksooou  intanto  Filexio  edEuim^i;  e Llisje  li 
sif^ue,  siscuupre,  e dà  loro  gli  ordini  più  opportuni.  Nuovi  ed  inutili  tentativi , do|xi  ì quali  Auliiiou  suggerisce 
di  diiferire  al  giorno  appresso  ii  cimento.  Ulisse  anchVgli  vuoi  cimruUrsi,  e i Proci  a'oppuogono  indarno  Egli 
esamina  l'arco,  il  tende  cuu  molta  facilità,  e spinge  la  treccia  secondo  il  rito  felicusiiuameulc. 


M A Palla , occhio  azzurrino  , alla  prudente 
Figlia  d^lcario  entro  lo  spirto  mise 
Di  propor  Tarco  ai  Proci , e i lerrei  anelli , 
Nella  casa  d’Ulisse  : acerbo  gioco, 

E di  strage  principio  , e di  vendetta. 

La  donna  salse  alla  magìon  più  alta  , 

E dell’abil  sua  man  la  bella  e ad  arte 
Curvala  chiave  di  metallo  prese 
Pel  manubrio  di  candido  elefante. 

Ciò  fatto  , andò-con  le  fedeli  ancelle  io 

Nella  stanza  più  interna  , ove  i tesori 
Serbavansi  del  re:  rame,  oro  e ferro 
Ben  travagliato.  E qui  giacea  pur  l'arco 
Ritorto,  e il  sagittilero  turcasso, 

Che  molte  dentro  a sé  frecce  chiudea 
Doloriferc  : doni , che  ad  Ulisse , 

Cui  s’abbattè  nella  Laconia  un  giorno  , 

Feo  l'Éurltide  ilito  ai  Numi  eguale. 

S’incontraro  gli  eroi  nella  magione 
D’Orsìloco  in  Messenia.  Di  Messeiii  ao 

Una  masnada  pecore  trecento 
Co’  lor  custodi  su  le  lunghe  navi 
l^apito  avea  dagl’ltacesi  paschi  ; 

E a richiederle  il  padre , e gli  altri  vecchi , 
Giovane  ambasciator  per  lunga  strada, 
Mandaro  Ulisse.  D'altra  parte  Ulto 
In  traccia  sen  venia  delle  perdute 
Sue  dodici  cavalle  , e delle  forti 
Alla  lor  mamma  pazienti  mule  , 

Donde  mina  derivògU  , e morte  ; 3o 

Però  che  Alcide , il  gran  iìgliuol  di  Giove , 
D’opere  grandi  fabbro  , a lui , che  accolto 
Nel  suo  pais^io  avea  , non  p» ventando 
Nè  la  giustizia  degli  Dei , nè  quella 
Mensa  ospitai  che  gli  avea  posta  innanzi , 
Tolse  iniquo  la  vita , e le  giumente 
Dalla  forte  unghia  in  sua  balia  ritenne. 

Queste  cercando , s’abbattè  ad  Uliss" , 

E l’arco  gU  donò , che  il  chiaro  Eurito 
Portava  , e in  man  del  suo  diletto  figlio  4o 
Pose  morendo  negli  eccelsi  alberghi. 

E il  Laerziade  un’adilata  sp;;da 
Diede , e una  lancia  noderosa  a Iflto , 
D’un’amistà  non  lunga  unico  pegno  : 

Chè  di  mensa  conoscersi  a vicenda 
Lor  non  fu  dato , ed  il  ligUuol  di  Giove 
L’Euritide  divino  innanzi  uccise. 

Quest’arco  Ulisse  , allorché  in  negra  nave 
Alle  dure  traea  belliche  prove  , 

Noi  togliea  mai , ma  per  memoria  eterna  5o 
Del  caro  amico  alla  parete  appe'io 
l^asciar  solcalo  , e sol  gravarne  il  dosso 
Nell’isola  natia  gli  era  diletto. 


Come  pervenne  alla  secreta  stanza 
L’egregia  donna,  c il  limitar  di  quercia 
Sali  construtto  a squadra  e ripoljto 
Da  fabbro  indiistre  , che  adat*ovvi  ancora 
Le  imposte  ferme  e le  lucenti  porte  , 

Tosto  la  fune  dell’anello  sciolse, 

£ introdusse  la  chiave,  ed  i serrami  6o 

Respinse  : un  rimugghiar  , come  di  tauro  , 

Che  di  rauco  boato  empie  la  valle  , 

S’udì , quando  le  porte  a lei  s’apriro. 

Ella  montò  su  l'elevato  palco  , 

Dove  giaceano  alle  bell’arche  in  grembo 
Le  profumate  vesti , c , distendendo 
Quindi  la  man  , dalla  cavicchia  l’arco 
Con  tutta  distaccò  la  luminosa 
Vagina  , entro  cui  stava.  Indi  s’assise  ^ 

E , quel  posato  su  le  sue  ginocchia  , 70 

Ne’  pianti  dava  , e ne’  lamenti  : al  fine 
Dalla  custodia  sua  l'arco  fuor  trasse. 

Ma  poiché  fu  di  lai  sazia  e di  pianti , 

Scese  , c de*  Proci  nel  cospetto  venne  , 

Quello  in  man  sostenendo,  e la  faretra 
Gravida  di  mortifere  saette: 

Mentre  le  ancelle  la  segiiìan  con  ce.sta 
Del  ferro  piena  , che  leggiadro  a Ulisse 
Di  forza  esercizio  era  , e <li  destrezza. 

Giunta  ove  quei  sedean  , fermava  il  piede  80 
Della  sala  dedalea  in  su  la  soglia 
Tra  l’una  e l'altra  ancella  , e co’sottili 
Veli  del  crine  ambo  le  guance  ombrava. 

Poi  sciogiiea  tali  accenti  : O voi,  che  iti  questa 
Casa  , lontano  Ulisse  , a forza  entraste  , 
Gl’interi  giorni  a consumar  tra  i nappi , 

Nè  di  tal  reità  miglior  difesa 
Sapeste  addur  , che  le  mie  nozze , udite. 
Quando  sorse  il  gran  dì , che  la  mia  mano 
Ritener  più  non  deggio  , ecco  d’Ulisse  qo 
L’arco  , che  per  certame  io  vi  propongo. 

(3hi  tenderalio  , c passerà  per  tutti 
Con  la  freccia  ''olanle  i ferrei  cerchii , 

Lui  seguir  noi;  ricuso  , abbandonata 
Questa  sì  bella  , e dì  ricchezze  colma 
Magion  de’miei  verd’nnnì,  ond’anche  insogno 
Dovermi  spesso  ricordare  io  penso. 

Disse;  e,  chiamato  Euméo,  recare  ai  Proci 
L’arco  gl’in^iunse,  e degli  anelli  il  ferro. 

Ki  Ugrimando  il  prese,  c nella  sala  100 

Deposelo;  e Fileno  in  altra  parte, 

Visto  l’arma  del  re,  pianto  versava. 

Ma  sgridava]!  Anticuo  in  tai  parole  : 

Sciocchi  villani , la  cui  mente  inferma 
Olirà  il  presente  dì  mai  non  si  stende, 

Perchè  tal  piagnistèo?  Per«hè  alla  donna 


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ODISSEA 


108 

L'ulma  nel  petto  commovete , qua&i 
Per  sé  stefsa  nun  dolgasi  abbasunsa 
Del  perduto  cousorte?  O qui  sedete 
Taciti  a bere,  o a singhiozzare  uscite,  110 
£ lasciate  a noi  l'arci»,  impresa  molto, 

Vaglia  il  ver;  iurte  per  noi  tutti , e a gabbo 
Da  non  pigliar  : chè  non  havvi  uom  tra  noi 
Pari  ad  UÌisse  per  curvarlo.  Il  vidi 
!NegU  anni  miei  più  teneri , rd  impressa 
2Vle  ne  sta  in  mente  da  quel  dì  l’imago. 

Così  d’Eupite  il  figlio;  e non  pertaulu 
11  nervo  conlidavusi  piegarne, 

E d'anello  in  anel  mandar  lo  strale. 

IVIa  dovea  prima  rinrailibil  Treccia  lao 

Gustare  in  vece  dallVroe  scoccata, 

Cui  poc’anzi  oltraggiava  , e incontro  a cui 
Aizzava  i compagni  a mensa  assiso. 

Qui  tra  i Proci  parlò  la  sacra  forza 
Di  Telemaco:  Oh  Dei!  Me  Giove  al  certo 
Cavò  di  senno.  La  diletta  madre 
Dice  un  altro  consorte  , abbandonando 
Queste  mura  , seguir , benché  sì  saggia  , 

£ folle  io  rido  , e a sollazzarmi  attendo. 

Su  via,  poiché  a voi,  donna,  in  premio  s’ofire, 
Cui  non  i’Àcaica  terra,  c non  la  sacra  ( i3o 
Pilo  , ed  Argo  , Micene,  Itaca  stessa 
Vanta  l’eguale,  o la  feconda  Epiro; 

£ il  sapete  voi  ben , nè , ch’io  ri  lodi 
Xa  genitrice,  oggi  è mestier  ; su  via  , 

Con  vane  scuse  non  tirate  in  lungo 
Questo  certame,  e non  rifugga  indietro 
Dalia  tesa  dell’arco  il  vostro  braccio. 
Cìmenterommi  anch’io.  8’io  tenderollo, 

£ ne’ferri  entrerò  con  la  mia  freccia  , 140 

Me  qui  lasciar  per  nuove  nozze  in  duolo 
Xa  genitrice  non  vorrà  , fuggire 
^^un  vorrà  da  un  figliuui , che  ne’paternx 
Giochi  la  palma  riportar  già  vale. 

Surse , ciò  detto,  ed  il  purpureo  manto 
D»gli  omeri  deposto,  c il  brando  acuto , 
Scavò  , la  prima  cosa  , un  lungo  fosso  , 

Xe  colonnette  con  gli  anelli  in  cima 
Piantovvi , a squadra  dirizzolle  , e intorno 
Xa  terra  vi  calcò.  Stupìano  i Proci  i5o 

Vedendole  piantare  a lui  sì  bene  , 

Bench’egli  a nessun  pria  viste  le  avesse. 

Ciò  fatto  , delle  porte  andò  alla  soglia  , 

£ , fermatovi  il  piè  , Tarco  tentava. 

Tre  fiate  trar  volle  il  nervo  al  petto, 

'Tre  dalla  man  gli  scappò  il  nervo.  Pure 
^on  disperava  che  la  (piarta  prova 
Più  felice  non  fosse.  F.  già,  la  corda 
Traendo  al  petto  per  la  quarta  volta  , 

Teso  avvia  l’arco  : ma  il  vietava  Ulisse  iGo 
D’un  cenno , e lui , che  tutto  ardea,  frenava. 
£ Telemaco  alìor,  ?^uml  l soggiunse  , 

O debile  io  vivrò  dunque,  e dappoco 
Tutto  il  mio  tempo  , o almen  la  poca  etade 
Forze  da  ributtar  chi  ad  oltraggiarmi 
Si  scagliasse  primier  , non  dammi  ancora. 

Ma  voi , che  siete  più  gagliardi , l’arma 
Tastate  adunque  , e si  compisca  il  gioco. 

Detto  così,  l’arco  ei  depose  a terra, 

£.  all’iucoliate  tavole  polite  170 

X’appoggiò  della  porta  , e posò  il  dardo 
cerchio,  che  delfarco  il  sor^rpo  ornava. 


Poi  s’assise  dì  nuovo.  E Antiiiuo,  il  figlio 
D'Eupite,  favellò  : Tutti  , o compagni , 

Dalla  destra  per  ordine  v’alzate  , 

Cominciando  ciascun  , donde  Ìl  vermiglio 
Liror  si  versa.  Il  detto  piacque,  e primo 
L’Enopide  Leode  alzossi , ch’era 
Loro  indovino  , e alla  bell’urna  sempre 
Sedea  più  presso.  Odio  alla  colpa  ei  solo  180 
Portava  , e gli  altri  riprendea.  Costui 
L’arco  lunato  cd  il  pennuto  strale 
Si  recò  in  mano  , c alla  soglia  ito  , e fermo 
Su  i piedi;  tentò  il  grave  arco , e noi  te»«  : 
Chè  sentì  intorno  alla  ribelle  corda 
Prima  stancarsi  la  man  liscia  e molle. 

Altri , disse  , sei  prenda  ; io  certo , amici , 

Noi  tenderò  : ma  credo, ben  , che  a molti 
Sarà  morte  quest’arco,  È ver  che  meglio 
Torna  il  morire,  che  il  giù  torsi  vivi 
Da  quella  speme  altissima,  che  in  queste 
Mura  raccolti  sino  a qui  ci  tenne. 

Spera  oggi  alcun,  non  che  in  suo  core  il  brami, 
La  regina  impalmar  : ma  , come  visto 
Questo  arnese  abbia  , e maneggiato  , un’altra 
Chìedeià  dell’Achee  peploaddobbate, 

Nuziali  presenti  a lei  porgendo, 

£ a Penelope  il  fato  uom  , che  di  doni 
Ricolmeralla  , condurrà  d’altronde. 

Cosi  parlato  , ei  mise  l'arco  a terrra  , 200 

£ all’inroHate  tavole  polite 
L'appoggiò  della  porta , e po.sò  ÌI  dardo 
Sul  cerchio  , che  delfarco  il  .sommo  ornava. 
Quindi  tornò  al  .suo  seggio.  E Autinoo  in  tali 
Voci  proruppe  : Qual  inuiestu  , acerbo 
Dalia  chiostra  de’denti  a te  , Leode  , 

Detto  sfuggì , che  di  furor  ra’infismma  ? 

A noi  dunque  sarà  morte  quest'arco  ? 

Se  tu  curvar  noi  puoi , la  madre  incolpa  , 

Che  d’archi  uom  non  ti  lece,  e di  saette  : 210 
Ma  gli  altri  Proci  il  curveranno,  io  penso. 

Disse,  e al  custode  d^l  caprino  gr*-gge 
Questo  precetto  diè:  Meianzio  accendi 
Possente  foco  nella  sala  , e appresso 
Vi  poni  seggio  , che  una  pelie  ctiopra. 

Poi  di  bianco  e indurato  atlipe  reca 
Grande  , ritonda  massa  , acciocché  s’unga 
Per  noi  l’arco  , e si  scaldi  , ed  in  tal  guisa 
Questo  certame  si  conduca  a fine, 

Meianzio  accese  un  istancabii  foco  , 220 

R con  pelle  di  sopra  un  seggio  pose. 

Poi  di  bianco  e indurato  adipe  massa 
Grande  e tonda  recò.  L’arco  unto  e caldo 
l’iegar  tentaro  i giovani.  Che  valse , 

Se  lor  non  rlspondean  le  braccia  imbelli? 

Ma  dalla  prova  s’astenean  finora 
Eiirimaco  ed  Antlnoo,  che  de’Procì 
£i  an  di  grado  e di  valore  1 primi. 

Uscirò  intanto  del  palagio  n un  tempo 
Il  pastor  de'majali , e quel  de'imoi,  23a 

E Ulisse  dopo.  Didle  porte  appena 
Fuor  sì  irovaro,  e del  cortil  , ch’ei , dolci 
Parole  ad  ambi  rivolgendo,  Eumeo, 

Disse,  e Filezio,  favellar  degg’io, 

O i detti  ritener  ? Di  ritenerli 
L’animo  non  mi  dà.  Quali  sareste 
D’Ulisse  a prò,  se  d'improvviso  al  rostro 
Cospetto  innanzi  il  presentasse  un  Nume? 


LIBRO  VENTESIMOPRTMO. 


Al  Proci , 0 a lui , «occorreste  voi  ? 

Ciò,  che  nel  cor  vi  sta  , venga  sul  labbro.  240 

O Giove  padre , sciamò  allor  FIUzio , 
Adempì  il  voto  mio  ! L’eroe  qua  giunga  , 

E un  Nume  il  guidi.  Tu  vedresti , o vecchio , 
Quale  in  me  l’ardir  fora , e quale  il  braccio. 
Ed  Eiiméo  nulla  meno  agli  L)ei  tutti 
Pel  ritorno  de!  re  preghiere  alzava. 

£i,  come  certo  a p*eii  fu  della  mente 
Sincera  e hda  d’ambtduo , soggiunse  : 

In  casa  eccomi  io  stesso  , io,  che,  sofferte 
Sventure  senza  numero  \ alla  terra  aòo 

jVativa  giunsi  ne)  vigesi m’anno. 

So  che  H voi  soli  deMato  io  spunto 
Tra  i servi  miei:  poiché  degli  altri  tutti 
Non  udii  che  un  bramasse  il  mio  ritorno. 
Quel’  ch’io  farò  per  voi , dunque  ascoltate. 
Voi  da  me  donna  e robe , ove  dai  Numi 
D’rsterminar  mi  si  conceda  i Proci , 

Voi  case  dalla  mia  non  lungi  estrutte 
Riceverete;  ed  io  terrovvi  in  conto 
Di  compagni  a Telemaco,  e fratelli.  260 
Ha  perchè  in  forse  non  res'iate  punto, 

Eccovi  a segno  manifesto  il  colpo, 

Che  d'un  fiero  cinghiai  la  bianca  sanna 
M’impresse  il  di  ch’io  sul  Parnaso  salsi 
Co’figliuoli  d’Autólico.  CIÒ  detto  , 

Dalla  gran  cicatrice  i panni  toLe. 

Quei , tutto  visto  attentamente,  e tocco, 
Piagnean,  gittate  dì  Laerte  a)  figlio 
Le  mani  intorno  , e gli  omeri  e la  testa  , 
Strìngendo),  gli  baciavano;  ed  Ulisse  270 
Lor  baciò  similii>ente  e mani  e capo. 

£ già  lasciati  il  tramontato  Sole 
IragrimoH  gli  avria,  se  «osi  Uli.sse 
Non  corregurali:  Fine  ai  p‘aiiti.  Alcuno 
Potrìa  vederli , uscendo,  e riportarli 
Di  dentro.  Udite.  Nella  sala  il  piede 
Ripnniam  tutti , io  prima  , e poscia  voi, 

£ d’un  .segnale  ci  accordiamo.  I Proci, 

Che  a me  si  porga  la  faretra  e l’arco. 

Non  patiraii  : ma  tu  , divino  'Eumòo,  280 
L’uno  e l'altra  mi  reca  , e di’aile  donne  , 

Che  gli  usci  rhiudan  delle  stanze  loro; 

E per  romor  nessuna , o per  lamento  , 

Che  i’orecrhio  a ferir  le  andasse  a un  tratto, 
Mosti  i.si  fuori , ma  quell’opra  siegua  , 

Che  avià  tra  mano  allor  , nè  se  ne  smaghi.  1 
Roccomando  a te  poi , Fiiezio  illustre , I 

Serrar  la  porta  del  cortile  a chiave» 

E con  ritorte  rafforzarla  in  fretta. 

Entrò,  ciò  detto,  e donde  pria  sorto  era,  2go 
S'assise  ; ed  ivi  a poco  entrare  i servi. 

Già  per  le  mani  Eiirimaco  il  grand’arco 
.Si  rivolgeva  , ed  a’rai  quinci  e quindi 
Della  fiamma  il  vibrava.  Inutil  cura! 

Meglio  che  gli  altri  non  per  questo  il  tese. 
Gemè  nel  cor  superbo,  c queste  voci 
Tra  ì sospiri  mandò:  Lasso  ! un  gran  duolo 
Di  me  stesso  e di  voi  sento  ad  mrora. 

Nè  già  sol  piango  le  perdute  nozze: 

Chè  nell'ondicerchiata  Itaca,  e altrove,  3oo 
Sul  capo  a molte  Achée  s’increspa  il  crine, 
piango,  ( he  , se  di  forze  a)  grande  Ulisse 
Tanto  cediam  da  non  curvar  quest’arco, 

Sì  rideran  di  noi  l’età  future. 


log 

No,  TEupitide  Àntinoo  a lui  rispose  , 

Ciò  , Kurimaro,  non  fia  : tu  stesso  il  vedi. 
.Sacro  ad  Apollo  è questo  di.  Chi  l’arco 
Tender  potrebbe  ? Deponiamlo  , e tutti 
Lasiamo  star  gli  anelli,  e non  temiamo 
Che  alcun  da  dove  son  , rapirli  ardisca.  3io 
Su  via  , l abi!  coppier  vada  co’nappi 
Ricolmi  in  giro  , e , poiché  avrem  libato  , 
Mettiam  l’arco  da  parte.  Al  di  novello 
Melaneio  a noi  le  più  fiorenti  capre 
Guidi  da  tutti  i branchi , onde , bruciati 
1 pingui  lombi  al  glorioso  arciere, 

Si  riprenda  il  ciiin^iito  , e a fin  s’addnca. 

Piacque  il  suo  detto.  I banditori  tosto 
L’acqua  diero  alle  man  , l'urne  i donzelli 
Di  vino  incoronaro  , e il  dis|>**nsaro  3ao 

Con  le  tazzo^  augurando , a tutti  in  giro. 

Come  libato , e a piena  voglia  tutti 
Bevuto  ebber  gli  amanti  , il  saggio  Ulisse  , 

Che  stratagemmi  in  cor  sempre  agitava, 

Così  lor  faveifò:  Competitori 
Dell’inclita  regina  , udir  v’aggradi  ^ 

Ciò  che  il  cor  dirvi  mi  consiglia  e sforza. 
Eurimaco  fra  tutti , e il  pari  a un  Nume 
Antinoo  , che  parlò  si  acconciamente  , 
L’orecchio  aprire  alle  mie  voci  io  priego.  33a 
Perdonate  oggi  ail'arro,  e degli  Eterni 
Noti  ostate  al  voler  ; forza  domane 
A cut  lor  piacerà , daranno  i Numi. 

Ma  intanto  a me  , Proci,  queil’artna  : io  prova 
Voglio  far  del  mio  braccio  , e veder  »'io 
Nelle  membra  pieghevoli  l'antico 
Vigor  mantengo  , o se  i mìe  lunghi  errori 
Disper.so  Uhanno  , e i molti  miei  di.-agi. 

Riiifocolàrsi  a ciò  , forte  temendo  , 

Non  il  polito  arco  ei  piegasse.  £ Antmoo  3^o 
Lo  sgridava  in  tal  guisa  : O miserando 
Degli  ospiti , sei  tu  fuor  di  te  stesso  ? 

Voli  ti  Contenti , che  tranquillo  siedi 
Con  noi  prìncipi  a mensa  , e , che  a uull’altro 
Stranìer  mendico  si  concede  , vieni 
D-lle  vivanrle  e de’sennoiii  a parte? 

Certo  te  offì*nde  il  saporoso  vino  , 

Che  tracannato  avidamente , e senza 
Modo  e termine  alcuno,  a molti  iiocque. 
Vocque  al  famoso  Eitriz'ion  Centauro,  3bo 
Quando  venne  tra  i Lapiti , e nell’alta 
-^asa  ospitale  di  Piritoo  immensi, 

Compieso  di  furor,  mah  commise. 

Molto  ne  dolse  a quegli  eroi , che  incontro 
m gli  avventa ro  , e del  vesiibol  fuori 
frasserlo  , e orecchie  gli  mozzaro  e nari 
Con  affilato  brando  ; ed  ei  , cui  spento 
Dell’iritelletto  il  lume  av«*an  le  tazze , 

Sen  già  manco  nel  corpo  c nella  meuie. 

Quindi  s’accese  una  ciuenta  pugna  36a 

fra  gli  sdegnati  I.àpiti  e i Centauri  : 

Ma  , gravato  dai  vili , primo  il  disastro 
Eiirlzion  portò  sovra  se  stesso. 

Cosi  te  pur  grave  inlortiiniu  aspetta  , 

.Se  l’arco  tenderai.  D'd  popol  tutto 
Non  fia  chi  s’alzi  in  tua  chiesa  , e noi 
Vd  Echeto , degli  uomini  il  igeilo  , 

Dalle  cui  mati  nè  tu  salvo  uscirai , 

Pi  manderem  su  rapido  naviglio. 

Chetati  adunque , ed  il  pensiero  impronto  370 


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1 10 


ODISSEA 


Di  confender  co’giovani  tì  spoglia. 

Qui  Penelope  disse  : Antiiiou  , quali 
Di  Telemaco  mio  gli  ospiti  sietio  , • 

Tarpo  ed  ingiusto  è il  tempestarli  tanto. 

Densi  tu  forse  , che  ove  lo  straniero  » 

Fidandosi  di  sé,  l’arco  tendesse, 

Me  quinci  condurrìa  moglie  al  suo  tetto  ? 

Nè  lo  spera  egli , nè  turbato  a mensa 
Dee  per  questo  sedere  alcun  di  voi. 

Cosa  io  veder  non  so  , che  men  s’addica.  38o 
Ed  Eurimaco  a lei  : D’Icario  figlia  , 

Non  v’ha  fra  noi , cui  nella  mente  cada , 

Che  te  pigli  a consorte  uom  che  si  poco 
Degno  è di  te.  Ma  degli  Achei  le  lingue 
Temiamo , e delle  Acnee.  La  più  vii  bocca 
Ve’, grideria , quai  d’un  eroe  la  donna 
Chiedono  a gara  giovinotti  imbelli , 

Che  nè  valgon  piegare  il  suo  bell’arco, 

Mente  un  tapino  , un  vagabondo  . un  giunto 
Testé  , curvollo  agevolmente,  e il  dardo  Sgo 
Per  gli  anelli  mandò.  Tal  griderebbe  ; 

E tinto  aiidria  d’infamia  il  nostro  nome. 

E cosi  a lui  Penelope  rispose  ; 

Eurimaco  , non  lice  un  nome  illustre 
Tra  i popoli  agognare  a chi  d'egregio 
Signor  la  casa  dal  suo  fondo  schianta. 

Perchè  tinger  voi  stessi  il  nome  vostro 
D’infamia  / È lo  stranier  di  gran  sembiante, 
Ben  complesso  di  membra  , e generosa 
La  stirpe  vanta  , e non  volgare  il  padre.  400 
Dategli  il  risplendente  arco  , e veggiamo. 

Se  il  tende  , e gloria  gli  concede  Apollo 
Prometto  , e non  invan , tunica  bella 
Vestirgli , e bella  clamide  , ed  in  oltre  , 

Un  brando  a doppio  taglio  , e un  dardo  acuto 
Mettergli  in  mano  , e sotto  ai  piè  calzari  ; 

E là  inviarlo  , dove  il  suo  cor  mira. 

Madre  , disse  Telemaco  , a me  solo 
Sta  in  mano  il  dare,  o no  , qnell’arco,  io  credo: 
Nè  ha  in  lui  ragione  degli  Achivi  alcuno  , 410 
Che  son  nell'alpestra  Itaca  signori, 

O nell’isole  prossime  alla  verde 
Elide  , chiara  di  cavalli  altrice. 

E quando  farne  ancor  dono  io  volessi 
Al  forestier  ch’invidiar  mel  punte? 

Ma  tu  rientra  ; ed  al  telajo  e al  fuso  , , 

Come  pur  suoli , con  le  ancelle  attendi. 

Cura  sarà  degli  uomini  quell’arma,, 

E più  che  d’altri  , mia  : chè  del  palagio 
Il  governo  in  me  sol , madre  , risiede.  4^o 

Attonita  rimase  , e del  figliuolo 
Con  la  parola  , che  nell’alma  entrolle  , 

Risali  in  alto  tra  le  fide  ancelle. 

Quivi , apprendo  alle  lagrime  le  porte, 

Ulisse  , Ulisse  a nome  iva  chiamando: 

Finché  un  dolce  di  tanti  e tanti  aifanni 
Sopitor  sonno  le  mandò  Minerva. 

L'arco  Enméo  tolse  intanto,  e già  il  portava, 
E i Proci  tutti  nel  garriano  , e alcuno 
Cosi  dicea  de’giovani  orgogliosi  : 4^0 

Dove  il  grand’arco  porti , o disonnato 
Porcajo  sozzo?  Appo  le  troje  in  breve 
Te  mangeran  fnor  d’ogni  umano  ajuto 
Gli  stessi  cani  di  tua  man  nutriti  , 

Se  Apollo  è a noi  proprizio  , e gli  altri  Numi. 

Impaurito  delle  lor  rampogne , 


L’arco  ei  depose.  Ma  dall’altra  parte 
Con  minacce  Telemaco  gridava  : 

Orsù  , va  innanzi  con  quell’arco.  Credi 
Che  l’obbedire  a tutti  in  prò  ti  turni  ? 44o 

’ou  cura  , ch’io  con  ìscagliati  sassi 
Dalla  cittade  non  ti  cacci  al  campo, 
u minor  d'anni , ma  di  te  più  forte. 

Oh  così , qual  di  te  , piu  forte  io  fossi 
De’Proci  tutti , che  qui  sono  l Alcuno 
Tosto  io  ne  sbalzerei  fuor  del  palagio  , 

Dove  il  tesser  malanni  è lor  bell’arte. 

Tutti  scoppiaro  in  un  giocondo  riso 
Sul  custode  de’ verri , e della  grave 
Cantra  il  garzone  ira  allentaru.  Euméo  , 460 

'Fraversata  la  sala  , innanzi  a Ulisse 
Fermossi,  ed  il  grande  arco  in  man  gli  mise. 

Poi , chiamata  Eurietéa  , parlò  in  tal  forma  : 
Saggia  Enricléa  , Telemaco  le  stanze 
Chiuder  t’ingiunge  , e deH’ancelie  vuole  , 

Che  per  rumor  nessuna  , o per  lamento  , 

Che  l’orecchio  a ferir  le  andasse  a un  tratto  , 
Mostrisi  fuori , ma  quell’opra  siegua  , 

Che  avrà  tra  mano  allor  , nè  se  ne  smaghi. 

Non  parlò  al  vento.  La  nutrice  annosa  4^ 
Tutte  impedì  le  uscite,  e al  tempo  istesso 
Filezio  si  gittò  tacitamente 
Fuor  del  palagio  , e rinserrò  le  porte 
Dei  cortil  ben  munito.  Una  gran  fune 
D’Egizio  giunco  per  navigli  intesta 
Giacca  sotto  la  loggia  ; ed  ei  con  quella 
Più  ancor  le  porte  raSurzò.  Ciò  fatto  , 
Rientrava  , e la  sedia  , ond'era  sorto  , 

Premea  di  nuovo  , riguardando  Ulisse. 

Ulisse  l’arco  maneggiava  , e attento  47® 

Per  ogni  parte  rivoltando  il  giva , 

Qua  tastandolo  , e là  , se  i muti  tarli 
Ne  avesser  mai  ròse  le  corna  , mentre 
N’era  il  signor  lontano.  E alcun,  rivolti 
Gli  sguardi  al  suo  vicino  , Uom  , gii  dicea  , 

Che  si  conosce  a maraviglia  d’archi  , 

È certo  , o un  arco  somigliante  pende  > 

A lui  dalla  domestica  parete  , 

O fabbricarne  un  di  tal  fatta  ei  pensa  : 

Così  questo  infelice  vagabondo  480 

L’arco  tra  le  sue  man  volta  e rivolta  ! 

E un  altro  ancor  de’giovani  protervi  : 

Deh  così  in  bene  gli  riesca  tutto  , 
cóme  teso  da  lui  sàrà  quell’arco  1 
Ma  il  Laerziade,  come  tutto  l’ehhe 
Ponderato  , e osservato  a parte  a parte  , 

Qual  perito  cantor,  che,  le  ben  torte 

Minuge  avvinte  d’uiia  sua  novella 

Cetera  ad  ambo  i lati , agevolmente 

Tira  , volgendo  il  bischero  , la  corda  : 490 

Tale  il  grande  arco  senza  sforzo  tese. 

Poi  saggio  far  volle  del  nervo*  aperse 

r.a  mano , e il  nervo  mandò  un  suono  acuto , 

Qual  di  garrula  irondliie  è la  voce. 

Gran  duolo  i Proci  ne  sentirò  , e in  volto 
Trascoloraro  ; e con  aperti  segni 
Fortemente  tonò  Giove  dall’alto. 

Gioì  l’eroe,  che  di  Saturno  il  figlio, 

Di  Saturno  , che  obliqui  ha  pensamenti , 

Gli  dimostrasse  il  suo  favor  dal  cielo  *,  5*)o 

li  un  aligero  strai , che  su  la  mensa 
Risplendea  , tolse  ; tulle l’altre  frecce. 


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1 1 1 


L I U R O V E N T K S I M O P U I M O. 


Che  gli  Achivi  assaggiar  dovean  tra  poco  | 
in  sè  chiudevale  il  concavo  turcasso. 

Posto  su  l’arco , ed  incoccato  il  dardo , 

Traea  seduto  , siccom’era  , al  petto 
Con  la  man  destra  il  nervo  ; indi  la  mira 
Tra  i terrei  cerchi  presp,  e spinse  il  telO| 

Che  , senza  quinci  deviare  « o quindi , 

Passò  tutti  gli  anelli  alto  ronzando.  6lo 

Subitamente  ai  rivolse  al  figlio , 

£ , Telemaco,  disse  , il  forestiero 
Xou  ti  svergogna  , parmi.  Tu  punto  Innge 
Dal  segno  uuu  andai , uè  a tender  l'arco 


Faticai  molto  : le  mie  forze  intere 
Serbo  , e non  merto  villanie  dai  Proci. 

Ma  tempo  è ornai  che  alla  cadente  luto 
Lor  s’appresti  la  cena*,  e poi  si  tocchi 
I.a  cetra  molticorde  , e s'atzi  il  rantu  , 
lu  che  più  di  piacer  la  mensa  acc]Oista.  5io 
Dis^c,  e accennò  co’  sopraccigli.  Allora 
Telemaco  , d’Uiisse  il  pegno  caro  , 
r.a  spada  cìnse  , impugno  l’asta  , e , tutto 
Uisplendendo  uell'arnii , accanto  al  padre , 

Che  pur  seduto  rimanea , locossi. 


LIBRO  VENTESIMOSECONDO 


ARGOMENTO 

Ulisse  comìDcia  la  gran  veodettayC  il  primo  che  uccide,  sactUoduIo  , è Anliooo.  Kurimaco  tenia  rii  placarli, 
ma  indarno;  e,  dopo  aver  cooforUto  i compagni  a cunibaUere,  è ucciso  anchVgli  da  Llissc.  Tcieuiaro  aiiiiuazza 
Anfiiiùiiio.  Poi,  mentre  il  padre  segue  a maneggiar  l'arco,  va  a prender  le  altre  armi  così  per  lui,  ct'tue  per 
se  e |>er  li  due  pasturi.  Mclaozio  fa  il  iiierlesiino  per  li  Proci.  Puuuiunc  di  luì.  Minerva  couqtartsce  ad  Plissé 
io  forma  di  Mentore,  e rincoraggia.  Appresso  ,scuopre  l'Egida,  e mette  i Proci  in  grande  scompiglio  Tutti 
rimangono  uccisi,  e sulamenlc  son  nrparoiiati  il  poeta  Femio  e randdo  Medunte.  Elisio  della  {mesia.  l.r  donne 
ctilpevoli  obbligate  sono  a traj|Hirtsr  fuori  i cadav«*ri  : indi  punite.  Plissé  purifica  con  fuoco  e zolfo  la  casa,  e 
chiama  a sè  le  altre  donne , che  gli  fiinno  gran  festa  , e ch'egli  sulnUi  riconosce. 


OvRSE , e spogliossi  de*  suoi  cenci  Ulisse , 

E sul  gran  limitare  andò  d’un  salto  , 

L’arco  tenendo  , e la  faretra.  1 ratti 
Strali , onde  gravida  era , ivi  gittossi 
Uavante  ai  piedi , e ai  Proci  disse  : A fine 
Questa  difficìl  prova  è già  condotta. 

Ora  io  vedrò  , se  altro  bersaglio  , in  cui 
Nessun  diede  sin  qui , tocccir  m’avvieuei 
£ se  me  tanto  privilegia  Apollo. 

Cosi  dicendo  , ei  dirigea  Vamaro  io 

Strale  in  Aiitinoo.  Antiiioo  una  leggiadra 
Stava  per  innalzar  coppa  di  vino 
Colma , a due  orecchie,  e d’oro;  ed  alle  labbra 
Già  l’appressava  : nè  pensier  di  morte 
Nel  cor  gli  si  volgea.  Chi  avrìa  creduto 
Che  ira  cotanti  a lieta  mensa  assisi 
Un  sol , quantunque  di  gran  forze,  il  nero 
Fabbricar  gii  dovesse  ultimo  iato? 

Nella  gola  il  trovò  col  dardo  Ulisse, 

£ si  colpillo , che  dall’altra  banda  30 

Pel  collo  delicato  usci  la  punta. 

Ei  piegò  da  una  parte , e dalle  mani 
La  coppa  gli  cadè  : tosto  una  grossa  i 

Vena  di  sangue  mandò  fuor  pel  naso  ; 

Percosse  colle  piante  , e da  se  il  desco 
Respinse,  sparse  le  vivande  a terrai 
£d  1 pani  imbrattavansi , e le  carni. 

Visto  Antinoo  cader,  tumulto  ì Proci 
Fèr  nella  sala , e dai  lor  seggi  alzaro  , 

Turbati  raggirandosi , e guardando  3o 

Alle  pareti  qua  e là  : ma  lancia 
Dalle  pareti  non  pendea,  nè  scudo. 

Allor  con  voci  di  grand^ira  Ulisse 
Metteansi  a impi  overare  : Ospite , il  dardo 
Ne’  petti  umani  malamente  scocchi. 

Parte  non  avrai  più  ne’ giuochi  nostri  ; 


Anzi  grave  mina  a te  sovrasta. 

Sai  tu  che  un  uomo  trafiggesti , ch’era 
Dell’ltacense  gioventude  il  fiore  ? 

Però  degli  avvoltoi  sarai  qui  pasto  40 

Così  , pensando  invuloiiiario  il  colpo  , 
Dicean  : nò  s’avvcdcaii  folli , che  posto 
Ne* confini  di  Morte  aveaii  già  il  piede. 

Ma  torvo  riguardulli , e iu  questa  guisa 
Favellò  Ulisse  : Credevate , o cani , 

Che  d’ilio  più  non  ritornassi,  e intanto 
La  casa  disertar , stuprar  le  ancelle, 

£ la  consorte  mia  , me  vivo,  ambire 
Costumavate,  non  temendo  punto 
Nè  degli  Dei  la  grave  ira , nè  il  biasmo  5o 
Permanente  degli  uomini.  Ma  renne 
La  fatai  per  voi  tutti  ultima  sera. 

Tutti  inverdirò  del  timoie , e gli  occhi , 
Uno  scampo  a cercar  , volsero  intorno. 

Solo  , e in  tal  forma  , Eurimacn  rispose: 
Quando  il  vero  tu  sii  d’ Itaca  Ulisse 
Fra  noi  rinato,  di  niolt’opre  ingiuste, 

Che  si  nel  tuo  palagio  , e si  iie’  campi 
Commesse  furo  , ti  quereli  a dritto. 

Ma  costui , che  di  tutto  era  cagione  , 60 

Eccolo  in  terra  , Antinoo.  Ei  deli' ingiuste 
Opre  fu  l’autor  primo  ; e non  già  lauto 
Pel  desiderio  delle  altere  nozze  , 

Quanto  per  quei  del  regno  , a cui  tendea  , 
Insidiando  Ìl  tuo  figliuolo:  occulte 
Macchine , che  il  Saturnio  in  man  gli  ruppe. 
Poiché  morto  egli  giace  , alla  tua  gente 
Perdona  tu.  Pubblica  emenda  farti 
Noi  promettiamo:  promettiam  con  venti 
Tauri  ciascuno  : e con  oro , e con  bronzo , 70 
Quel  vóto  riempir,  che  ne’  tuoi  beni 
Gozzovigliando  aprimmo  ; in  sin  che  il  core 


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113 


0 D I S 

AUa  letizia  ti  si  schiuda  , e sgombri 
L'ira,  onde  a grau  ragione  arse  da  prima. 

Bieco  miroUo  , e replicògii  Ulisse: 

Dove,  Eurimaco,  tutte  ancor  mi  deste 
I/ercdità  vostre  paterne  , e multi 
Beni  stranieri  vi  poneste  accanto  , 

10  questa  man  uon  riterrei  dal  sangue. 

Che  la  vendetta  mia  piena  non  fosse.  8o 

Or,  qual  dtMue  vi  piacerà,  scegliete, 
Combattere , o fuggir  , se  pur  v'ha  fuga 
Per  un  solo  di  voi  : ciò  ch'io  non  credo. 

Ciascun  de'Proci  il  cor  dentro  mancarsi 
S*‘i)tì,  e piegarsi  le  ginocchia  sotto. 

Ed  Eurimaco  ad  essi:  Amici,  indurilo 
Sperate,  che  le  braccia  egli  non  muova. 

L’arco  una  volta  , ed  il  turcasso  assuuti , 
Diafrenerà  dal  limitare  i dardi  , 

Finché  tutti  ci  atterri.  Alla  battaglia  90 

Dunque  si  pensi  : distringiam  le  spade, 

E , delle  mense  alle  letali  frecce 
8cudo  facendo  a noi,  piumbiamgli  sopra 
Tutti  in  un  gruppo.  Se  da  quella  porta 
Scacciarlo  ne  riesce  , e la  cittade 
Scorrere  , alzando  al  ciel  subite  voci, 

Dal  saettar  si  rimarrà  per  sempre. 

Disse , e l’acuto  di  temprato  rame 
Brando  a due  tagli  strinse , e su  lui  corse 
Con  terribili  grida.  In  quella  Ulisse  , 100 

Votato  l’arco  , al  petto  il  colse  . e il  pronto 
Kel  fegato  gl'inlisse  acerbo  strale. 

Lasciò  Eurimaco  il  brando,  e dopo  alquanti 
Giri  curvato  su  la  mensa  cadde , 

H i cibi  riversarousi  e la  cop[>a. 

!Ma  ei  battè  sopra  la  terra  il  capo, 
iNell’alma  tapinandosi,  cd  il  seggio  , 

Che  già  premer  solea  , con  ambo  i piedi 
Forte  snringando  , scusse  : al  fine  uu'atra 
Tutto  il  coverse  sempiterna  notte.  1 10 

]VIa  d'altra  parte  Anfìnomo  avveotnssi 
Col  brando  in  man  contra  iVroe,  se  mai 
Dalla  soglia  diavellerlo  potesse. 

11  prevenne  Telemaco  , e da  tergo  ! 

Tra  le  spalle  il  feri  con  la  pungente 

Lancia  , che  fuor  gli  riuscì  dei  petto. 
QueU’infelice  rimbombò  caduto , 

E con  tutta  la  fronte  il  suol  percosse. 

Ma  il  garzon  soUraeasi , abUmdunando 
La  lancia  entro  d'Anhuomo  : tornea , l3  i 
Non  alcun  degli  Achei,  nienir’egli  chino 
Starìasi  Tasta  a scouticcare  intento  , 

Di  furto  il  martellasse  , o con  la  spada 
Sopra  mano  il  iensse  alla  scoperta. 

Quindi  ricovrò  ratto  , e in  un  baleno 
Al  curo  padre  fu  vicino,  e e lui, 

Padre,  disse  , uno  scudo  , e lance  due  , 

£ un  adatto  alle  tempie  elmo  lucente 
Ti'recherò  , m’ai  mero  io  stesso  , ed  armi 
A Filezio  darò , datò  ad  Enméo.  l5o 

De’coiisigli  il  miglior  sembrami  questo. 

Sì , corri  I Ulisse  gli  rispose  , e riedi , 

Finché  restano  a me  dardi  a difesa  : 

Ma  riedi  prestamente,  onde  gli  Achei 
Me.  che  son  solo  , non  ismuovan  quinci. 

Ubbidì  il  Hglio,  calla  superna  stanza  , 
Dove  Tarmi  giaceano,  andò  di  passo 
Lanciato , e targhe  quaiUu,  cd  otto  lance 


S E A 

Prese,  e quattro  lucenti  elmi  di  chioma 
Equina  folti , e in  brevi  istanti  al  caro  140 
Geni  tur  si  rendè.  Qui  del  metallo 
Munì  egli  primo  la  persona,  e i serri 
Tarimenti  le  belle  anni  vestirò , 

Ed  all’accxirto  eroe  stettero  intorno. 

Questi , finché  le  frecce  a lui  bastato, 

Togliea  la  mira  , ed  imbroccava  ognora, 

E cadeau  Tun  su  l’altro  i suoi  uemici. 

Ma  poiché  le  infallibili  saette 

Gli  fur  venute  meii  l’arco  ei  deposc , 

£ Tappoggiò  del  ben  fondato  albergo  iSo 
.4.1  nitido  parete.  Indi  le  spalle 
Si  carco  d'uno  scudo  a quattro  doppit  , 

L’elmo  dedaleo  con  IVquina  chioma 
Piaiitossi  in  capo  , e due  possenti  lance 
N'*lla  man  si  recò  ; sovra  la  testa 
Gii  ondeggiava  il  cimier  terribilmente. 

Era  in  capo  alla  sala , e nel  parete 
Del  ben  fondato  albergo  una  seconda 
Di  congiunte  assi  rinforzata  porta, 

Che  in  pubblico  mettea  non  largo  calle.  160 
Di  questa  , p‘*r  cui  .sol  s’apriva  un  passo  , 

Ulisse  volle  il  fido  Ruiuco  pt-r  guardia. 

Agelao  v'ebbe  l’occhio  , e disse  : Amici , 

Non  ci  sarà  chi  quella  porta  sforzi , 

£ sparga  voce,  e il  popolo  a romoro 
Levi , perchè  costui  cessi  dai  colpi  ? 

Ciò  , rispose  Melaitzio  , ad  alcun  patto 
Non  possiamo,  Agelao  di  Giove  alunno. 

Le  porte  del  cortil  troppo  vicine 

Sono , ed  angusta  è quell'uscita,  e un  solo, 

Cui  non  manchi  valor,  cento  respinge. 

Pur  non  temete,  lo  porterò  a voi  Tarmi 
Dalla  stanza  superna  , in  cui  riposte 
Da  Ulisse  e dal  iigliuol  senz’altro  luro. 

Detto , andar  su  e giù  per  Taita  scala  , 

Entrar  , pigliar  duiiici  targhe  , e bmee 
Tante,  e lauti  criniti  elmi,  ed  il  tutto 
Mettere  in  man  de’palpitanti  Proci, 

Fu  di  pochi  momenti  opra  felice. 

Turbar  l'animo  Ulisse  e le  ginocchia  180 
Languir  sentì , ratto  che  ai  Proci  vide 
Prender  gli  elmi , e gli  scudi , e le  lunghe  asta 
Ir  con  la  destra  palleggiando  *,  e allora 
L’arduo  conobbi)»  dell'assuuta  impresa. 

.Si  converse  al  (igiiuol  tosto , e Telemaco, 

; Con  dolenti  gli  disse  alate  voci  , 

Certo  il  caprajo  , o delle  donne  alcuna  , 
Raccende  contra  noi  quest'aspra  guerra. 

E Telemaco  a lui , Padre  , rispose  , 

Io  sol  peccai,  non  altri  , io,  che  la  salda  190 
Porta  lasciai  iiirzzo  tra  chiusa  e aperta. 

Ed  un  esplurrilur  di  me  più  astuto 
vSi  giovò  iiitanto  del  mio  fallo.  Or  vanne 
fu  , prode  Euinéo , chiudi  la  porta  , e sappi, 
Se  ciò  vieti  da  uiTanceila . o dalla  trista  , 

Come  parmi  più  ver  , di  Dolio  prole. 

Mentre  tali  correaii  voci  tra  loro  , 

Melaiizio  per  le  belle  armi  di  nuovo 
Salse.  AducchioUo  Kuméo  ; né  a dir  tardava 
Così  ad  Uiis-^e  , che  lontan  non  gli  era:  200 

Laerziude  diviii,  quella  rea  peste, 

Di  cui  noi  sospeitiam  , sale  di  nuovo. 

Pdriami  chiaro  ; degg’io  porlo  a morte, 

Se  sopra  ^ 0 qua  coiidurlo , 


'.OOglc 


LIBRO  VENTE 

r^rchè  a te  innanzi  d’ogni  suo  delitto 
Mt*ntamrnte  il  fio  paghi  una  volta  ? 

E il  Ulisse:  A sostenere  i Proci, 

Come  che  ardenti , io  coi  mio  figlio  basto. 
Filezio  dunque  , e tu  , poichiV  l’avrete 
Entro  la  AtAiiza  rovesciato  a terra,  aio 

Ambo  i piedi  stringetegli , e le  mani 
•Sul  tergo,  chiusa  dietro  a voi  la  porta  ; 

£ lui  d una  insolubile  catena 

Cinto  tirate  sino  all’alte  travi 

Lungo  una  gran  colonna,  acciocché  il  tutto 

Sconti  con  morte  dolorosa  e lunga. 

Pronti  i fervi  ubbidirò.  Alla  sublime  * 
Camera  s’afVrcttar  , da  lui  , che  dt'ntro 
/£ra  , e cercava  nel  più  interno  l’arme, 

'Afon  visti  e mm  s**ntiti  \ e si  piantaro  220 
Quinci  e quindi  alla  porta.  £1  per  la  soglia 
Passava  rat'o,  in  una  man  portando 
Luminosa  celata  , ed  un  vetusto 
A^ell’altra  , e largo  e arruginito  sctido. 

Che  gli  omeri  gra\ò  del  buon  I«aerte 
Sul  primo  lìor  dell’età  sua  : deposta 
Poscia  , e dimenticato  , e da  cui  rotte 
Le  corregge  pendevano.  Veloci 
L’assaltar  , l’ahbrandìr,  lo  strascinerò 
Lentro  pel  ciulFo  , e l’atlerràr  dolente  : i5o 

Indi  ambo  i piedi  gli  legaru  , ed  ambo 
Sovra  il  tergo  le  man  , qual  di  Laerte 
Comandò  il  figlio  ; e lui  d’una  catena 
Insolubile  cinto  in  sino  alTalte 
’fravi  tirar  lungo  una  gran  colonna. 

£ cosi  allor  tu  il  deridesti,  Knméo  : 

Helanzio  , or  certo  vegghierai  la  notte 
Sul  letto  molle  , come  a te  s’addico  , 

Corcato  i nè  uscirà  dalle  correnti 
LeirOceàn,  che  tu  non  la  vagheggi , 

L’Aurora  in  trono  d’or,  quando  le  pingui 
Capre  alla  mensa  condurrai  de’Proci. 

Tal  fu  Melanzit»  fra  legami  acerbi 
Sospeso , c abb  mdonato  ; e quei  con  l’arme 
Sceser,  la  porta  risplendendc  chiuda  ; 

£ presso  al  ricco  di  consigli  Ulisse  , 

Forza  spiranti  e ardire,  il  piè  l'ermaro. 

Così  quattro  guerrieri  in  su  la  soglia 
Brano  ; e nella  sala  un  numeroso 
PrappeUo,  c non  ignobile.  Ma  Palla,  25o 
J.’nrjnipotcnte  del  Saturnio  figlia, 

Con  la  l'accia  di  JUeatore  , e la  voce, 

Tra  le  due  parti  d'improvviso  apparve. 

Gioì  a vederla  il  I.aerdale  , e disse  : 

^fentore  , nii  seconda  , e tì  rammenta 
Del  tuo  dolce  compagno  , onde  a IrHÌarti 
Non  raro  avesti , e a cui  sei  d’armi  eguale. 
Coaì  l'eroe  : ma  non  gli  tace  il  core , 

Che  la  sua  Diva  in  Mentore  s’afconde. 

Dall’altra  parte  la  garrìano  i Proci , 260 

E primo  il  Damastoride  Agelao 
A minacciarla  fu  : Mentore,  bada  , 

Che  a pugnare  in  suo  prò  cuiitra  gli  Achivi 
Non  ti  seduca  favellando  Ulisse. 

Però  che  quando  per  man  nostra  ucci.si 
Giaceraii , come  ho  fede  , il  padre  c il  figlio  , 
Morrai  tu  ancora , e il  sangue  tuo  darai 
Per  CIÒ  che  oprar  nella  magione  or  pensi. 

Che  più  ? Te  latto  cenere  , co’b  mi 
D'Uiis>e  in  monte  andià  quant’or  possiedi  270 
OU1SSE4 


S I M O S E C O N D O.  ii5 

Nel  tuo  palagio  e fuor  ; nè  a figli , 0 a figlie 
jtfenare  i dì  sotto  il  iiat'io  lor  tetto. 
CÀmsentirem  , nè  alla  tua  casta  donna 
D’Itaca  soggiornar  nella  cit'ade. 

Vie  più  a’accende  a cosi  fatte  voci 
r/lru  (lì  Palla,  ed  in  rimbrotti  scoppia 
Contra  Ulisse  lanciati  : io  nulla  , Ulisse  , 

Di  quel  fermo  vigor,  nulla  più  veggio 
Di  quel  ardire  in  te,  che  allor  mostrasti  , 

Che  innanzi  a Troja  per  le  bianche  braccia  280 
Della  nata  di  Giove  inclita  K'éna 
Combattesti  un  decennio.  Entro  il  lor  sangue 
Molti  stendesti  de’nemici , e prima 
S’ascrive  a te,  se  la  datl’ampie  strade 
Città  di  Priamo  in  cenere  fu  vòlta. 

Ed  or  , che  giunto  alle  ^laterne  case 
Ea  tua  donna  dilcndi  e 1 beni  tuoi , 
Mollemente  t’adopri?  Orsù,  vicino 
Sfammi , ed  osserva  , quale  il  figlio  d’Alcimo, 
Mentore  , fra  una  genie  a te  nemica  2<jo 
De’b'*ncnclÌ  tuoi  mertv  rende. 

Tal  favellava  : ma  perchè  i’mnata 
Virtù  del  padre  e del  figlìuol  volca 
Provare  ancor , per  alcun  tempo  incerta 
La  vittoria  lasciò  tra  loro  e 1 Proci. 

Quindi,  montando  rnphla  , su  trave 
Lucido  ed  alto  , a rimirar  la  pugna  , 

Di  rondine  in  sembianza  , ella  a’assise. 

Frattanto  il  Damastoride  Agelao, 
Aniimedoiite  , Eurinomo,  e il  prudente  3oo 
Polibo  , e Jlernoplolcmo  , e Pisandro  , 

Di  Polittore  il  figlio  , alla  coorte 

Spirti  aggiungean  ,,come  color  , che  i primi 

Eraiidi  forza  tra  1 rimasti  in  piede, 

K l’alma  difemlean:  gli  altiì  avea  domi 
L’arco  famoso  e le  frequenti  trecce. 

Parlò  a tutti  Ageluo  : Compagni , io  penso 
Che  le  imioniite  nicin  frenare  mi  tratto 
Costui  dovrà.  Già  Mentore  disparvo 
Dopo  il  bravar  suo  vano , e su  la  soglia  3io 
Quattro  sono  , e non  più.  Voi  non  lanciato 
Tutti,  io  ven  prlego  , unitamente:  sei 
Aste  volino  in  jirirnaì  e il  vanto  Giove 
Di  colpire  in  Ulis.se  a noi  conceda. 

Caduto  lui  , nulla  del  resto  io  curo. 

Set  , com’egli  bramava  , aste  volaro  | 

E tutte  andar  1<*  feo  Pallade  a vóto. 

L’un  de’pungenti  frassini  la  porta 
Percosse  , un  altro  su  la  soglia  cadde  5 
Bri  un  terzo  investì  nella  parete.  3lO 

Scansati  i colpi , di  Laerte  il  figlio , 

X-tnici , disse  , nello  stuol  de’Pr<»ri  , 

Che  , non  contenti  alle  passate  offese  , 
ideila  vita  .spogliar  voglioiici  ancora  , 
lo  crederei  che  saettar  si  debba. 

Ciascun  la  mira  di  rincontro  tolse, 

E trasse  d’nna  lancia.  11  divo  Ulisse 
Dciiioptoleiiio  uccise  , e scagliò  morte 
TeietiiHcu  ad  Euriade  , a Eiato  Euméo  , 

Ed  a Pisandro  il  biit)n  I'il»*zìo  : tutti  33o 
Del  pavimento  morselo  la  polve. 

Gii  altri  nel  fondo  della  sala  il  piede 
firaro  indietro  : Ulisse  e i tre  compagni 
Corsero  , sveUer  dagli  estinti  Paste, 

Allor  laiiciaru  nuovuinente  i Ptoci 
Di  tutta  forza  , e tutti  quasi  i colpi 


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Ili  ODI 

Nuoramfnte  sviò  Pallade  amica. 

I. a  gran  soglia , la  porta  e la  parete 

3.i  ricevette,  o li  respinse  : solo 
AivTnnedonte  tanto  o ijiiaiito  lese  5io 

3^a  destra  di  Telemaco  md  polso, 

K appena  ne  graOIò  la  somma  rute: 

!•)  la  iung'asta  di  Ctesippo,  a Kaméo 
Lo  scudo  rasentando,  e lievemente 
Solcandogli  la  spalla,  il  suo  tenore 
Segui , e ricadde  sovra  il  palco  morta. 

Ma  non  cosi  dalPaltra  parte  spinte 
Tur  contra  i Proci  le  pungenti  travi. 

Quella  del  distruttor  de’niuri  Ulisse 
Fulminò  Buridamante  , Anlimedonte  35o 

Per  quella  giacque  del  suo  figlio  : Euméo 
Scontrò  con  la  sua  Polibo,  e Filczio 
Ctesippo  col-e  con  la  sua  nel  petto, 

K su  lui  stette  alteramente , e disse  i 
Politcrside  , degli  oltraggi  amante  , 

Cessa  dal  secondar  la  tua  staltvzza  , 

Con  vana  pompa  favellando  , e ai  Numi 
Cedi , che  dì  te  son  midio  pm  forti. 

Questo  è il  dono  ospitai  dì  quello  in  merto  , 
Che  al  nostro  re  , clie  mendicava  , lesti.  56o 
Alla  zampa  dei  bue  l'asta  risptt^e. 

Così  d’ITlisse  Parmentario  illustre. 

In  questo  mezzo  dì  Laerte  il  figlio 
Conquise  il  Daniastoride  da  presso 
Di  profonda  ferita  ; e a Le<icriio 
Telemaco  piantò  nel  ventre  il  telo  , 

Cile  delle  reni  fuor  gli  ricomparve. 

J. ’Rvenoi  ide  stramazzò  boccone  , 

.IC  la  terra  battè  con  tutto  il  fronte. 

Pallade  allor  . che  rivestì  la  Diva  , 370 

Alto  levò  dalla  .sofiìtta  eccelsa 
La  funesta  ai  mortali  Egida  , e infuse 
Ne'sufierstiti  Proci  immensa  tema. 

Snitavan  qua  là  , come  le  agresti 
Madri  talvolta  del  cornuto  armento, 

.Se  allo  scaldarsi  ed  allungar  de’giornì , 

Le  punge  il  fiero  assdlo,  e le  scompiglia. 

Ma  in  quella  guisa  che  avoUorr  il  rostro 
Jtìcurvi , e Puiigliia  , piombano  , calando 
Dalla  montagna  , su  i minori  angtdli , 58 

Clic  trepidi  vurriaiio  ir  vèr  le  nubi  ; 

E quei  su  lor  ripiombano  , e ne  fanno , 
Quando  difesa  non  rimane  , o scampo, 
strazio  e rapina  del  villano  agli  occhi , 

Che  di  tale  spettacolo  si  ||)asce  : 

Non  altrimenti  Ulisse  e 1 tre  compagni 
Sì  scaglìavau  su  i Proci , e tale  strage 
Ne  men&vaii , che  fronte  ornai  non  vVra , 

Clic  non  à’aprìsse  sotto  i gran  fendenti; 

E un  gemer  tetro  alzavasi , e di  nero  3^  1 
Sangue  ondeggiava  il  pariinento  tutto. 

Leode  le  ginocchia  a prender  corse 
D**l  tiglniol  di  Laerte  , e in  supplice  atto 
fili  drizzò  tali  accenti  : Eccomi,  Ulisse, 

Alle  ginocchia  tue  , che  di  t»*  imploro 
Gli  sgnartli  e la  pietade.  to  tl?lb*  donne 
In  fatto  o in  detto  non  uH'esi  alcuna  : 

Anzi  gli  altri  alle  sozze  opre  rivolti 
Di  ritenere  io  fea.  Non  m'obbcdiro  : 

Ferò  una  morte  subitana  e acerba  4*'*' 

Delle  sozze  opre  lor  in  la  merrede. 

Ma  io  , io , clic  indovin  tra  i Proci  vissi , 


S S E A 

Io,  che  nulla  commisi  unqua  di  male; 

Qui  spento  giacerò  degli  altri  al  paro  ? 

È questo  il  pregia , che  a virtù  si  serba  ? 

E Ulisse , torvi  in  lui  gli  occhi  fissando  : 
Poiché  tra  i Proci  indovinar  ti  piacque  ; 
Snesso  chiedesti  nel  palagio  ai  Numi , 

Che  del  ritorno  il  dì  non  mi  splendesse  ; 

Che  te  segui:sse,  e procreasse  figli  410 

I.a  mia  consorte  a te  : quindi  e tu  al  grave 
Sonno  perpetuo  chiuderai  le  ciglia. 

Così  dicendo  , con  la  man  gagliarda 
Dal  suol  raccolse  la  taglienre  spada  , 

Che  Agelao  su  la  morte  avea  perduta  ; 

E di  percossa  tal  diede  al  profeta 

Pel  collo , che  di  lui , che  ancor  parlava  , 

ilotoló  nella  polvere  la  testa. 

Ma  di  Terpio  il  figliuol , ^Ìnclito  Femio , 
Che  tra  i Proci  sciogliea  per  forza  il  canto,  420 
Morte  schivò.  Della  seconda  porla 
Con  la  sonante  m man  cetra  d'argento 
Vicino  crasi  fatto , e io  due  pensieri 
Dividea  la  sua  mente  : o fuori  uscito 
Sedersi  alPara  del  gran  Giove  Ercéo  , 

Dove  Laerte  e il  suo  diletto  figlio 
Molte  s*dean  bruciar  cosce  taurine  ; 

O ad  Ulisse  prostrarsi , e le  gìnoccliia 
Stringergli , c supplicarlo  ; e delle  due 
Questa  gii  parve  la  miglior  sentenza.  4^® 
Prima  tra  una  capace  urna  , e un  distinto 
D’argentei  chiovi  travagliato  seggio 
Depose  a terra  l'incavata  cetra  : 

Poi  vèr  l'eroe  si  mosse  , e le  ginocchia 
Sfringeagli , e gli  dicea  con  voci  alate  : 

Ulisse  , ascolta  queste  mie  preghiere  , 

K di  Femio  pietà  l'alma  ti  punga. 

Doglia  tu  stesso  indi  ne  avrai , se  uccidi 
Uom  che  agli  uomini  cauta , ed  agli  Dei. 

Dotto  io  50U  da  me  sedo , e non  già  l'arte,  44® 
Ma  un  Di<»  mi  seminò  canti  infiniti 
Wll'intelletto.  Gioirai , qual  Nume  , 

D Ila  mia  voce  al  suono.  £ tu  la  mano 
Insanguinar  ti  vuoi  nel  corpo  mio? 

Xe  domanda  Telemaco  , il  tuo  dolce 
Figlio  , ed  pì  ti  dirà  , die  nè  vaghezza 
Di  plauso  mai , nè  sc.arsità  di  vitto  , 
fra  i Proci  alteri  a musicar  m’indusse. 

Ma  co'  molti , co'  giovani,  co*  forti , 

Uom  che  potea  debile  , vecchio  e solo  ? 4.S0 

Tal  favellava  , c la  sacrata  possa 
Dì  Telemaco  udillo  , e ratto  al  padre  , 

Ohe  non  gii  era  luntan  , T’arresta  , disse  , 

F di  questo  innocente  i dì  rispetta. 

Medonte  ancor  , che  de’  miei  giorni  primi 
Cura  prendea  , noi  serberemo  in  vita  : 

Sol  cli’ei  non  sia  per  man  d’nn  de’  pastori 
Caduto  , o in  te  dato  non  abbia  , mentre 
Ter  la  sala  menavi  in  furia  i colpi. 

L’udì  Medonte  , il  banditor  solerte  , 

Ohe  sdraiato  giacca  sotto  un  sedile, 

E , l'atro  fato  declinando,  s’era 
D’una  fresca  di  bue  pelle  coverto. 

Surse  da  sotto  il  seggio , e il  bovìn  riiojo 
Svestissi  , e andò  a Telemaco  , e , gittate 
V'stioi  ginocchi  ambe  le  braccia  , Caro  , 
Gridava  , eccomi  qua  : salvami  , e al  p.«dre 
Di’ , che  irato  co*  Proci  , onde  scemati 


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1 1.) 


LIBRO  VENTE 

Gli  erano  ì beni , e vilipeso  il  figlio , 470 

Aon  b^iiianpri  in  me  ancora  , e noti  m’uccidu. 

Sorrise  Ulisse ^ e a lui , Sla  di  buon  core. 
Già  di  rischio  Telemaco  ti  trasse, 

K in  salvo  pose  , acciocché  sappi , e il  narri  p 
(^Inatito  più  dei  iar  male  il  ben  far  torna. 

Tu  , araldo,  intanto  , e tu  , vate  immortale, 
Fuor  del  palagio  e della  strage  usciti, 

Sedete  nei  cortil , fiiichMo  di  dentro 
Tutta  l'impresa  mia  conduco  a riva. 

Tacijuci  ed  uscirò,  e appo  Taltar  del  sommo 
(»tove  srdeaii , guardandosi  all'intorno , 480 

<^)ual  se  ad  ogni  momento,  e in-  ogni  loco  , 
Ùovessc  ior  sopravvenir  la  Parca. 

Lo  sguardo  allora  per  la  ca>a  in  giro 
L’eroe  mandò,  se  mai  dc'Proct  alcuno 
Fuggito  avesse  «Iella  morte  il  lato. 

Aon  rimanea  di  tanti  un  che  nel  sangue 
Steso  non  fosse,  e nella  polve.  Come 
Gli  abitatori  del  canuto  mare  , 

Che  il  pescator  con  rete  a molti  vani  . 

Su  dali'ouda  tiro  nel  curvo  lido,  4^0 

Giacr  ioii , bramando  le  native  spume , 

]*er  l'arena  odiata  , e loro  il  Sole 
Con  gl'iuBainniati  rai  le  anime  tura  : 

Co&ì  giaceaii  l'un  presso  l’altro  i Proci. 

Subitamente  Ulisse  in  questa  torma 
Si  converse  a Telemaco  : Telemaco, 

J.a  nutrice  Euricléa , su  via  , mi  chiama  , 

Ciò  per  udir  ; che  a me  di  dirle  è in  grado. 

Ubbidì  egli , e incaminossi , e , dato 
ITurto  alla  porta,  O d’anni  carca  , disse,  600 
Sorgi , Euricléa  , che  nella  nostra  c.a.sa 
Vegli  sovra  le  ancelle.  Il  padre  imo, 

Che  desia  favellarti , a se  ti  vuole. 

Aon  seti  portava  le  parole  il  vento. 

Apiì  Euricléa  le  porte  , e in  via  con  lui , 

Che  precedeala , entrò  veloce  , e brutto 
l)ì  polve  tra  i cadaveri , e di  sangue 
Ulisse  riirovò.  Qual  par  leone. 

Che  vien  da  divorar  nel  campo  un  toro, 

E il  vasto  petto  , e l’una  guancia  e l'altra  610 
Ae  riporta  cruenta  , e dalle  giglia 
Spira  terror  : tale  insozzati  Ulisse 
Jlìostrava  i piedi , e delle  mani  i dossi. 

Quella  , come  i cadaveri  ed  il  mollo 
Sangue  mirò,  volle  gridar  di  ginja 
A spettacolo  tal  : ma  ei  frenolla  , 
jlenchè  anelante  , e con  parole  alate. 

Godi  dentro  dì  te  , disse  , ma  in  voci , 

Vecchia , non  dar  di  giubbilo  ; che  vampo 
Menar  non  lice  sovra  gente  uccisa.  620 

Questi  domò  il  destino  , e morte  a loro 
Le  stesse  lor  malvagi  tadi  furo  : 

Quando  non  rispettaro  alcun  giammai , 

Buon  fosse,  o reo,  che  in  Itaca  giungesse* 
Uuncjue  a dritto  perirò.  Or  tu  nutrice, 
Ui'delle  donne  a me,  quai  nel  palagio 
Son  macchiate  di  culpa,  e quali  intatte. 

K la  diletta  a lui  vecchia  Euricléa  : 

Figliuol , da  me  tu  non  avrai  che  il  vero. 
Cinquanta  chiude  il  tuo  palagio,  a cui  53o 
Le  lane  pettinar  , tesser  le  tele  , 

K sostener  con  animo  tranquillo 
La  servitute,  io  stessa  un  giorno  appresi. 
Dodici  tra  costor  tutta  spogliare 


S 1 M O S E C O A D O. 

I. a  verecondia,  e , non  < he  me  , la  stesfa 
Uispiegiaro  Penelopi*.  Non  eri 
Troppo  innau^i  venuti»  aiicoi  negli  anni 
Il  figlio  tuo  , nè  su  le  donne  alciiiiu 
Gli  couseiilia  la  saggia  madre  ini|)ero. 

Ma  che  fo  io,  rlie  alle  lucenti  stanze  640 

Non  salgo  di  Penelope,, che  giace 

Da  un  Dio  sepolta  in  un  proloudo  .sonno? 

Aon  la  di*siare  ancor,  rispose  Ulisse: 

Bensì  alle  donne,  il  cui  peccar  t’è  noto  , 

Che  a me  si  rappiesentiuo , dirai. 

La  balia  senza  indugio  a invitar  mosse 
Le  peccatrici , e ad  esortarle  tutte , 

Che  si  rapprvsentas.sero  alTeroe. 

E intanto  egli , Telemaco  a se  avuto  , 

E il  custode  de’verri , e quel  de’loi  i , 65  j 

Tai  paiole  lor  feo  : Le  morte  saline 
Più  non  si  tardi  a trasportare  altrove  , 

E delTiniide  ancelle  opra  sia  questa. 

Poi  con  l'acqua,  c le  spugne  a molte  bocche 
J bei  sedili  tergeransi  e i deschi. 

Tutta  rimessa  la  magione  in  punto, 

J. e  ancelle  ne  trarrete  , e poste  in  mezzo 
Tra  la  picciola  torre,  ed  il  superbo 
Kecinlo  del  cortil , Unto  cohunghi 

Le  Cercherete  feritori  brandi , òGo 

Che  si  tlìsciolgu  dai  lor  empi  l'alma  , 

E dalle  menti  lor  fugga  l’iiiimomla 
Venere  , onde  s'unìaii  di  furto  ai  Proci. 

Ciò  detto  appena  , ecco  venire  a un  corpo 
Le  grame,  sollevando  alti  lamenti , 

K lina  pi«>ggin  <1>  lagrime  versando. 

Pria  trasportar  gTinaiiiniati  corpi. 

Che  del  cortile,  aitandosi  a vicenda  , 

Sotto  alla  loggia  collocaro.  Instava 
Co’suoi  comandi  Ulisse  ^ e quelle  il  tristo  5;o 
IVIinisturo  compiean  , beiichc  a ma!  cuore. 

Poi  con  l’ac(|ua  , e le  spugne  a molle  bocche, 

I bei  sedili  si  tergeano  e 1 deschi. 

Ma  Telemaco  , e seco  i due  pastori 
Con  rigide  scorrean  pungenti  .s«'ope 
Sul  pavimento  del  ben  fatto  albergo  ^ 

E la  bruttura  ruccogliean  le  aflliUe 
Donne,  e fuoiì  recavarila.  Aè  prima 
Rimesso  fu  la  niagioii  tutta  in  punto  , 

Che  fra  la  torre  eil  il  recinto  poste  58o 

Le  malvage  si  videro , e in  tal  guisa 
Serrate  là  , che  del  fuggir  nulla  era. 

E Telemaco  : lo  , im,  con  morte  onesta 
Aon  tori  ò l'alma  da  coleste  donne  , 

Che  a me  sui  cupo,  ed  alla  madre  , .schernì 
Versaro  j e che  s'unìan  d’ainor  co’Proci. 

Disse  ; e di  nave  alla  cerulea  prora 
Canape  , che  partìa  da  un  gran  pilastro  , 

Gittò  alla  torre  a tale  altezza  intorno  , 

I Che  le  ancelle,  per  cui  gittarlo  piacque,  5i)o 
Aon  potesser  del  piè  toccar  la  terra. 

B come  incontra , che  o colombe  , o tordo  , 
Che  il  verde  chiuso  d’una  selva  entraro, 

Van  con  ali  spiegate  a dar  di  petto 
Nelle  pendole  reti , uv«?  ciascuna 
Trova  un  letto  forai  : tali  a mirarle 
Eran  le  donne  con  le  teste  in  fila, 

E con  avvinto  ad  ogni  colli»  un  laccio  , 

Di  morte  infelicissima  strumento. 

Cuizzau  co'piedi  alquanto,  e più  non  sono  6 


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ODISSEA 


ai6 

Telemaco  indi , e i due  pastori  seco  » 

Nella  corte  per  l'atrio  il  mal  capraju 
Conduceaii  : recidean^li  orecchie  e nari, 

£ i genitali , da  buUarai  crudi 
Ai  can  voraci , gli  svellt-ano  , e i piedi 
>loz2avangli , e le  man  ^ tanta  i'u  l’ira. 

Punito  al  line  ogni  mistatto,  e mani 
Con  pura  onda  di  tonte  , e piè  lavati , 
llitorno  ter  nella  magione  a Ulisse. 

Questi  allor  tai  parole  alla  diletta  610 
Nutrice  rivolgea  : rortami , o vecchia  , 

]1  ^oltu  salutitero  ed  il  Cuoco  , 

Perchè  l^ulbergo  vaporare  io  possa. 

E Penelope  a me  con  le  tVdeli 

Sue  donne  venga } e tu  l'altre  per  casa 

Femmine  tutte  a qua  venir  conl'orta. 

£d  ella  : Figlio  mio  , quanto  dicesti , 
lo  lodo  assai.  Ma  non  vuoi  tu  , che  prima 
Manto  a coprirti , e tunica , io  ti  rechi  ? 


Indegno  fora  con  tal  cenci  indosso  Già 

Nel  tuo  palagio  rimaner  più  a lungo. 

Prima  il  zolfo  ed  il  fuoco  , ad  Kuricléa 
Rispose  il  pien  d’accorgimenti  eroe. 

La  nutrice,  ubbidendo,  il  sacro  zolfo 
Portógli,  e il  fuoco,  prestamente*,  e Ulisse 
La  sala  , ed  il  vestibolo  , e il  cortile 
Più  volte  vaporò.  Salì  frattanto 
Colei  le  ancelle  a confortar  , che  franche 
Vedere  ornai  si  Ressero.  Le  ancelle 
Delle  camere  uscirò,  in  man  tenendo  63o 
Lucide  faci  : poscia  intorno  a lui 
Si  spargeano , e abbracciavanlo  , ed  il  capo 
Baciavangii , stringendolo , e le  spalle , 

£ PalFerravan  nelle  mani.  Ulisse 
Tutte  le  riconobbe  ad  una  ad  una 
Nel  consapevoi  petto  , e un  dolce  il  presa 
Di  sospiri  e di  lagrime  desio. 


LIBRO  V E jN  T E S I M 0 T E R Z 0 


ARGOMENTO 

Euridra  corre  a destar  Pcncli>pe , c a farle  sapere  die  URmc  è giuiitu , cil  Iia  uccisi  i Proci.  Peoelupe  Imita 
la  vi-cchta  da  folle,  e attribuisce  la  uccisione  de’Pr«Jci  a uu  Dìo,  parendole,  che  un  uomo  non  potesse  gmaj^cre 
a tanto.  Tutl.'tvia  s<^«ndc , ma  tiensi  lontana  da  UUssc  cui  uoo  r.ivvisa.  Sdegno  di  Telemaco  amtra  la  luadro  , 
che  si  giuslifìca.  Ulisse  cuiuanda  una  festa  d.a  ballo  , |)crdtè  i vicini  credano  che  la  regina  sia  pssata  a novelle 
sozae  , c resti  occulta,  frattanto  la  morte  de'Prod.  Poi,  entrato  od  bigio,  e rcstituìhigli  da  Minerva  rantica 
sembianza  , si  presenta  di  nuovo  a Penelope,  die  mm  vuol  riconoscerlo  ancora.  Finalmente,  uditolo  ella  parlare 
del  cunjugalc  lur  letto,  di  cui  altri  non  potea  aver  contezza,  dc|Nme  lutti  isuoidubhiì,  e alla  gi«>ja  abluadonasi, 
ed  aU'aiiiore.  Minerva  prolunga  la  notte.  Ragionamenti  di  Pencit^K;  e Ulisse.  SiirU  l'Aurora  , <^iì  levasi  c va 
col  figlio  e co'due  [ustori  a trovar  Laerte,  [ussundo  [«1  la  città  iu  una  nube,  di  cui  gli  avvolse,  per  occultarli, 
la  Dea. 


XjA  buona  vecchia  gongolando  ascese 
Nelle  stanze  superne , alla  padrona 
Ter  nunziar  , ch’era  Ì1  marito  in  casa. 

Non  le  tremavan  più  gì’invigoriti 
Ginocchi  sotto [ ed  ella  a salti  giva. 

Quindi  le  stette  sovra  il  capo,  e,  Sorgi  » 

3^isse  , Penelopéa  , figlia  diletta  , 

Se  il  desìo  rimirar  de’gìorni  tutti 
Vuoi  co’proprii  occhi.  Ulisse  venne  , Ulisse 
Nel  suo  palagio  entrò  dopo  anni  tanti , 10 

£ I Proci  teinerarii , onde  turbata 
La  ca.sa  t’era  , consumati  ì beni , 

Molestato  il  figliuol  ; ruppe  e disperse. 

E Penelo[>e  a lei  i Cara  nutrice, 

Gl’Jddii , die  fanno , come  lor  talenta , 

Del  folle  un  saggio,  e dei  più  saggio  un  folle, 
J.a  ragion  tì  travolsero.  Guastaro 
Cutesta  mente;  che  fu  sempre  intégra. 

Senza  dubbio  glTddiì.  Perchè  ti  prendi 
Gioco  di  me , cui  sì  gran  doglia  preme,  20 
Favole  raccontandomi,  e mi  scuoti 
J)a  un  sonno  dolce,  che  abbracciate  e strette 
Le  mie  tenea  care  palpebre?  Io  mai, 

Dacché  Ulisse,  levò  nel  mar  le  vele 
Per  la  malvagia  innorninanda  Truja  , 

Così , no , non  dormii.  Su  via  , discendi , 

Dalia  , e ritorna,  onde  movesti , e sappi, 

Che  se  tali  novelle  altra  mi  fosse 


Delle  mie  donne  ad  arrecar  venuta , 

E me  dal  sonno  scossa,  io  rimandata  5o 

Tostamente  Pavrei  con  modi  acerbi  : 

Ma  giovi  a le  , che  quel  tuo  crin  sia  bianco. 

Diletta  figlia  , ripigliò  la  vecchia  , 

Io  per  te  gioco  non  mi  prendo.  Ulisse 
Capitò  veramente , ed  il  suo  tetto 
Rivide  al  fin  ; quel  forestier  da  tutti 
Svillaneggiato  nella  .sala  è Ulisse, 

Telemaco  il  sapea  : ma  scoriamente 
I paterni  consigli  in  se  celava  , 

Delle  vendette  a preparar  lo  scoppio.  40 

Giubbilò  allor  Penelope , e , di  letto 
Sbalzata  , al  seno  s’accosto  la  vecchia  , 
La.sciando  ir  giù  le  lagrime  dagli  occhi , 

E con  parole  alate,  Ah  ! non  volermi, 

Balia  cara,  deludere  , rispose. 

S’ci,  come  narri , in  sua  magione  alberga, 

Di  qual  guisa  ]K>lè  solo  agli  audaci 
Drudi , che  in  folla  rimarieanvi  sempre , 

Le  ultrìci  far  sentir  mani  omicide? 

Io  noi  vidi , nè  il  so  , colei  riprese  : 5 j 

Solo  il  gemer  di  (|uei , ch’eran  trafitti , 
L’orecchio  mi  feria.  Noi  delle  belle 
Stanze,  onde  aprir  non  potevam  le  porte , 

Nel  tondo  sedevam  turbate  il  core; 

Ed  ecco  a me  Telemaco  mandato 
Dal  geiiitor  , che  mi  volea.  Trovai 


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LIBRO  VE  N TE  S IMOSECONDO. 


Ulisse  in  piè  tra  i debellati  Eroci 
Che  gìacean  Euii  su  Taltro  , il  pavimento 
Tutto  ingombrando.  Olt  come  ratto  in  gioja 
La  tua  lunga  tristezza  avresti  volto,  6o 

Se  (li  polve  e di  sangue  asperso  e brutto  ^ 

Qual  feroce  leon  , visto  l'avessi! 

Or  del  palagio  fuor  tutti  in  un  monte 
Stannosi  j ed  ci  con  solforati  fuochi , 

Li , che  a te  m'invi(i  nutizia  fedele , 
nobile  niagion  pur^a  e risana. 

Seguimi  adurupie  ; c uopo  tanti  mali 
Ambo  schiudete  alla  letizia  il  coro. 

Già  (luestu  lungo  desiderio  antico  » 

Clic  (listruggcati , cessa  : Lli-^sse  vivo  70 

Venne  al  suo  locolare  , e nel  palagio 
Trovò  la  sposa  e il  figlio  , e di  coloro. 

Che  gli  noceano  , vendicossi  a pieno. 

Tanto  non  esultar,  non  trionfare, 

Nutrire  mia  , Penelope  soggiunse, 

Perchè  t'è  noto , (]uaiitu  caro  a tutti , 

E sovra  tutti  a me  caro,  e al  cresciuto 
Suo  figlio  , c mio  , capiterebbe  Ulisse. 

Ma  tu  il  ver  non  |Utrla.>tÌ.  Un  Nume  , un  Nume 
Pu  , che  dcll'opre  ingiuste  , e de’superbi  So 
Scherni  indrguato  , mandò  all'Orco  i Proci , 
Che  dispregiavan  sempre  ogni  novello 
Siranier,  buon  fosse  , o reo  : quindi  perirò. 

Ma  Ulisse  lungi  dall'.4raica  terra 
Il  ritorno  pcnlè , |>erdè  la  vita. 

Dell  quale , o figlia,  ti  sfuggì  parola 
Italia  chiostra  de  denti  ? a lei  la  vecchia* 

11  ritorno  perdè  , perde  la  vila  , 

)Uentre  in  dua  casa , e al  focolar  suo  sacro 
Dimora?  Il  veggio:  chiuderai  nel  petto  90 
Un  incredulo  cor,  finché  vivrai. 

Se  non  che  un  segno  maniiesto  in  prova 
Ti  recherò:  la  cic4ilrice  on»sta 
Della  piaga  , die  in  lui  di  guerreggiato 
Cinghiai  fercKe  il  bianco  dente  impresse. 

Quello  , i piedi  lavandogli , io  conobbi , 

Pi  volea  palesartela  ; ma  egli , 

Con  le  mani  ailèrrandomi ella  bocca, 
D'accortezza  maestro,  il  mi  vietava. 

Seguimi , io  dico.  Picco  me  smessa  io  metto  100 
Nelle  lue  forze  : s’io  t'avrò  delusa  , 

La  morte  più  crudel  fammi  morire. 

E di  nuovo  Penelope;  Nutrice, 

Chi  le  vie  degli  Dei  conoscer  puote?  I 

Kè  tu  col  guardo  a penetrarle  basti. 

Ogni  modo  a Telcmeico  .si  vada  , 

E la  morte  dc’Proci , e il  nostro  Ìo  vegga 
Liberatore,  un  uomo  ei  siasi , o un  xXiime. 

Detto  così,  dalla  superna  stanza. 

Scese  con  mente  in  due  pcn.sier  divisa  : 1 10 

Se  di  lontano  a interrogar  l’amato 
Consorte  avesse , o ad  appressarlo  in  vece  , 

E nelle  man  baciarlo  e nella  testa. 

Varcata  , entrando,  la  marmorea  soglia, 

Da  quella  parte,  e contra  lui  s’assise  , 

Dinanzi  al  fuco  , che  su  lei  raggiava  ; 

Ed  ei,  poggiato  a una  colonna  lunga  , 

Sedea  con  gli  occhi  a terra  , e le  parole 
Semnre  attendea  della  preclara  donna  , 

Poicnc  giunti  su  lui  n'eraii  gli  sguardi.  Ilo 
Tacita  stette , e attonita  gran  tempo  ; 

11  riguardava  con  immote  ciglia  , 


H in  quel  che  ravvisarlo  ella  credea  , 

Traeanla  fuor  della  notizia  antica 
Gli  aliiii  vili , onde  scorgealo  avvolto. 

\'on  si  tenne  Telemaco  , che  lei 
Corte  non  rampognasse  : O madre  mia  , 
iUadre  inlelice,  e barbara  consorte, 

Pcrcliè  così  dal  genitor  lontana  ? 

Che  non  siedi  appo  lui?  che  non  glijxarli?  i5o 
A'uli'ahra  fura  così  Iredda  e schiva 
Con  marito  alla  patria , ed  a lei  giunto 
•)opo  guai  molti  nel  ventesim'aimo. 

'Ila  unn  pietra  per  cuore  a tc  sta  in  petto. 

1^  a rinruntro  Penelope  : So.^pesa , 

Piglio  , di  stupor  sono  , ed  un  sol  detto 
Pormar  non  valgo  , una  dimanda  sola , 

E Ite  , (Uiant'io  vorrei , mirarlo  in  faccia, 
tìla  s’cgli  è Ulisse , c la  sua  casa  il  tiene , 

Nulla  più  reota  che  il  mio  stato  inforsi.  140 
Però  die  seguì  v’Jian  dal  nuziale 
Ricetto  nostro  im|ìenetrabil  tratti , 

Cli'csser  noti  sappiamo  a noi  due  solo. 

iioi  riso  il  saggio  e paziente  Ulisse  , 

E converso  a Tdemneo  , La  madre 
La.scia  , diceugli , a suo  piacer  tentarmi  : 
Svanirà , figlio  , ogni  suo  dubbio  in  breve. 

! ÌVrchò  in  vesti  mi  vede  umili  e abbiette , 
Sjiregiijini , e penetrar  non  san  jkt  queste 
Sino  ad  l;lisse  i timidi  suoi  sguardi.  iSo 

^^oì  ((uel  partito  consultiamo  intanto  , 

Che  ablirucciar  .«ara  mc'glìo.  Uum  , che  di  vita 
S|jogliò  tilt  uum  solo,  e oscuro  , e di  cui  poclii 
Sono  i vendirator  , pur  fugge  , e il  dolce 
Nido  abbandona  , ed  i congiunti  cari. 

Or  noi  della  città  tolto  il  sostegno  , 

K il  (ioi  drllTtaccsc  giovemude 
.Vfietuto  abbiamo.  Oual  è il  tuo  consiglio  ? 

E il  prudente  Telemaco  , A te  spetta  , 
Diletto  padre  , il  co)i'iigliar  , rispose  : 160 

\ te,  con  cui  non  v'iia  chi  (l’acc'irtezza 
Contendere  osi.  Io  seguirotti  pronto 
In  ogni  tuo  disegno  , e men  , cicil’io. 

Le  forze  mi  verian  pria,  che  il  cor-nggio. 

Questo  a me  scambia  , ripigliava  Uhsse. 
bagnatevi  , abbigliatevi , e novelle 
Prenda  ogni  donna  , e piu  leggiadre  ve.stL 
Poi  con  l’arguta  edera  il  divino 
‘Quntore  inviti  a una  gioconda  danza  , 

.Vcciò  chi  di  fuori  ode,  o ^>assa  , o alberga  170 
Vicln  , le  nozze  celebrarsi  creda. 

Così  pria  non  andrà  per  la  cittade 
'>el)a  strage  de'Pruci  il  sanguinoso 
Grido  , che  noi  non  siam  nelPombreggìata 
Campagna  nostra  giunti,  in  cui  vedremo 
Ciò  che  inspirarci  degnerà  POlimpio. 

Scollato  , ed  ubbidito  ei  fu  ad  un'ora. 

Si  bagnar,  s'abbigliar,  vesti  novelle 
l^rese  ugni  donna  , e più  fregiata  ap[>ar?e. 
Femio  la  cetra  nelle  man  recossi , 180 

E del  canto  soave  , e dell'egregia 
Danza  il  desìo  svegliò.  Titfa  sonava 
Quella  vasta  magìun  del  calpestìo 
Degli  uomini  tresconti  , e delle  donne. 

Cui  bella  fascia  circondava  i fianchi. 

E tal , che  udìa  di  fuor  , tra  sè  dieca  : 

\lcun  per  fermo  la  coianto  ambita 
Regina  ottenne.  Trista  ! che  g]i  eccelsi 


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ODISSEA 


118 

Tetti  di  quel,  cui  vergine  congiunta 
S’era , nou  custodi , fiuch'eì  venisse.  190 
Così  parlava  ; e di  profonda  notte 
Lo  strano  caso  rìinanea  tra  l’oinbre. 

In  questo  mezzo  Kurinome  cosperse 
Di  lucid’onda  il  generoso  Ulisse  , 

E del  biondo  licor  l’unse  , ed  il  cinse 
Di  tunica  e di  clamide:  ma  il  capo 
D’alta  beltade  grilliistrò  Minerva. 

Ei  da'lavacri  uscì  pari  ad  un  Nume , 

E di  nuovo  s’ assise , ond’era  sorto , 

Alla  sua  moglie  di  rincontro,  e disse:  soo 

Mirabile  , a te  più  , che  alTaltre  donnei 
Gli  abitatori  deirOlimpie  case 
Un  cuore  iinp  metrabile  formaro. 

Quale  altra  accjgUerìa  con  tanto  gelo 
L'iiom  suo,  che  dopo  venti  anni  di  duolo 
Alla  sua  patria  ritornasse , e a lei  ? 

Su  via,  autrice , per  me  stendi  un  ietto , 

Djv'ìo  mi  corchi , e mi  riposi  anch'io: 

Quando  di  costei  l’alma  è tutta  ferro. 

Mirabil , rispondea  la  saggia  donna  , 3iu 
Io  nè  orgoglio  <li  me  , nè  di  te  nutro 
N-^1  cor  disprezzo,  nè  stupor  soverchio 
M’ingombra,  ma  guardigna  i Dei  mi  fèro. 

Ben  mi  ricorda  , quale  allor  ti  vidi , 

Che  dalle  spiagge  d’itaca  naviglio 
Ti  allontanò  di  remi  lunghi  armato. 

Orche  badi,  Euricléa,  che  non  gli  stendi 
Fuor  della  stanza  maritale  il  denso 
I.etto , ch’ei  di  sua  mano  un  dì  construsse , 

E pelli , e manti . e sontuose  coltri  220 

Su  uon  vi  getti  ? Ella  così  dicea, 

Far  volendo  di  lui  l’ultima  prova. 

Crucciato  ei  replicò  * D juna , parola 
T’uscì  da’labbri  fieramente  amara. 

Chi  altrove  il  letto  collocommi?  Dura 
Al  più  saputo  tornerìa  l’impresa. 

Solo  un  Nume  potrebbe  agevolmente 
Scollocario  : ma  vivo  uomo  nessuno , 

Benché  degli  anni  in  sul  fiorir,  di  loco 
Mutar  potrìa  senza  i maggiori  sforzi  i3o 
Letto  così  ingegnoso  , oiul’ìo  già  fui , 

Né  compagni  ebbi  all’opra  , il  dotto  fabbro. 
Bella  d’olivo  rigogliosa  pianta 
Sorgea  nel  mio  cortile  i rami  larga  , 

B grossa  molto  , di  colonna  in  guisa, 
lo  di  commesse  pietre  ad  essa  intorno 
Mi  architet  tai  la  maritale  stanza  , 

£ d’un  bel  tetto  la  coversi , e salde 
Forte  v’imposi , e fermamente  aitate. 

Poi  vedovata  del  suo  crin  l’oliva  , 34*> 

Alquanto  su  dalla  radice  il  tronco 
Ne  tagliai  netto,  e con  le  pialle  sopra 
Vi  andai  leggiadramente  , e v'adoprai 
La  iniallibile  squadra  , e il  succhio  acuto. 

Così  il  sostegno  mi  fec’io  del  letto  j 
£ il  letto  a molta  cura  io  rìpolìi , 

L’intarsiai  d’oro,  d’avorio  e argento 
Con  arte  varia  , e di  taurine  pelli , 

Tinte  in  lucida  porpora  , il  rieinsì. 

a me  riman  , qual  fabbricailo,  intanto,  25o 
O alcun,  succiso  dell’oliva  il  fondo, 

Portollo  in  altra  parte  , io , donna  , ignoro. 

Questo  fu  il  colpo  che  i suoi  dubbii  tulli 
Vincitore  abbattè.  Pallida  , fredda , • 


Mancò  , perdè  gli  spiriti , e disvenne. 

Poscia  corse  ver  lui  dirittamente  , 
Disciogliendosi  in  lagrime  ed  al  collo 
Ambe  le  braccia  gli  gittava  intorno, 

E baciavagli  il  capo , e gli  dicea  : 

Ah  ! tu  con  me  non  t’adirare  , Ulisse , 2C0 

Che  ili  ogni  evento  ti  mostrasti  sempre 
Degli  uomini  il  più  saggio.  Alla  sventura 
Condannavanci  i Numi,  a cui  non  piacque , 

Che  de' verdi  godesse  anni  fioriti 

L’uuo  appo  l’altro,  e quindi  a poco  a poco 

L’un  vedesse  imbiancar  dell’altro  il  crine. 

Ma  , se  il  mirarti , e l’abbracciarti,  un  punto 
Per  me  non  fu , tu  non  montarne  in  ira. 

Sempre  nel  caro  petto  il  cor  tremavami , 

Non  venisse  a ingannarmi  altri  con  fole:  270 
Che  astuzie  ree  covansi  a molti  in  seno. 

Nè  la  nata  di  Giove  Elena  Argiva 
D'amor  sarìasi  e sonno  a uno  straniero 
Congiunta  mai , dove  previsto  avesse 
Che  degli  Achei  la  bellicosa  prole 
Nuovamente  l’avrebbe  alla  diletta 
Sua  casa  in  Argo  ricondotta  un  giorno. 

Un  Dio  la  spinse  a una  indegna  opra  , ed  ella 
Pria,  che  di  dentro  ne  sentisse  il  danno, 

Non  conobbe  il  velen  , voleri  , da  cui  280 
Tanto  cordoglio  a tutti  noi  discorse. 

Ma  tu  mi  desti  della  tua  venuta 
Certissimo  segnale:  il  nostro  letto, 

Che  nessun  vide  mai , salvo  noi  due, 

£ Attorride  la  fante  a me  già  data 

Dal  padre  mio  , qiiatid’io  qua  venni , e a cui 

DeU’incoocussa  nuziale  stanza 

Le  p irte  in  guardia  son,  tu  quello  adatto 

Mi  descrivesti  j e al  Hn  pieghi  il  mio  coro  , 

Ch’esser  potrìa  , noi  vo’uegar  , più  molle.  290 

A questi  detti  s’eccitò  in  Ulisse 
De&ìo  maggior  di  lagrime.  Piagiiea  , 

Sì  valorosa  donna  e sì  diletta 

Stringendo  al  petto.  E il  cor  di  lei  qual'era  ? 

Come  ai  naufraghi  appar  grata  la  terra, 

Se  Nettun  fracassò  nobile  nave  , 

Che  i vasti  flutti  combatteanu  , e i venti  , 
Tanto  che  pochi  dal  canuto  mare 
Scampar  notando  a terra  , c con  le  membra 
Di  schiuma  e sai  tutte  incrostate,  e lieti  3uo 
Su  la  terra  montar  , vinto  il  periglio  : 

C')sì  gioia  Penelope  , il  consorte 
Mirando  attenta,  nè  staccar  sapea 
Le  braccia  d’alabastro  a lui  dal  collo. 

E già  risorta  lagrimosì  il  ciglio 
Visti  gli  avi'ìa  la  ditiro^ea  Aurora  , 

Se  l’occhio  azzurro  di  Minerva  un  pronto 
Non  trovava  compenso.  Egli  la  Notte 
Nel  fin  ritenne  della  sua  carriera  ; 

Ed  entro  all’Oceàn  fermò  l’Aurora,  3io 
Giunger  non  consentendole  i veloci 
Dell’alma  luce  portator  destrieri  , 

Lampo  e Fetonte,  ond  ò guidata  ia  cìelo 
La  figlia  del  mattin  su  trono  d’tiro. 

Ulisse  allor  queste  parole  volse 
Non  liete  alla  sua  donna  : O donna  , giunto 
Nen  creder  già  de’miei  travagli  il  fine. 

Opra  grande  rimane , immensa  : e cui 
Fornir  , benché  a fatica  , io  tutta  rleggio. 
Tanto  im  disse  di  Tircsia  l’Ombra 


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LIBRO  vente: 

Il  (lì , ch’io,  per  saver  del  mio  rit(jrno , 

E di  quel  dc’comnagni , al  losco  albergo 
Scesi  di  Dite.  Or  basta.  Il  nostro  letto 
Ci  chiama , e il  sonno  , di  cui  tutta  in  noi 
Entrerà  rineffabile  dolcezza. 

E Venelope  a lui  così  rispose  : 

Quello  a te  sempre  apparecch.alo  giace, 
Eoichc  di  ritornar  tl  dicro  i Kumi. 
iVIa  tu  quest’opra  , di  cui  (jualche  Lio 
Risvegliò  iute  la  rimembranza  .dimmi.  33o 
Tu  non  vorrai  da  me  . penso,  celarla 
Voscia  , c il  tosto  saperla  a me  par  meglio. 

Sventurata  , perchè  , l’altro  riprese, 

Tai  nel  tuo  petto  , e sì  fervente  brama  ? 

Trulla  io  t’8.‘'Condeiò  ; benché  goderne 
Certo  più  , che  il  mio  core,  il  tuo  non  depgia. 
L’ombra  ir  m’imposse  a cilià  molte,  un  remo 
Ben  fabbricato  nelle  man  tenendo  , 

^'è  prima  il  piè  lermar  , che  ad  una  nuova 
Gente  lo  non  sia,  che  non  conosce  limare,  340 
Rè  cosperse  dì  sai  vivande  gusta, 

Rè  delle  navi  dalle  russe  guance, 

O de’remi , che  sono  ale  alle  navi , 

Notizia  vanta.  E mi  die  un  segno  il  vate. 

Quel  di , che  un  altro  pellegrino,  a cui 

'abbatterò  per  via  , me  un  ventilabro 
Tortar  diià  su  la  gagliarda  spalla  , 

Alloro  , inlitto  nella  terra  il  remo , 

E vittime  perfette  a re  Nettuno 

Svenate , un  toro  , un’ariete , un  verro  , 35o 

Riedere  io  debbo  alle  paterne  case, 

K per  ordine  offrir  sacre  ecatombi 
Agli  Lei  tutti  che  in  Olimpo  han  seggio. 
Quindi  a me  fuor  del  mare , e mollciuente 
Consunto  al  fin  da  una  lenta  vecchiezza  , 

JVlorte  sopravverrà  placida  e dolce , 

E beale  vivran  le  genti  intorno. 

Ecco  il  deslin  che  il  tuo  consorte  aspetta. 

Ed  ella  ripigliò:  So  una  vecchiezza 
Migliore  i Lei  proroetlontì , che  tutta  56o 
L’altra  ctade  non  fu,  t'allegra  dunque, 

O d’ogni  angoscia  viiicilor  lelire. 

Eurinome  frattanto,  ed  Euricléa 
Li  molli  coltri , e di  tappeti  il  casto 
Letto  adornavan  delle  laci  al  lume. 

Ciò  in  brev’ora  compiuto,  a’suoi  riposi 

Euricléa  si  ritrasse,  ed  Eurinómo 

Inver  la  starza  maritale  Ulisse 

Precedeva  , e Penelope , tenendo 

Fiaccola  in  man:  poi  rilirossi  anch’ella  ; 370 

E con  pari  vaghezza  i due  consorii 

Lei  prisco  letto  rinnovato  i patti. 

Telemaco  non  meno  , ed  i pastori  , 

Fatti  i Jor  piè  cessar  dalla  gioconda 

Lanza  , e quei  delle  donne  , al  sonno  in  preda 

S'abbaudonaro  nell’oscura  sala. 

Ma  Penelope  e Ulisse  un  sovrumano 
Le’inului  lor  ragionamenti  varii, 

Che  la  notte  coprìa  , prendean  diletto. 

Pilla  narrava  , quanto  a lei  di  doglia  33o 
Liè  la  vista  de’Proci , ed  il  trambusto 
In  ch’era  la  mngion  , mentre  , velando 
La  loro  audacia  dell’amor  col  manto  , 

Sempre  a terra  stendean  pecora  o bue, 

y.  dai  capaci  dogli  il  delicato 

Vino  attigneano.  L’altra  parte  Ulisse 


I M O S E C O N L O.  nq 

Que’mali , che  in  sè  stesso,  o a gente  avversa, 
Soflerli  avea  pellegrinando  , u iidlilti , 

Le  raccontava  : un  non  so  che  di  dolce 
L’anima  ricercavate  , ed  a lei  3^o 

Finch’ei  per  tutte  andò  le  sue  vicende, 

Non  abbassava  le  palpebre  il  sonno. 

Tolse  a dir , come  i Ciconi  da  prima 
Vinse,  e poi  de’Lolofagi  alla  pingue 
Terra  sen  venne  j e rammentò  gli  eccessi 
Lei  barbaro  Ciclo|>e , e la  sagace 
Vendetta  fatta  di  color  tra  i suoi, 

Ch’ei  meiteasi  a vorar  senza  pietade. 

Come  ad  Eolo  approdò  da  cui  gentile 
Accoglienza  e licenza  ebbe  del  pari  ; 400 

Ma  non  ancor  gli  coiicedeauo  i futi 
La  contrada  natia , donde  rapillo 
Subitana  procella  , e sospirante 
Molto  , e gemente  , il  ricacciò  Dell’alto. 

Quindi  ramaro  descriviate  arrivo 
Alla  funesta  dalle  larghe  porte 
Cittade  de’Lestrigoni , e gli  ancìsi 
Compagni  tanti,  e 1 fracassati  legni , 

Fuor  che  uno  , sovra  cui  salvossi  appena. 

Gli  scaltrimenti  descrivradi  Circe,  410 

K il  viaggio  impensato  in  salda  nave, 

Per  coii&iiltar  (lei  Tebaii  vate  l’alma  , 

Alla  casa  inamabile  di  Fiuto, 

Love  s’olTriro  a lui  gli  antichi  amici , 

Ombre  guerriere  > ed  Aniicléa  , che  in  luce 
Fuselo,  e intese  alla  sua  jiifanzia  cara. 
Aggiunse  le  Sirene , innanzi  a cui 
Passare  ardì  con  disarmati  orecchi  ; 

K gl’mslabili  scogli , e la  tremenda 
Cariddi  e Scilla  . cui  non  vider  mai  4^^ 

I più  destri  nocchieri  impunemente. 

Nè  l’estinto  tacca  del  Sole  armento, 

E la  vermiglia  fulgore  di  G>ove 
Altitonante , che  percosse  il  legno, 

£ i compagni  sperdè.  Campò  egli  a terra 
Solo  , e allerrò  aU’Ogigia  isola  ; ed  ivi 
Calipso,  che  bruinava  essergli  sposa  , 

II  riieiica  nelle  sue  cave  grotte, 

I/adagiava  di  tutto,  e giorni  eterni 

Senza  canizie  proroelteugli  : pure  43o 

Nel  seno  il  cor  mai  non  piegogit.  Al  fine 
Lupo  inlinitì  guai  giunse  ai  Feaci , 

Che  al  par  d'ua  Nume  Ponoraro  , e in  nave 
Li  rame  ratea  , e d’uro  , e di  vestiti , 

AU’aer  dolce  de’natìi  suoi  monti 
Uimandàrlo.  Quest’ultima  parola 
Lelle  labbra  gli  uscìa  , quando  soave 
Scioglitor  delle  membra  , e d’ogni  cura 
Lisgombrator  , sovra  luì  cadde  il  sonno. 

Ma  in  questo  mezzo  la  Pupilleazzuiia 
Li  Laerte  il  figliiiot  non  obblìava. 

Come  le  parve  ch’ei  goduto  avesse 
Di  notturna  quiete  appo  la  fida 
Moglie  abbastanza  , incontanente  mosse , 

E a levarsi  eccitò  dall’Oceàno 
àSul  trono  d’òr  la  ditirosea  Aurora  , 

Perchè  la  terra  illuminasse,  e il  cielo. 

Surse  allora  l’eroe  dal  molle  letto  , 

E questi  accenti  alla  consorte  volse  : 

Consorte  , sino  al  fondo  ambi  la  coppa 
Bevemmo  del  dolor  \ tu  , che  piagnevi 
il  mul  lilorao  disastioso , ed  10  , 


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O n I S S E A 


110 

Cui  Giove  f e gli  altri  }')eì  « dalla  bramata 
Vatria  volean  ira  mille  alfànni  in  bando. 

Or  , che  agli  Eterni  riunirci  piacerne  , 

Cura  tu  prenderai  di  quanto  in  ca^ia 
Beatami  ; ed  io  di  ciò,  che  gli  orgogliosi 
Proci  usurparo  a me  , parte  co’doni 
))el  popol  mio  , parte  co’miei  conquisti , 
Bistorerommi  a pieno  , in  sin  che  tutte  460 
Si  riempiali  di  nuovo  a me  le  stalle. 

Io  nella  folla  di  diverse  piante 
Campagna  sua  corro  a veder  l'antico 
(ienitur,  che  per  me  tanto  dolora. 

Tu  f benché  saggia,  il  mio  precetto  ascolta. 


Sorto  il  novello  Sol , per  la  cittade 
J)eila  morte  de’Proci  andrà  la  fama. 

Sali  neU’alto  con  le  ancelle  , e siedi , 

Ed  in  guisa  ivi  sta,  che  non  t’accada 
Nè  voce  ad  alcun  volgere , nè  sguardo.  47® 
Detto  , vestissi  le  bell’armi , e il  prode 
Figlio  animava , e i due  pastori , e a tutti 
Prendere  ingiunse  i mar^iiali  arnesi. 

Quelli , obbedendo  , armavansi , e , dischiuso 
De  porte  uscìano  : prccedeali  l/iisse. 

Già  ai  spargea  su  per  la  terra  il  lume: 

]i\Ia  fuor  della  citta  tosto  li  trasse 
Di  nubi  cinta  PAtenéa  Minerva. 


LIBRO  V E N J E S I J\I  0 Q U A R T 0 


ARGO  Al  E N T O 


McrcuriocomliiceaU’Iufcrno  le  animo  «le'Prod.  Colhwjnio  tra  Vaatmn  <ì’ \^monnor>e  eqncll:i  d'Acìjllle;  e racronfo 
rlie  il  primo  fa  tle’fuocpdi  )iiagninri  del  mcihuUi.  Alti!*  colliKpùo  Ir'  lo  ^Icsau  e An(ti  ie«ioiitc  « rhc 

fu  ilcTriri.  Llissc  (liiinKi:  con  TdcMiaoii  e ì tliic  p.<sl:iri  al  s*>f>:^iorHo  «li  I^crU?  suo  padre.  UicunuariiHcnti»  di 
Lli;^,  e gioja  di  l.aoiU*.  Dolio,  %cct:liio  servilor  di  (luesl’uUÌMio , ritorna  dal  bvoni  con  sci  ftgliuuii:  altro 
rùronusriiitCnUi.  Frattanto,  aose  I»  itdU  ).«*'rtc  dcTroci , Eupitc,  il  |v>dre  d’Autinou,  eccita  il  |iopulu  A 

vetuHcarla.  Se  gli  op^iongono  'tlctloiile  e Milerse.  Egli  noodi«>icno  esce  eo’suui  s.'giMCÌ  <lella  città.  Clisse  armari 
co'suui  pochi,  c va  loro  inconlrt»,  ctioibatU-'ulo  lo  stessi*  Inerte,  che,  tMO'M^gialu  da  Atiaerva,  lancia  u»iitra 
Eupite  il  prillili  coljio,  c ruccidc.  Llissc  c fcle«'t;ico  i-ienano  slrajjc.  FimlMicnto  Aliiierva , a cui  Giu\e  fi  caliere 
un  fulmine  iuuaiizt  ai  piedi,  iciinine  ùfi^K>ne  al  conilitto,  c la  ^vicc,  sultu  l,i  iìgui-a  di  MenUn'e,  ristabilUix’. 


]\Jercuiijo  intanto , di  Cillene  il  Dio  ^ 

D’alme  de’Proci  estinti  a sè  chiamava. 

Tenea  la  bella  in  man  verga  deU’oro, 

Onde  i mortali  dolcemente  assonna, 

Sempre  che  il  vuole , e lì  dissonna  ancora. 

Con  questa  conducca  Palme  chiamate  , 

Che  stridendo  il  segmano.  E come  appunto 
Vispistrell»  nottivaghi  nel  cupo 
Fondo  talor  d’una  solenne  grotta  , 

Se  avvien  che  alcun  dal  sasso,  ove  congiunti  10 
L'uno  appo  l’altro  &'atteneano  , caselli , 

Tutti  stridendo  allor  volano  in  folla: 

Cosi  movean  gli  spirti , e i>er  la  losca 
Via  precedcali  il  mansueto  Ermete. 

I/Oceàn  trapassavano , e la  bianca 
Pietra  , e del  Sole  le  lucenti  porte , 

Ed  il  popol  de’sogni  : indi  ai  vestiti 
D’asfodelo  immortale  Inferni  prati 
Giunser  , dove  soggiorno  haii  degli  estinti 
Le  aeree  forme  e i simulacri  ignudi.  20 

L’alma  trovaro  del  Pelìade  Achille, 

Di  Patroclo , d’Antiloco  e d’Ajace , 

Che  i Danai  tutti , salvo  il  gran  Pdìde  , 

Di  corpo  superava  e di  sembiante. 

Corona  fean  di  Pelco  al  figlio  ; ed  ecco 
Dolente  prcsentarsegli  lo  spirito 
DelI’Atride  Agamennone  , cui  tutti 
Segu'ian  coloro  che  d'Egisto  un  giorno 
Nella  casa  infcdel  con  lui  |>ei‘iro. 

Primo  gli  volse  le  parole  Achille  : 5o 

Noi  credevamti  sovra  tutti,  Atride, 

Della  Grecia  gli  eroi  diletto  ai  vago 
Del  fulmin  Giove  , poiché  a molta  c forte 
Gente  imperavi  sotto  Palte  mura 
Di  Troja,  lungo  degli  Achivi  aifanno* 

Pur  te  assalir  dorea  piima  tra  qu.lh, 


Che  ritornaro  , la  severa  Parca, 
i)a  cui  scampar  non  lice  ad  uom  che  nacque. 
Che  non  moristi  almeno  in  quell’eccelso 
Grado  , di  cui  godevi , ad  Ilio  innanzi  ? 40 

Qual  tornila  i Greci , che  al  tuo  figlio  ancora 
Somma  gloria  sarìa  ne’d'i  futuri , 

Non  t’avrìario  innalzata?  Oh  miseranda 
Fine  che  invece  ti  prescrìsse  il  fato  ! 

Felice  te  , gli  rispondea  l’Atride  , 

Figìiu  di  Peleo  , Achille  ai  Numi  eguale  , 

Te,  die  a Troja  cadesti , e Innge  d’Argo  , 

E a cui  de’  Greci  e de’  'Projanì  i primi , 

Che  piignavan  per  te,  cadeano  intorno  ! 

Tu  de’  cavalli  immemore  , e de’  cocchi , 5o 
Cadaver  grande  sovra  un  grande  spazio  , 
Giacevi  in  mezzo  a un  vortice  di  polve , 

E noi  combattevam  da  mane  a sera, 

Nc  cessava  col  di  , credo,  l’atroce 
Pugna  ostinata  , se  da  Giove  mosso 
Oli  uni  non  dividea  dagli  altri  un  turbo. 

Tosto  che  fuor  della  battaglia  tratto, 

E alle  navi  per  noi  condotto  fusti , 

Asterso  prima  il  tuo  formoso  corpo 

Con  tepid’acque  e con  fragranti  essenze  ^ 60 

Ti  di-puiiemmo  in  su  funebre  letto; 

E molte  sovra  te  lagrime  calde 
Spargeano  i Danai , e recideansi  il  crine. 

Ma  la  tua  madre  , il  grave  annunzio  udito  , 
Del  mare  usci  con  le  Nereldi  eterne , 

L un  immenso  clamor  corse  per  Fonde, 

'fai  che  tremarsi  le  ginocchia  sotto, 

Gli  Achei  tutti  sentirò.  K già  salite 
Precipitosi  avnan  le  ratte  navi, 

S’uom  non  li  ritenea  la  lingua  e il  petto  70 
Pieii  d’antico  saver , Nestor  , di  cui 
Ottimo  sempre  il  consigliar  tornava , 


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131 


LIBRO  V E N T R S I M O Q U A R T 0. 


Arrestatevi,  ArgWi , non  fuggite, 

Disse  il  profondo  del  Nelide  senno  , 

O figli  degli  Achei  : questa  è la  madre , 

Ch’esce  deU’onda  con  l’equoree  Dive , 

E al  figliuui  morto  viene.  A tal  parole 
Ciascun  ristè.  Ti  circundaro  allora 
Del  vecchio  Nereo  le  cerulee  figlie, 

Lugubri  lai  mettendo  , e a te  cìivine  8o 

Vesti  vestirò.  Il  coro  anche  plorava 
Delle  nove  sorelle  , alternamente 
Sciogliendo  il  canto  or  l’una  , or  Taltra;  e tale 
li  poter  fu  delle  canore  Muse , 

Che  un  sol  Greco  le  lagrime  non  tenne. 

Dieci  dì  e sette  , ed  altrettante  notti , 

Uomini  e Dei  ti  piangevam  del  pari  : 

Ma  il  giorno  che  seguì , ti  demmo  al  foco  , 

£ agnelle  di  pinguedine  fìonte 
Sgozzammo  , e buoi  dalla  lunata  fronte.  ( o 
Tu  nelle  vesti  degli  Dei , nel  dolce 
Mele  fosti  arso  , e nel  soave  unguento  \ 

E , mentre  ardevi , degli  Acaichi  eroi 
Molti  corser  con  l’arme  intorno  al  rogo. 

Chi  sul  cocchio  , chi  a piedi  ; ed  un  rimbombo 
Destassi , che  salì  fino  alle  stelle. 

Come  consunto  la  Vuteania  fiamma  , 

Achille  . l’ebbe , noi  le  candide  ossa  , 

Del  più  puro  tra  i vini  e del  più  molte 
Tra  gli  migtienti  irrigandole  , su  l’alba  loo 
Raccoglievamo  ; e la  tua  madre  intanto 
Portò  lucida  d’oro  nrfia  , che  dono 
Dicea  di  Bacco  , e di  Vulcan  fattura. 

Entro  quest'urna  le  tue  candide  ossa 
Con  quelle  di  Patroclo  , illustre  Achille  , 
Giacciono  , ed  ivi  pur  , benché  disgiunte  , 
L’ossa  posan  d’Antiloco  , cui  tanto 
Sovra  tutti  i compagni  oiior  rendevi. 

Spento  di  vita  il  Meiieziade.  Quindi 
Massima  ergemmo  , e sontuosa  tomba  iio 
Noi  , de’  pugnaci  Achivi  oste  temuta  , 

Su  l'Ellesponlo , ove  più  «porge  il  lido  : 

. Perchè  chi  vive  , e chi  non  nacque  ancora  , 
Solcando  il  mar  , la  dimostrasse  a dito. 

I.a  madre  tua  , che  interrogonne  i Numi  , 
Splendidi  in  mezzo  ilc|impoal  fior  dell’oste 
Cviuochi  propose.  Io  molte  esequie  illustri , 
Dove  all’urna  d'un  re  U gioventude 
Si  cinge  i fiaiichi , e a lotteggiar  s’appresta  , 
Vidi  al  mio  tempo:  ma  più  assai,  che  gli  altri  120 
Certami  tutti  , con  le  ciglia  in  arco 
Quelle  giostre  io  mirai  , che  per  te  diede 
Sì  belle  allor  la  piediargentea  Teti. 

Così  caro  vivevi  agl’immortali  \ 

Però  il  tuo  nume  non  si  spense  teco  : 

Anzi  la  gloria  tua  pel  inondo  tutto 
Rifiorirà  , Felide  , ognor  più  bella. 

Ma  io  qual  prò  di  cum  lunga  guerra 

Da  me  finita  , se  cotal  ruina 

Per  man  d’P^gislo,  e d'una  moglie  infame,  i3o 

Pronta  mi  teiiea  Giove  al  mio  ritorno  ? 

Cotesti  avean  ragionamenti,  quando 
Lor  s’acrosiò  P interprete  Argicida, 

Che  de’  Proci  leale  da  Ulisse  vinti 
L’alme  guidava.  Agamennone  e Achille 
Non  prima  gli  sguardar  , che  ad  incontrarli 
Maravigliando  mossero.  L'Alride 
Ratto  coimbiie  Antiineduiite  , il  caro 
UUISSKA 


Figlio  di  quel  Melanio , onde  ospizio  ebbe 
lo  Itaca  , e così  primo  gli  disse  : 140 

Anfìmedonte  per  qual  caso  indegno 
Scendeste  voi  soi  terra  , eletta  gente  , 

B tutti  d’una  età  ? Sccrre  i migliori 
Meglio  non  si  potiìa  nella  cittadc. 

Nettuno  forse  vi  annojò  sul  mare  , 

Fieri  venti  eccitando  , e immani  flutti? 

O v'ofFesero  in  terra  nomini  ostili, 

Mentre  buoi  predavate  , e pingui  agnelle  ? 

O per  la  patria  , e per  le  care  donne 
Combattendo  cadeste?  A un  tuo  paterno  i5o 
Ospite  , che  tei  chiede  , il  manifesta. 

Non  ti  ricorda  di  quel  tempo,  ch’io 
Col  divin  Menelao  venni  al  tuo  tetto , 

Ulisse  a persuader,  che  su  le  armate 
Di  saldi  Danchi  e ben  velate  navi 
Ci  accompagnasse  a Tmja  ? Un  mese  intero 
Durò  il  passaggio  jier  l’immenso  mare, 

Puìcliè  svolto  da  rnìi  fu  a stento  il  prode 
Rovescialor  delle  cittadi  Uiirse. 

£ di  rincontro  Aniimedmite  : 0 fìglio  iGo 
Glorioso  d’Atreo  , re  delle  genti , 

Serbo  In  mente  ciò  tutto  ; e qual  reo  modo 
Ci  toccasse  di  morte,  ora  io  ti  narro. 

U’Ulisse  , ch’era  di  molt’anni  assente  , 

La  consorte  ambivamo.  Ella  nel  core 
Morte  a noi  macchinava,  e , non  volendo 
Né  rifiutar  , nè  trarre  a fin  le  nozze, 

Un  cofnjienso  inventò.  Melica  la  trama 
In  sottile  , ampia  , immensa  tela  ordita 
Da  lei  nel  suo  palagio;  e , noi  chiamati,  170 
(iiovanetli  , dicea , miei  Proci , Ulisse 
Senza  dubbio  morì.  Tanto  a voi  dunque 
Piaccia  indugiar  le  nozze  mie  , ch’io  questo 
Lùgubre  .mimanto  ]>er  l’eroe  Laerte, 

Onde  a mal  non  mi  vada  il  vano  stame. 

Pria  fornir  possa  , cht|,la  negra  il  colga 
D’eterno  sonno  apportatrice  Parca. 

Volete  voi  che  mordanmi  le  Achee  , 

Se  ad  uom  , che  tanto  avea  d’arredi  vivo. 
Fallisse  un  drappo,  in  cui  giacersi  estinto?  180 
Con  sì  fatte  parole  il  core  in  petto 
Gl  tranquillò.  Te.ssea  di  giorno  intanto 
l.’insigue  tela,  e la  stessea  di  notte  , 

Di  mute  faci  al  con.sapevol  raggio. 

Un  triennio  così  nella  sua  frode 
Celavasi , e tenea  gii  Achivi  a bada. 

Ma  sorgiiinto  il  quart'anno  , e le  stagioni , 
Uscendo  ì mesi,  nuovamente  apparse  , 

E compiuta  de’giorni  ogni  rivolta  , 

Noi , da  un’ancella  non  ignara  istrutti , iqo 
Penelope  trovammo  al  suo  iiotturuo 
Retrogrado  lavoro:  e ripugnante 
Pur  (li  condurlo  la  sforzammo  a riva. 

Quando  ci  mostrò  al  fin  l’inclito  ammanto. 
Che  risplendea  , come  fu  asterso  tutto, 

Del  Sole  al  pari  , o di  Selene  , allora 

Ulisse  , non  so  donde  , un  Genio  avverso 

Menò  al  confiti  del  campo,  uve  abitava 

Il  custode  de'verri , cd  ove  giunse 

D’Ulisse  il  figlio  , che  ritorno  fea  aoo 

Dairareiiusa  Pilo  in  negra  nave. 

Morte  a noi  divisando,  alla  cittade 
Vennero  ; innanzi  il  figlio  , e il  [«idre  dopo. 
Questi  in  lacero  arnese  , e somigliante 


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122 


O I)  I 

A un  infelice  paltoniere  annoso, 

Che  sul  bastone  incurvasi , comIoUo 
Fu  dal  pastor  de’verri  : i più  me^chIni 
Vestiti  appena  il  ricoprìan,  nè  alcuno, 

Tra  i più  flitempati  ancor  , seppe  di  noi , 
C'»mVi  s’ofi'erse , ravvisarlo.  Quindi  210 
Motteggi  e colpi  le  accoglienze  iùro. 

Colpi  egli  paziente  in  sua  magione 
Per  un  tempo  sobria,  non  che  motteggi. 

Ma  , come  spinto  dall'EgK»cii  Giove 
Sentissi,  Tarmi  dalla  sala  tolse  , 

K con  Thita  del  figliunl  nelTalto 
Le  servò  del  palagio.  Indi  r^m  molto 
Frevedimeiito  alla  reina  ingiunse, 

Che  Tarco  proponesse  , e il  ferro  ai  Proci , 
Funesto  gioco  , che  lini  col  sangue.  220 

•Nessun  di  noi  del  valid’arco  il  nervo 
Tender  potea  :chè  opra  da  noi  non  era. 

Ma  delTeroe  va  in  man  Tarma.  Il  pastore 
Noi  tutti  sgridavam  , perchè  alTeroo 
Non  la  recasse.  Indarno  fu.  Tehmiaco 
Cmnandògli  recarla  , c Ulisse  Tebbe. 

FA  , preso  m man  Tarco  lamoso  , il  tese 
Così  , e il  tirò  , che  ambo  le  corna  estreme 
Si  vennero  ad  unir  : poi  la  saetta 
Per  fra  tutti  gli  anci  sospinse  a volo.  23o 
Ciò  fatto  , stette  in  sa  la  soglia  , e i ratti 
Strali  versosbi  ai  piedi,  orrendamente 
Guardardo  intorno.  Aiitiiioo  colse  il  primo, 

E dopo  lui,  sempre  di  centra  or  Tnno 
Tolto  , e or  Taltro  di  mira , i sospirosi 
X)ardi  scoccava,  e cadea  Tun  .hii  Taltro. 

Certo  un  Nume  Taitava.  I suoi  compagni, 
Seguendo  qua  e là  Timpelo  suo  , 

A gara  trucidavanci  : lugubri 

Sorgean  lamenti , rimbombar  s’udìa  240 

Delle  teste  percosse  ogni  parete  , 

E CxOrrea  sangue  il  pavimento  tutto. 

Così  : Atride  , perimmo  , e i nostri  corpi 
Giaccion  negletti  nel  cortil  d’Ulisse: 

Poiché  nulla  ne  san  gU  amici  ancora  , 

Che  dalla  tabe  a te  rgerci , e dal  sangue 
Non  tarderìano  , e a piangerci  deposti , 
De'morti  onor,  sovra  un  funebre  letto. 

O fortunato,  gridò  allor  TAtride  , 

Di  Laerte  figliuol , con  qual  valore  25o 

La  donna  tua  riconquistasti  ! E quanto 
Saggia  e memore  ognor  delTuomo  , a cui 
Nel  pudico  suo  bore  unita  s'era , 

Visse  d’icario  la  figliuola  illustre! 

La  rimembranza  della  sua  virtude 
Durerà  sempre , e amabile  ne’canti 
Ne  sonerà  per  Tiiniverso  il  nome. 

Non  così  la  Tindaride,  che  , o>ando 
Scellerata  opra  , con  la  man  , che  data 
Vergine  aveagli,  il  suo  manto  uccise.  260 
Costei  ha  tra  le  genti  un  odioso 
Canto  perenne  :che  di  macchia  tale 
Le  donne  tutte  col  suo  fallo  impresse , 

Che  le  più  oneste  ancor  tinte  n’andranno. 

Tal  iielToscure  , dove  alberga  Fiuto , 

Della  terra  caverne , ivan  quelTalme 
Di  lor  vicende  ragionando  insieme. 

Ulisse , e il  figlio  intanto  , e i due  pastori 
Ginnser,  dalia  città  calando,  in  breve 
Del  buon  Laerte  al  poder  culto  e bello , 


S S E A 

De’suoi  molti  pensler  frutto  , e de’molti 
Studi  e travagli  suoi.  Comoda  casa 
Gli  sorgea  quivi  dì  capanne  cinta  , 

Ove  cibo  e rip<iso  ai  corpi , e sonno 
Davan  famigli,  che,  richiesti  alTtiopo 
Delle  sue  terre,  per  amor  più  ancora  , 

Che  per  dover  , servìaiilo  ; ed  una  buona 
Pur  v’abitava  Siciliana  fame  , 

Che  in  quella  muta  solitudin  verde 
De'canuti  anni  suoi  cura  prendea.  280 

Ulisse  ai  due  pastori,  e al  caro  pegno  , 

Entrate  , disse  , nella  ben  construtta 
Ca.sa  , e per  cena  un  de'più  grassi  porci 
Subito  apparecchiate.  Io  voglio  il  padre 
Tentar,  s'ei  dopo  una  sì  lunga  assenza 
Mi  ravvisa  con  gli  occhi , o «stinta  in  menlc 
Gli  abbia  di  me  la  conoscenza  il  tempo. 

Detto  , consegnò  lor  Tanni , c Telemaco 
K 1 due  pastor  rapidi  entrare.  Ulisse 
Del  grande  orto  pomìfero  alia  volta  7^0 

Mosse,  nè  Dolio,  discendendo  in  quello, 

Trovò  , alcun  de’figli  , o degli  schiavi , 

Che  tutti  a raccor  pruni , onde  il  belTorto 
D’ispido  circondar  muro  campestre  , 

S’erau  rivolti  ; e precedeali  Dolio. 

Sol  trovò  il  genitor,  clic  ad  una  pianta 
Curvo  zappava  intorno.  Il  cicopr'ia 
Tunica  sozza  ricucita  e turpe  : 

Dalle  punture  degli  acuti  rovi 

Le  gambe  difendevangli  schinieri  3oo 

Di  rattoppalo  cuoio  , e le  man  guanti  : 

Ma  berretton  di  capra  in  su  la  testa 
l’ortava  il  vecchio;  e cosi  ei  la  doglia 
Nutriva  ed  accrescea  nel  caro  petto. 

Tosto  che  Ulisse  Tavvisò  dagli  anni 
Suoi  molti , sicconi’era  , e da'suoi  molti 
Mali  più  ancor  , che  dall’età  , consunto. 
Lagrime  , stando  sotto  un  alto  pero  , 

Dalle  ciglia  spandea.  Poi  nella  mente 

Volse,  e nel  cor,  qual  deMue  fosse  11  meglio,  3io 

*»e  con  amplessi  a lui  farsi , e con  baci , 

K narrar  tlel  ritorno  il  quando  e il  come, 

O interrogarlo  prima  , e punzecchiarlo 
Con  detti  forti , risvegliando  il  duolo  , 

Per  raddoppiar  la  gioja  ; e a ciò  s’attenne. 

Si  drizzò  dunque  a lui,  che  basso  il  capo 
Tenea  , zappando  ad  una  pianta  intorno  , 

K,  Vecchio,  disse,  della  cura  ignaro  , 

Cui  domanda  il  verzier , certo  non  sei. 

Arbor  non  v’ha  , non  fico , vite  , oliva  , 620 

Che  Tabi!  mano  del  cultor  non  mostri , 

Xè  sfuggì  all’occhio  tuo  di  terra  un  |>almo. 
■Vitro,  e non  adirartene  ; io  dirotti  : 

Nulla  è negletto  qui,  fuorché  tu  stesso. 

Coverto  di  squallor  veggioti  , e avvolto 
In  panni  rei , non  che  dagli  anni  infranti. 

Se  mal  ti  tratta  il  tuo  signor , per  colpa 
Della  pigrizia  tua  non  è ciò  , penso  ; 

Anzi  tu  nulla  dì  servii  nel  corpo 

Tieni , o nel  volto  , chi  ti  guarda  fisso.  33o 

Somigli  a un  re  nato  ; ad  uom  somigli , 

Che  dopo  il  bagno  e la  gioconda  mensa 
Mollemente  dormir  debba  su  i letti  , 

Com’è  l’usanza  de’ vegliardi.  Or  dimmi 
J’reciso  e netto  chi  tu  servi , e a cui 
J/orto  governi,  e fa  ch’io  sappia  in  oltre, 


270 


LIBRO  V K N T 

Sf  questa  è rerameul»*  linea  , dove 
S<m  ^ìtmlu , qual  teatè  cuìiii  tiarroiiiini  « 

Che  III  me scuiitro»BÌ,  uoui  di  tiuii  molto  pernio 
(pillando  uè  il  tutto  raccuiitat'  , iic  volle 
Me  udir,  che  il  richiedra  ae  iii  qualciie  paitt 
li'ltaca  un  certo  vive  ospite  mio  , 

C)  morto  il  ('Illude  la  nid^ioii  di  Diir. 

A te  p.irleiò  m ^rce  , e lu  Torrcchio 
Non  ricusar  di  danai.  Ospite  mi  tale 
Nella  lina  |Kitria  io  ricevei  , di  cui 
Non  venne  di  luiilauo  al  teico  imo 
Voreatier  mai , che  più  nel  cor  niVntrassr. 
Nato  ei  diceasi  in  Itaca  , e Lari  le  , 

D’Arcesio  il  iiglio  , a geiiitor  vantava. 

Il  trattai , Roiiorai , l’acciireziuii 
Nel  niio  di  beni  ridondante  aibtTgo  » 

K degni  ìn  sul  partir  doni  io  gli  porsi  i 
Sette  di  lavoralo  oro  talenti , 

Urna  d’argento  tutta  , e a huri  sculla  , 

Dodici  vesti , tutte  sc«  uipie  , e tanto 
Di  tappeti , di  tuniche  c di  manti  ; 

K quattro  belio  , oneste  , e di  lavori 
LVniniine  aperte  , ch’egli  stesso  elesse. 

Stianier,  ris|x>se  lagrimaiulu  il  padre,  3G.i 
Sei  nella  terra  dt  cui  cbirdi , ed  ove 
Una  pessima  gente  ed  oltraggiosa 
Degna  oggidì.  Que’molti  doni , a cui 
Ei  con  misura  eguale  avrìa  risposto , 

Come  degno  era  bene,  or,  che  qui  vivo 
Noi  trovi  più  , tu  gli  spargesti  al  vento. 

Ma  schiettamente  mi  tavella  : quanti 
Passato  anni  dal  dì  che  ricevesti 
(^)ursto  nelle  tue  case  ospite  gramo  , 

Che,  s ei  vìvesse  ancor,  saria  il  mio  tiglio?  371 
Misero  ! in  qualclre  parie  , e dalia  patria 
Lungi , u tu  in  iiiur  pasto  de'peacj,  o Ìii  terra 
De’volalori  preda  e delie  Icre: 

Nè  ricoperto  la  sua  madie  il  pianse, 

Nò  il  pianse  il  gcnitur;  nè  la  dotata 
Di  virtù  , come  d’ór  , Penelupéa 
Con  lagrime  onorò  Testinto  sposo 
Sopra  ìunebre  letto  , e gli  occhi  prima 
Non  gli  compose  con  mal  Irrnia  destra- 
dò  palesami  ancor:  chi  sei  tu?ediinde?  38n 
Dove  a le  U città  ? la  madre  ? il  padre? 

A qual  piitggia  s'attieiie  il  ratto  legno  , 

Che  te  condusse,  e i tuoi  cuuipagui  illustri  ? 

O passeggier  venisti  in  nave  altrui , 

D , te  sbarcato  , i giovani  partirò? 

Tutto  , riprese  lo  scaltrito  eroe, 

Narrerò  acconcia  mente,  lo  iiglio  sono 
Del  re  Poljpemunide  Abdante, 

In  Atibaute  nacqui , uve  ho  un  eccelso 
Tetto,  e mi  chiamo  disperilo.  Me  svolse  3qu 
Dalla  Sicilia  un  Genio  avverso  . e a queste 
Piagge  sospinse  ; ed  or  vicino  ai  campi  , 

Lungi  della  città,  stassi  il  mio  legno. 

Volge  il  quint’amio  ornai  , chu  Ulisse  sciolse 
Dalla  mìa  patria.  Sventurato  ! a destra 
Gli  volavano  allor  gli  augelli , ed  io 
Lui , che  lieto  partì  , coiigrdai  lieto: 

Quando  ambi  speravani  die  rinnovalo 
D’ospìzio  avremmo  , e ricambiali  i doni. 

Disse  , e fosca  di  (Jiiol  nube  coverse  4^*' 
I-a  fronte  al  padre  , dio  la  fulva  pulve 
Prese  ad  ambo  le  mani , e il  venerando 


H S I M O Q U A R T O.  ii3 

Opo  canuto  se  ne  sparse  , im'nire 
Nel  petto  spesseggtavangli  i sospiri, 
l'iisse  tutto  coniinovrasi  dentro  , 

K un  acre  si  senlia  pungente  spirto 
Correre  alle  narici , il  caro  padre 
Mirando  attento  : al  fin  su  ini  gittossì , 

K stretto  il  si  recava  in  Ira  le  braccia  , 

E li  baciava  più  volte  , e gli  dicea  : 4 10 

Queii’io,  padre  , quell’io,  che  tu  sospiri, 

Ècco  nel  venlesinto  anno  in  patria  venni. 
Cessa  dui  pianti  , dai  Jameiiti  cessa  , 

K sappi  in  bieve  , perchè  il  tempo  stringe , 
Ch’io  tutti  i Proci  uccisi  , e vendicat 
Tanti  e sì  gravi  torti  in  un  dì  solo. 

Ulisse  lu?così  Laerte  tosto, 

Tu  il  figlio  mio?  Dammene  un  segno,  e tale, 
Che  m lorse  io  non  rtinanga  un  solo  istamr. 

K Ulisse  : Pria  la  cicatrice  mira  410 

Della  ferita  , che  cinghiai  sannuto 
M’aperse  un  dì  sovra  il  Farna.so  , quando 
Ad  Autòlico  io  fui  per  quei , die  in  luca 
M'avea  doni  promessi , accutn|iaguaudo 
Col  muto  della  testa  i detti  suoi. 

Gli  arbori  inoltre  io  ti  dirò , dì  cui 
Neiraineno  veizier  dono  mi  festi. 

Fanciullo  io  ti  st'guìa  con  ineguali 
Passi  per  l’orto,  e or  questo  arbore,  or  quello 
Chiedeati  ; e tu  , come  andavam  tra  loro,  4Òo 
Mi  dicevi  di  lur  Fimiole  e il  nume. 

Tredici  peri  a me  donasti , e dieci 
Meli,  e fichi  quaranta,  e promettesti 
Peti  cinquanta  filari  anco  di  viti  , 

Che  di  U:lia  vemiemtnìa  eran  già  carchi; 
l’uichè  vi  fan  d’ogni  sorta  uve  , e l Oie  , 

J)el  gran  Giove  ministre  i lor  tesori 
Versano  ìn  copia  su  i fecondi  tralci. 

Quali  dar  gli  potea  segui  più  chiari? 

Luerle , a cui  si  disteinprava  il  curo  , 440 

K vacillavan  le  ginocchia  , avvolse 
Subito  ambe  le  mani  al  collo  intorno 
Del  figlio;  e il  figlio  lui,  ch’era  di  spirti 
Spento  afìutto  , a se  prese , ed  il  sosieniie. 

Ma  come  il  fiato  in  seno , e nella  mente 
I dispersi  pcrn>ieii  ebbe  raccolti, 

O Giove  padre,  sdamò  egli , e voi , 

Numi,  voi  certo  su  l'Olimpo  ancora 
Siete  , e regnale  ancor  , se  fa  dovuta 
Rena  portar  de'ior  misfatti  i Proci.  4^0 

Ma  uu  timore  or  m’assai  , non  gl’ltacesi 
Vengali  ira  poco  a queste  parti  in  folla  , 

E messi  qua  e là  iiiandinu  a un  tempo 
De’Ceialeiii  alle  città  vicine. 

Sta  di  buon  cure  , gli  rispose  Ulisse  , 

Nè  ti  prenda  di  ciò  cura  o pensiero. 

Alla  Qiagioii , che  non  lontana  siede  , 
Moviamo:  io  là  Telemaco  inviai 
Con  Fiie/.io  ed  Euinéo , perchè  allestita 
Prestaracule  da  lor  fosse  la  cena.  4^0 

In  via  , ciò  detto,  entraro  , e , come  giunti 
Furo  al  rural  non  disagiato  all>ergo  , 

Telemaco  trovar  co’due  pastori  , 

Che  incidea  molte  carni , ed  un  possente 
Vino  mescea.  La  Siciliana  fante 
Lavò  JLaerte  , e di  biond’olio  Funse  , 

E d’un  bel  manto  il  rivestì  : ma  Palla  , 

Scelga  per  lui  di  ciel , le  membra  crebbe 


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ODISSEA 


12i 

De’popoli  al  pastore  , e di  persona 
Più  alto  il  rese  , e più  ritondu  in  faccia.  470 
Maravigliava  Ulisse  , allur  che  il  vide 
Slmile  in  tutto  agl’linmurtali , e , Padre  , 

Disse , opra  fu  , cred’jo  , d’un  (jualche  Nume 

Cutesta  tua  statura,  e la  novella 

Beltà  , che  iti  te  dopo  i lavacri  io  scorgo. 

Oh,  riprese  Laerte  , al  padre  Giove 
Stato  fosse , e a Minerva  . e a Febo  in  grado  , 
Che  ^uale  allora  io  fui , che  su  la  terra 
Continental , de’  Cefaieiii  duce  , 

La  ben  construtta  Nerico  espugnai , 4^^ 

Tal  potuto  avess’io  con  l’arme  in  dosso 
Starmi  al  tuo  fianco  nella  nostra  casa  , 
lì  i Proci  ributtar , quando  per  loro 
Splendea  l’ultimo  Sul  ! Di  loro  a molti 
Sciolte  avrei  le  ginocchia  , e a te  sarebbe 
Infinito  piacer  corso  per  l’alma. 

Così  Laerte  , e il  figlio.  £ già , cessata 
Dell’apparecchio  la  fatica  , a mensa 
Tutti  sedeansi.  Non  aveano  ai  cibi 
Stese  Pavide  man  , che  Dolio  apparve,  490 
£ seco  ì figli  dal  lavoro  stanchi: 

Poiché  uscita  a chiamarli  era  la  buona 
Sicula  madre  , die  nudriali  sempre  , 

£ il  vecchio  Dolio  dall’etade  oppresso 
Con  amor  grande  governava.  Ulisse 
Veduto,  e ravvisatolo  , restaro 
Tutti  in  un  dì  maraviglia  culmi  : 

Ma  ei  con  blande  voci,  O vecchio  , disse, 

Siedi  alla  mensa  , e Io  stupor  deponi. 

Buon  tempo  è già  che,  desiando  ai  cibi  5oo 
Stender  lo  nostre  mani , e non  volendo 
Cominciar  senza  voi  , ceu  rimanemmo. 

Dolio  a tai  detti  con  aperte  braccia 
Mosse  dirittamente  incontro  a Ulisse, 

£ la  man  , die  aflerrò , baciógli  al  polso. 

Poi  cooì  gli  dicea  : Signor  mio  dolce, 

S’è  ver  che  noi  , che  di  vederti  brama 
Più  assai , che  speme,  chiudevam  nel  petto, 
Te  rimenaro  al  fin  gli  stessi  Numi , 

Vivi  , gioisci , d’ogni  dolce  cosa  5io 

'l'i  consolino  i D^ù.  Ma  , dimmi  Ì1  vero  : 

Sa  la  regina  [>er  indizio  certo, 

Che  ritornasti , o vuoi , che  a rallegrarla 
Di  SI  prospero  evento  un  nunzio  corra  ? 

Dolio,  ripigliò  Ulisse,  la  regina 
Già  il  tutto  sa.  Perchè  l’aHànni  tanto? 

Il  vecchio  allor  sovra  un  polito  scanno 
Prontamente  sedè.  Nè  men  di  lui, 

Festa  feano  ad  Ulisse  i suoi  figliuoli , 

£ or  Pun  le  mani  gli  afferrava  , or  l’altro:  620 
Indi  sedeatj  di  sotto  al  caro  padre 
Conforme  all’età  loro.  £d  in  tal  guisa 
Della  mensa  era  quivi  ogni  pensiero. 

La  fama  intanto  il  reo  destin  de’  Proci 
Per  tutta  la  città  portava  intorno. 

Tutti,  sentite  le  funeste  morti , 

Chi  di  qua  , chi  di  là , cou  urli  e pianti 
Venìan  d’Ulisse  a)  tetto , e i corpi  vani 
Fuor  ne  traeano,  e li  ponean  sotterra. 

Ma  quei , cui  diede  altra  isola  il  natale,  53o 
Mettcan  su  ratte  pescherecce  barche, 

£ ai  lor  tetti  mandavaiili.  Ciò  fatto  , 

Nel  Foro  s’adunar  dolenti  e in  folla. 

Come  adunati  fur  , surse  tra  g'i  altri 


Eupite  , a cui  per  Antinóo  sua  prole, 

Che  pruno  cadde  della  man  d’Ulisse , 

Stava  nell’alma  un  iiidelebil  duolo. 

Questi  arringò  , piangendo  amaramente  : 

Amici , qual  costui  strana  fortuna 

Agli  Achei  fabbricò  1 Molti , ed  egregi  , 640 

Ne  addusse  prima  su  le  navi  a Troja, 

£ le  navi  perdette  , ed  i compagni 
tSeppellì  ili  mar  : poi  nella  propria  casa  , 
Tornato  , altri  ne  spense  , e d’Àide  ai  regni 
Mandò  di  Cefalenia  i primi  lumi. 

Su  via , pria  ch’egli  a Pilo  , e alla  regnata 
Dagli  £pei  divina  Klide  ricovrì , 

Vadasi } o infamia  jiatiremo  eterna. 

Sì,  l’onta  nostra  ne’ futuri  tempi 

Himbumbar  s’udrà  ognor,  se  gli  uccisori  55o 

De’  figli  non  puniamo  , e de’  fratelli. 

lo  certo  più  viver  non  curo  , e , dove 

Subito  non  si  vada  , e la  lor  fuga 

Non  si  prevenga,  altro  io  non  bramo,  o voglio, 

Salvo  che  riunirmi  Ombra  a queU'Ombre. 

Così  ei , non  restandosi  dui  pianto , 

£ la  pietade  in  ogni  petto  entrava. 

Giunsero  allor  dalia  magiou  d’Ulisse 
Medonte  araldo  , ed  il  cantor  divino  , 

Dal  sonno  sviluppatisi,  e nel  mezzo  5Co 

Sì  collocaro.  Alto  stupore  invase 

Tutti , e il  saggio  Medonte  i labbri  aperse  : 

O Itacesi , uditemi.  Credete 

Voi  che  Ulisse  abbia  tolto  impresa  tale 

Contra  il  voler  de’  Sempiterni  ? Un  Dio 

Vidi  io  stesso  al  suo  fianco,  un  D o . che  affatto 

Mentore  somigliava.  Or  gli  apparìa 

Davanti , in  atto  d’animarlo  , ed  ora 

Per  l’atterrita  sala  impeto  fea  , 

Sgominando  gli  Achei , che  l’un  su  l’altro  670 
Traboccavano.  Disse;  e di  tai  detti 
Inverdì  a tutti  per  timor  la  guancia. 

Favellò  ancor  ne)  foro  un  vecchio  eroe, 
Aliterse  Mastoride , che  solo 
Vedea  gli  andati  ed  i venturi  tempi, 

£ che , sentendo  rettamente  , disse  : 

Or  me  udite , Itacesi.  Egli  è per  colpa 
Vostra  che  ciò  seguì  : però  che  sordi 
Agli  avvisi  di  Mentore,  cd  a’  miei  , 

Lasciar  le  brìglie  sovra  il  collo  ai  vostri  58o 
Figli  vi  piacque , che  al  mal  far  dirotti 
La  davano  pel  mtz/,o  in  ogni  tempo, 

Le  sostanze  rodendo  , e ingiuriando 
I.a  casta  moglie  (l'un  signor  preclaro  , 

Di  cui  sogno  parea  loro  il  ritorno. 

Obbeditemi  al  fin  , mossa  non  fate  : 

Onde  pur  troppo  alcun  quella  sventura  , 

Che  sarà  ito  a ricercar , non  trovi. 

Tacque  ; e s’alzaro  i più  con  grida  e plausi . 
Gli  altri  uniti  rimasero:  chè  loro  690 

Non  gustò  il  detto  , ma  seguiano  Eupite. 
Poscia  , chi  qua , chi  là  , correano  ail’armi. 
Ciuti  c splendenti  del  guerrier  metallo 
Si  raccolser  davanti  alla  cittade 
Quasi  in  un  globo  ; ed  era  incauto  duce 
Della  stoltezza  loro  EupUe  stesso. 

Credea  la  morte  vendicar  del  figlio, 

I E lui , che  redituro  indi  non  era , 

I Coglier  dovea  la  immansueta  Parca. 

I Pallide  , il  txittu  visto , al  Saturmde  600 


J by  Googlf 


135 


LIBRO  VENTE 

Sì  converse  in  tal  auisa  : O nostro  padre  , 

Pi  Saturno  figliuor,  re  de*  regnanti , 

Mostrami  ciò  che  nel  tuo  cor  b’abconde. 
Prolungar  vuoi  la  guerra  e i fieri  sdegni? 

O accordo  tra  le  parti , e amistà  porre  ? 

Perchè  di  questo  mi  richiedi , o figlia? 

Il  nembilero  Giove  a lei  risjHise. 

Kon  fu  consiglio  tuo  ,che  ritornato 
Punisse  i Proci  di  Laerte  il  figlio? 

Pa,  come  più  t’aggrada:  io  quelcheìl  meglio  610 
Parmi , dirò.  Poiché  Pillustre  Ulisse 
De*  l'roci  iniqui  vendicossi , ei  termi 
Patto  eterno  con  gli  altri , e sempre  regni. 

X^oi  la  memoria  delle  morti  aceroe 
In  ogni  petto  cancelliam  : risorga 
11  mutuo  amor  nella  città  turbata  , 

£ >*abbondÌn,  qual  pria,  ricchezza  e pace* 

Con  questi  detti  stimolò  la  Piva  , 

Ch’era  per  sè  già  pronta , e che  dall’alto 
D’Olimpo  cime  rapida  discese.  620 

Ulisse  intanto  , che  con  gli  altri  avea 
Sotto  il  campestre  di  Laerte  tetto 
Rinfrancati  del  cibo  ornai  gli  spirti , 

£sca  , disse , alcun  fuori , e attento  guardi , 

Se  alla  volta  di  noi  veuguu  gli  Achei. 

Subitamente  usci  di  Poiiu  uii  figlio  , 

£ su  la  soglia  stette,  e non  lontani 
Scòrse  ì nemici.  All’arnii!  Àll’aruii  ! ei  tosto 
Gridò  , vicini  sono.  Ulisse  allora  , 

Ed  il  figlio  surgeano  , e i due  pastori , C3o 
E Tarmi  rivestiano  : i sei  figliuoli 
Kiveslianle  di  Polio  e poi  gli  stessi 
Dolio  e Laerte.  In  cosi  pìcciola  oste 
Anco  i bianchi  caiieì  premer  dee  Telmo. 

Ratto  che  armati  iur,  le  porte  aperte, 

Tutti  sboccare:  precedeali  Ulisse. 

Kè  di  muover  cou  lor  lasciò  la  figlia 
Pi  Giove , Pdlla  , a Mentore  nel  corpo 
Tutta  seiubiaiite , e nella  voce.  Ulisse 
MÌrolla,e  u’esultava,  e vólto  al  figlio,  C40 
Telemaco  , dicea  , nella  battaglia  , 

Ove  l’ imbelle  si  conosce  , e il  piode , 

Deh  110x1  disuuestar  la  stirpe  nostra  , 

Che  per  forza  e valor  fu  sempre  chiara. 

E Telemaco  a lui  : Padre  diletto, 

Vedrai , s|>ero , se  vuoi , xh’io  non  traligno. 

Gioì  Laerte  , ed  esclamò  : Qual  Sole 

Oggi  rispleude  iu  cielO  | amati  Numi  l 


I L 


SIMOQUARTO. 

Gareggian  di  virtù  figlio  e nipote. 

Giorno  più  bello  non  mi  sorse  mai*  65o 

Qui  l’appressò  con  tali  accenti  in  bocca 
La  Piva  , che  ue’  begli  occhi  azzurreggia  : 

O d’Arccsio  figliuol  : che  a me  più  caro 
Sex  d’ogui  altro  compagno  , a Giove  alzati 
Prima  , e alla  figlia  dal  ceruleo  sguardo , 
Devoiamente  i prieghi  tuoi , palleggia 
Cutesia  di  lunga  umbra  asta  , e Tawenta* 

Cosi  dicendo  , una  gran  forza  iuftise 
In  Laerte  Minerva.  Il  vecchio , a Giove 
Prima,  e alla  figlia  dal  ceruleo  sguaxdo  ,*  660 
Alzati  ì prieghi , palleggiò  la  lunga 
Sua  lancia,  ed  avventolla,  e in  fronte  a Eupxte, 
Il  iurte  trapassando  elmo  di  rame, 

La  piantò , e immerse:  con  gran  suono  Eupite 
Cadde,  e gli  rimbombar  l’armì  di  sopra. 

Si  scaglierò  in  quel  punto  Ulisse  e il  figlio 
Coiitra  i primieri , c con  le  spade  scempio 
Ne  ieano  , c con  le  lance  a doppio  filo» 

E già  nessuno  alla  sua  dolce  casa 

Tornalo  fora  degli  Achei , so  Palla , vjo 

DcirEgioco  la  figlia , un  grido  inesso  , 

Non  mutava  i lor  cuori  : Cittadini 
P’itaca,  fine  all'aspra  guerra.  Il  campo 
Lasciato  tosto , c non  più  sangue.  Pissc  -, 

Ed  un  verde  pallor  tinse  ogni  fronte. 

L’armi  scappiivan  dalle  mau  trcinanti 
D’aste  coverto  il  suolo  era  , e di  braudi , 
Levata  che  Mineiva  ebbe  la  voce  ; 

E tutti  avari  della  cara  vita 

Alla  città  si  rivolgcano.  Ulisse  boo 

Con  un  urlo  , che  andò  sino  alle  stelle , 

Inseguia  ratto  ì fuggitivi,  a guisa 

D’aquila  tra  le  nubi  altovolanle. 

•Se  liou  che  Giove  il  fulmine  contorse  } 

B alla  Sguardoazzurrina  innanzi  ai  piedi 
Cascò  Teterea  fiamma.  O generoso, 

Cosi  la  Piva , di  Laerte  figlio  , 

Contienti , e frena  il  desiderio  ardente 
Della  guerre,  che  a tutti  è sempre  grave. 

Non  contro  a te  di  troppa  ira  s’acceuda  090 
L’ampìoveggenle  di  Saturno  prole. 

Obbedì  Ulisse , e s’allegrò  nell’alma. 

Ma  eterno  poi  tra  le  due  parti  accordo 
l.a  figlia  striDse  dcirEgioco  Giove, 

Che  a Mentore  nel  corpo  e nella  voce 
Uassomigliava,  la  gran  Dea  d’ Atene. 


I N E* 


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NOTE 


/ 


LIBRO  PRIMO 

Odissea.  Questo  nome  viene  tU  Oilfisens  Odisseo 
ch'e  il  nome  greco  di  Ulisse.  Alcuni  sostituirono  quindi  L 
denominazione  di  Ulissea. 

V.  1 3.  IperHone  passeggiante-rmll'-alto. 

V.  10.  Fiior  lieU’oitde.  Allude  ai  pericoli  corsi  nel  mare 
dai  Greci  che  ritornaron  da  Troja. 

T.  30.  Casta  dotuia.  Penelope  la  cui  castità  è passata  io 
proverbio. 

V.  a3.  Calipso.  Questo  nome  in  greco  è il  futuro  di  un 
verbo  che  significa  celare,  /tosoorufere.  Viveva , come  dice 
il  v.  I i9,neirisola  Ogigia. 

V.  38.  Itaca  |utria  d'Ulisse. 

V. 3i.  Salvo  jSeituno.  Questo  Dio,  come  dice  poi  il 
poeta,  era  sdegnato  contro  Ulisse  perchè  aveva  acciecato 
Polifemo  suo  figliuolo. 

V.  45.£giJio,  figliuolo  di  Ticste  uccise  suo  zio  Agamen> 
none  ritornato  da  Troja,  ajulatulolo  in  ciò  Clilconestra  mo- 
glie di  Agamennone  stesso.  Oreste  poi  vendicò  il  padre  uc- 
cidendo Egisto. 

V.  56.  Ar^icida  cioè  Uccisore  di  Argo  ■ perchè  Mercu- 
rio uccise  Argo  a cui  Giunone  avea  data  in  guardia  lo  per 
custodirla  da  Giove 

V.  77.  L immortai  Jìglia  ec.  Calipso  ~ Atlante  do- 
vette essere  un  personaggio  reale  a cui  i poeti  attribuirono 
poi  molte  parti  Civolose.  Da  lui  è venuto  il  nome  al  Mare 
Atlantico  ^ e probabilmente  fu  re  di  qualche  isola , putente 
in  mare,  ed  esperto  neUaslrunomia  : donde  poi  lo  fecero 
figliuolo  di  Nettuno , e dissero  che  sosteneva  il  cielo  sugli 
omeri. 

v.  107.  Lo  seiiotitor  ec.  Questo  verso  risponde  allVpi- 
lelo  di  EnosigeodsXo  frequentemente  a Nettuno  ;comc  non 
guari  dojio , tl  verso  Cm  tinge  gli  occhi  lui  'azztArrina  luce 
è una  parafrasi  dcU’epileto  glaucopide  od  occhiazzurra 
unito  quasi  sempre  al  nome  di  Minerva. 

V.  135.  Nel f gito.  In  TeWco  figliuolo  d’Ulisse  — 
Proci  diconsi  con  voce  latina  coloro  che  aspiravano  alla 
mano  di  Penelope  dopo  che  si  credette  che  Ulisse  fosse 
morto , e intanto  ne  dissipavano  le  sostanze. 

V.  195.  Dapt.  Vivande. 

V.  34^.  Ferro  brunito  ee.  Glianticlii  non  conobbero  i 
contratU  di  colmerà  c vendita  i ma  tutto  U loro  commerdu 
fiicevasi  per  via  di  permute. 

V.  35i . Su  le  ginocchia  ee.  E una  espressione  usati  altre 
volte  da  Omero , a significare  che  una  cosa  qualunque 
pende  tuttora  indecisa  ed  incerta. 

V.  i3o.  Alla  magion  ee.  Alla  casa  di  suo  padre. 

V.  4*9-  NAVegregio  vate.  In  Femio. 


LIBRO  SECONDO 

V.  63.  Di  farsi  a Icario.  Di  andare,  di  awidnarsi  ad 
Icario. 

V.  1 36.  Laerte.  Padre  d’Ulisse. 

V.  176.  Eritini.  Le  furie. 

V.  178.  Ch  io  liberiec.  Ch’io  pronumii,  Ch'io  melo 
lasci  uscir  di  bocca. 

V.  i85.  Il  Satumide  o Saturnio  è Giove,  figKUolo  di 
Saturno. 

V.  3i  3.  Benché  tra  molti  ec.  ,cioè  Quando  beue  avesse 
con  se  multi  combattenti. 

V.  48  r . Tritonia  dicevasi  Pallide , perche  nata  lungo  il 
Tritone , fiume  dcU'A&ìca. 

LIBRO  TERZO 

V.  8.  Al  Dio  dai  crini  ec.  A Nettuno. 

v.  4<  • A dispetto  ec. , due  : Io  non  credo  che  tu  sii  in 
ira  agli  Dei.  £d  è questa  una  figura  usilata  dai  Greci  ( la 
chiamano  Antifrasi)  , per  dire:  Tu  se’ loro  carissimo. 

v.  96.  Da  qtiailidi  ea.  Da  qual  (uese  salpaste  melteD- 
dovi  in  mare. 

V.  3 44*  N degno fgliuol  ec.  Pirro. 

V.  381.  Non  si  ricatti.  Non  si  Leda  pagare  il  fio. 

v.  4a3.  Le  lingue  taglinsi.  Le  tioguo  «Ielle  vittime. 

V.  493.  Egioco  e un  soprannome  dato  a Giove  per  essere 
stato  nudrito  del  latte  di  capra  nel  monte  Ida. 

V.  5l6.  Sedea.  Cioè;  Solea  sedere giàprima.  Nedeo  fu 
padre  di  Nestore. 

V.  539.  Ad  inaurar  le’corna.  Ne’  sagrifizii  solcvaosi  jier 
più  onore  indorar  le  corna  delle  vittime. 

LIBRO  QUARTO 

V.  I.  Gi«/wcro.  Telemaco  e Pisistrato. 

V.  a3.  Mentre  vateee.  Si  raco^lie  diqui  rantìra  usanza 
di  rallegrare  i banchetti  culla  musica  e colla  daou. 

v.  39.  Secondo  Atridtì.  Menelao. 

V.  45.  Se  pure  ec.  Cioè  : Se  pur  Giove  concederà  che 
d’ora  innanzi  cessiam  dagli  aj/liiuti. 

V.  78.  Poscia  chi  siete  ec.  Da  queste  parole  si  L inani- 
fcslu  quanta  fosse  appo  gli  antichi  rospitilità.  Accoglitr- 
vano  c banchettavano  i forestieri  prima  di  domjudarucjiur 
: il  nome. 

V.  113.  Utijuec.  Stanno  dubbiosi  gl’interpreti  se  Mene- 
lao accenni  qui  la  propria  cisa  o quella  dì  Priamo.  Ma  pare 
che  qucsl'ullima  opinione  sia  più  ragionevole. 

V.  338.  Sostenendo  il  tnaU.  Sopportandolo,  Tolle- 
randolo. 


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117 


N O 

V-  943*  Cheti yrof^Z/ow.  Anliliico.  ucriiod* McnDonc 
f)|;liiiulu  drirAunira  , Y4*nuln  io  kk-cuTsu  de' Trojaui. 

V.  9^1.  La  fijglta  ee.  KIen»  era  figiiuula  di  Ledacdi 
Giuve. 

V.  3oi.  Peone.  CrleJirc  mc<Uco  ••  11  Repente  poi  cr* 
un  Vrlia  a cui  attribuivB«i  la  faadta  di  tracciar  la  tristcxia, 
«'onic  itignifìca  il  suo  nome  etiniologicu mente  considerato. 

V.  3i6.  //  corpo  ec.  (Questo  artìBiio  imitato  poi  da  iitolli 
altri  fu  duu(|i)c  primamente  trovato  da  LUisse.  K perù  So- 
lone disse  a Fisistmto  (che  sene  valse  per  ollcnere  la  tiran- 
nia d'Aleae);  Mal  roppresenti  l'L’lisse  d'Omero;  pe- 
rocché (u  ti  se‘eonciato  in  tal  modo  ;ieri/ij^rt«»»rtre  ipro- 
prù  concittadini , mentre  egli  volle  inrece  trarre  in  in- 
ganno i »cimci.  Dacieii. 

T.  35 1 . Sospinta  ee.  Menelao  riferisce  qui  diù  rhe  pò- 
trehlie  toglier  fedeal  |>entimciitodicuiEleDa  davasi  vanto, 
in.i  raUribuUcealla  forra  di  una  qualche  divinità. 

V.  4ao.  Trasse  il  Monarca  ec.  IVon  èsenra  qualche  an- 
lìbohgia  questa  esprenioue.  Uhiondo  Menelao  altamente 
sospirando  rispose. 

V.  4'^.  Filomelide.  Fu  ctvstui  un  re  di  Lesbo  che  pro- 
vocava alla  lotta  quanti  forestieri  capitavano  alla  sua  isola. 

V.  44^-  Proteo.  Dio  marino  dutatodel  dono  della  pni- 
fer  ia.  Egli  non  soleva  mai  soddisfare  airallmi  curiosità  se 
non  quando  era  a forra  costretto  ,c  per  sottrarsi  a questa  Car- 
ta si  tramutava  io  molle  e variatissime  Cirnie. 

V.  448.  Faro,  Pretesero  alcuni  che  Omero  ignorasse  la 
ver:i  dislanra  di  quest'isola  dal  liduj  ma  dopo  quel  die  ne 
disse  Strabone  nel  primo  libro, della  sua  Geograjia  j fa  me- 
raviglia come  nomini  d'alto  ingegno  abbiano  rinnovata  sif- 
Citla  accusa.  Sajiendo  Omero  che  il  Nilo  produce  a poco  a 
pegola  spiaggia  addentro  nel  mare,  suppi'se  che  quest'isola 
dovrà  ai  tein|ndi  Mcnebo  trovarsi  più  che  a'suoi  giorni  di- 
slantc  dalla  terra  ferma  \ e solo  per  quella  tendenra  die  han- 
no i pt«ii  a magiiiCcarc  ogni  c<«a  pose  una  diiTerenza  sì 
grande  com'èda  i so  a i4oo  o piu  statlii. 

V.  ^39.  Che  da  Giove  ec.  Tutti  illumtchiamavansidai 
Greci  nati  da  Giove  . ma  rt^ilto  poi  più  degli  altri,  jier- 
clȏ  DC  ignurav'ano  le  fonti  e lo  vedevano  crescere  per  le  |*u>g- 
ge , che  secondo  la  mitologia  vengono  ila  quel  Dio  adatta- 
tore di  tiembi. 

V.  951.  >^/eer/o,  padre  di  Inerte, era  figliuolo  di  Gio- 
ve.—/remoli  e/rmpi  mentovati  subito do[xj  sono  ipossc- 
dimenti  d'Llisse  fuor  d'itaca. 

r.  978.  Quel  che  ec. . Cioè  il  consiglia  di  tendere  un  ag- 
guato a Telemaco. 

LIBRO  QUINTO 

V.  8.  j4ppo  la  yinja.  Presso  Calijwo. 

V.  i35.  Mal  il  precetto  ee..  Con  queste  parole  Mer- 
curio parlando  di  sè  medesimo  ammonisce  Gali|>so  e l'ap- 
parecdiia  ad  ubbidire  il  comando  di  Giove,  che  sU  per 
esporle.  D. 

v.  196.  Fon  pungealo.  Secondo  la  lesione  più  comune- 
mente adottata  dovrebbe  dirsi  non  pungealo  piu. 

y.  359.  L'isola  de’Feaci.  Corfù. 

T.  437.  Leueofea  ; cioè  Bianca  Dea.  Ino  fu  moglie  di 
Atamante , il  i[uale  per  vendetta  di  Giunone  divenuto  fu- 
riuso  scagliù  un  proprio  figliuolo  contro  un  muro  e Pucci- 
te  ; ed  Ino  allora  si  giltù  in  mare  i^iraltro. 


r E 

LIBRO  SESTO 

V.  19.  Sella  Scheria.  Ncirisub  di  Corfu.  I Fenici  enei 
la  chiamavano  da  Schera  che  nella  loro  lingua  valeva /fingo 
di  commercio.  Secondo  Omero  dunque  fu  Corfù  popolata 
dalle  genti  che  ahitavano  prima  le  pianure  di  Camarina 
nelb  Sicilia  ^ remigrazione  avvenne  circa  i tempi  trojani, 
gbcche  ne  fu  caj|>oNausitoo  pad  re  d 'A  lei  mx)  il  qua  le  regna- 
va quando  L lissc  approdò  a quell’isola.  D. 

V.  39.  Dedalea  statiza.  11  talamo  egregiamente  co- 
strutto. 

v.  49.  E a quelli  ee. . Era  costume  che  le  giovani  spose 
regalassero  degli  abiti  agli  amici  dello  spu«o  nel  giorno  delie 
nozze.  Cosi  Kustazio. 

V.  934.  Fuovo  rampollo  ee..  Racconta  la  favob,  clic  a 
Deio  Del  luogo  in  cui  loitooa  doveva  {tartorire  Apollo,  spun- 
to d'improvviso  una  bella  palma  alla  quale  poi  la  Dea  s ap- 
poggiò. 

V.  985.  noi.  S'intende  a noi  Feaei;  altrimenti  par- 
rebbe una  sconcordanza  clic  una  fanciulla  parbndood  altre 
fanciulle  rlicesse  : tanto  agli  Dei  siam  cari. 

V.  4^6-  Zio.  Nettuno. 

LIBRO  SETTIMO 

V.  87.  Venerolla fieramente.  Il  dice:  E /a  onorò 
quanto  non  é onorata  sopra  la  terra  alcun  altra. 

V.  I o5.  Eretteo  celebre  re  d'Alene  : a lui  si  dà  lonore  di 
avere  introdotta  b civiltà  nella  Grecia. 

V.  i85.  Da  sezto.  Mercurio,  uccisore  di  Argo,erariiI- 
tìmo  Dio  a cui  si  liba^'a  da  cliLsUva  per  mettersi  a lutto. 
Orazio  dice  di  questo  Dio  : Dat  somnos  adimitque. 

V.  990.  Venerandi  supplici.  Non|yjtrebbeimmaginar- 
si  epiteto  più  bello.  Questo  roocelto  Omerico  concorda  con 
quello  del  Deut  eroDomio  ( X , i8e  .Amat{Deus)pe- 

regrinum  et  dai ei  victumet  vestitum-Etvos ergoama- 
tc  pcrrgrinos. 

V.  398.  Fè  però  il  coree. . Ulisse  (dice  qui  la  Dacier  ) 
sapeva  che  il  farlo  immortale  non  era  in  arbitrio  delle  mi- 
luiri  divinità  alle  quali  Circe  apparteneva  : e che  le  jiersone 
innamorale  promettono  scm|*re  più  di  quanto©  possono  e 
vogliono  mantenere  - Non  c’entro  dunque  j»er  nulla  1 anu^ 
della  patria  di  cui  loda.sÌ  tanto  quell’eroe?  Pure  sul  princi- 
pio del  libro  IX  Ulisse  dice  altiincnti. 

V.  4*  3-  Tizio  f tiranno  crudele  e ingiustissimo. 

LIBRO  OTTAVO 

V . 49.  Qttei  che  di  bastone  ee. . Il  lesto  dice  : / re  seet- 
trati. 

V.  95. 1/antiea  tenzon  ee. . Achille  ed  Ulisse  » secondo 
alcuni  interpreti, contesero ilopolamorlediEttore,  intor- 
no al  modo  col  quale  dovesse  espugnarsi  Troja.  Achille  vo- 
leva che  si  desse  un  a.ssalto  : Ulisse  coQSÌgUav*a  che  si  ado- 
jicrasse  Tastuziaj  e loracolo  aveva  profetato  ad  Agamen- 
none che  una  somigliante  contesa  sarebbe  indizio  della  vi- 
cina vittoria  dei  Greci. 

libro  nono 

V.  96.  Ferito.  Monte  DelPisola  d’Itaca. 

V.  4"'  Cfcofli.  Abitavano  lecoste<lolb  TracbpressoMa- 


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N O T K 


128 

rooea  ; ed  arcano  mandali  «occorsi  aiTrojani:  perciò  Ulis* 
se  f dopo  la  caduu|di|r[aella  ciltà , andò  ad  assalirli.  D. 

V.  8*.  Trcjìateee,  Questa  triplice  chiamata  de’morlì 
tenera  luogo  di  sepidlura , quando  questa  in  terra  straniera 
non  poteva  effettuarsi.  Però  anche  Enea  dice  a Deiiubo;  Et 
magna  manc.t  ter  voce  vocavi. 

V.  356.  egli  tastommi.  Cioè:  Con  questa  domanda 
il  Ciclope  cercò  di  sapere  da  Ulisse  dorè  fosse  la  sua  nave 
e il  restante  delle  cose  sue.  Però  qiundoper  la  risposta  del* 
l’eroe  perde  lasperauzad  altro  boUiuo,  senz’altro  dire  ^ co- 
mincia rorrendo  suo  ^tasU). 

LIBRO  DECIMO 

a 

y,  1 . Nell' Eolia.  L'isola  di  Lipari , che  Omero  chiama 
Eolia  dal  nome  <lcl  re  Eolo. 

V.  6.  Dodici^gli.  Eustaaio  dice  che  Omero  chiama  figli 
d’Kolo  i dodici  mesi  dell’anno  j c che  Eolo  e 1 anno  stesso. 
Meglio  forse  la  Dacier  intende  per  figli  i venti  princlfittli. 
Ma  sema  dubbio  è ottimo  consiglio  non  iK*nlcre  il  temjio 
in  sifLUc  congetture.  Senza  di  ciò  non  v’ha  forse  poeta  che  j 
non  somministri  materia  di  voluminosi  commenti. 

V.  1 06.  Sei  tù  ce..  Sebbene  dairisula  d’Eolo  alla  città  di 
Lamo  non  bisognasse  una  navigazione  di  tanti  giorni  j Ome- 
ro esagera  le  distanze  ^ percliè  ciò  cuntribuisce  airefietlu 
jaxlico.  Questa  osservazione  è di  Strabone. 

V.  181.  Suoni  germana  cc..  Aniiie  qui  dice  Strabone 
che  Omero  y avendo  avuta  notizia  dì  Coleo  e della  fainnsa 
impresa  di  Gia-sone , volle  accrescere  magnificenza  c inte- 
resse a quanto  stava  per  dire  di  Circe , facemlola  sorella  di 
Ecta  padre  di  Medea. 

V.  649.  fiacca  infeconda.  Non  immolavasi  mai  a’morti 
vcrun  fecondo  animale.  Però  anche  Vii^ilio  disse  : Steri’ 
ienujue  tibij  Proserpina , vaceam.  D. 

LIBRO  UNDECIMO 

V.  •].  Dea  veneranda.  Circe. 

V.  68.  Elpenore.  Di  costui  dice  Ovidio  : 
j4t  miser  Elpenor  teeto  delapsus  uh  alto 
Occurrit  regi  dehilis  umbra  suo. 

Osserva  poi  lo  Scoliaste  che  Ulisse  non  vede  qui  nessun:» 
deVompagni  mangiati  dal  Ciclope;  perchè  costoro  (sog- 
giunge ) erano  stati  sepolti , sebbene  d’nn  modo  strano  eif 
illecito  y considerando  comesejwllura  il  ventre  di  Polilcmo. 

V.  i38-  Pel figlio  ec. . Per  Polifemo. 

V.  348.  Epicasta.  1 tragici  poi  la  cliiamarono  Jocaita. 
Scoi. 

V.  355.  Sui  Cadmei.  Sui  discesi  da  Cadmo  ^ foodatttre 
di  Tebe. 

V.  6i5.  Non  consolarmi  ec. . Platone  condannava  questi 
versi  parendogli  che  j)o tessero  imUllare  alla  gioventù  ut> 
vile  e immorale  timor  della  morte.  La  Dacier  lidifcmlcaf- 
fermando , che  Achille  (rlieocbè  egli  dica  ) non  jiclrà  m.ii 
persuadere  alcuno  a dispregiare  la  gloria  per  la  vita , egli 
che  ha  dato  un  esempio  del  tutto  op[wisto.  Ma  è ap^icna  ne- 
cessario di  dire  che  questa  difesa  e debolissima.  Finche  l'c- 
roc  visse  potè  ingannarsi  pooemlo  a confronto  la  dolcezza 
della  gloria  e il  dolor  della  morte  non  ancora  sperimentato', 
ma  dopo  la  tomba  potrebbe  crcilcrsi  clx;  le  sue  parole  avis- 
scru  :ieqiii$tatz  da  una  piena  s|iurieuza  una  luolto  muggiMri 


autorità.  Del  resto  assai  mt^lio  che  sulla  bocca  tU  Adiillc 
ci  pare  die  suoni  questa  sentenza  su  quella  di  Enea  ^ 

..  . . Quam  vellent  aethere  in  alto 

Ntmc  et  pauperem  et  duros  perferre  labores. 

657.  Non  coastrutta  ee. . 11  cavallo  che  servi  ai  Greci 
per  rovinar  Troja  era  stato  costrutto  da  Epco , che  vi  « 
chiuse  insieme  cogli  altri  valorosi. 

V.  68a*  Nella  contesa  ee.  Ajace  ed  Ulisiie  si  disputarono 
le  armi  d’Achille , che  poi  furono  aggiudicate  al  Laerziade. 
Intorno  alla  quale  sentenza  cosi  scriveva  Ugo  Foscolo  : 

. . ....  y^i  generosi 

Giusta  di  gloria  dùipensiera  è morte. 

Nèseiato  astutOj  nèfavordi  regi 
j4iritaeo  le  .spoglie  ardue  serbava  ; 

Che  alla  poppa  raminga  le  ritolse 
L’onda  incitata  dtgC infernii  Dei.  | 

E quest'onda  il  poeta  la  sentiva 

Mugghiar  portando 

j4lle  prode  Re  tee  l’armi  d'Achille 
Sovra  Possa  d'Ajace. 

LIBRO  DUODECIMO 

V.  za.  D'Aide.  DaU'inferno , casa  d’Aide. 

a.  8a.  Non  che  ee. . Degli  setoli  Gianei  (che  Omero 
chiama  erranti  ed  altri  dissero favoleggiarono  i 
|H)Cti  che  anticamente  si  menassero  l'un  contro  l’altro  con 
tanta  celerilà  che  gli  uccelli  stessi  v'erano  colti  nel  volo. 

V.  V71.  D’Iperioae  alfglio.  Il  testodice:  lui  la  diva 
Neera  partorì  al  Sole  Iperione.  Esiodo  (come  nota  lo 
Scoliaste  y lib.  I , v.  8 } là  il  Sole  figliuolo  d'iperione  ; ma 
questa  genealogia  non  {lare  adottata  nella  }X>esia  di  Ornen», 
dove  la  voce  ipenone  èadoperala  sempre  come  un  semplice 
c^Hteto  del  sole  Che  cammina  al  di  sopra  della  terra. 

LIBRO  DEC1M0TER20 

V.  li. /f  oo/e.Demodoco;  o forze  in  generale  i cantori 
che  non  mancavano  mai  a’baocbetli. 

V.  ao.  La  città  concorra.  Cioè;  Contribuisca  a pagarne 
il  prezzo.  È iMtabile  ( dice  la  Dacier ) questo  esempio  di 
I»rÌDcipi  i quali  vogliono  regalare  un  ospite  loro  privalo, 
alle  spese  di  tutto  il  popolo  , al  quale  perciò  comandano  un 
tributo. 

V.  1 19.  La  ratta  nave  ee. . Per  compiere  in  una  notte  la 
, navigazione  da  Corfù  ad  Itaca  non  abbisogna  tutta  quclln 
oderitàdicui  parla  qui  Omeru;ma  è da  considerare  die  r^U 
I lia  {ter  una  poetica  finzione  collocata  la  prima  di  queste  isole 
ncirOccano. 

V.  130.  Forca.  Figliuolo  dcU’Oceano  c della  Terra. 

V.  i44*  Seppe-llito  cc. . Se  Ulisse  fosse  stato  desto  non 
.sarebbe  stato  conveoicoU:  ch’egli  accomiatasse  i remignutì 
senza  ufTorir  loro  un  breve  riposo  nella  sua  casa;  c quindi 
non  era  più  possibile  ch’ali  arrivasse  soloed  incoguiu*. 
Questo  espediente  del  sonno  era  dunque  necessario,  e la 
necessità  sola  scusa  quanto  visi  può  ravvisare  di  assurdo  e 

improbabile. 

V.  5ai.  Del  figlio  in  traccia  ec. . Telemaco  è rimasto  a 
S^iarta  presso  Menelao  sin  dalla  fine  del  Ub.  IVj  c tutti  <jue- 
$ti  nove  oti  finiti  riguardano  cose  avvenute  prima  di  c|ui>l 
momento  da  cui  comincia  veramenta  il  ivieim. 


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X O T 72 


155 


LIBRO  DECIMOQUARTO 

V.  36.  ì'idero  ee. . La  Dacier  crede  che  Omero  descriva 
qui  nume  avveouto  ad  Llìase  no  cavo  occorso  a lui  stesso. 

r.  58.  Ciò  licito  ce. . Questi  versi  ricordano  quegli  altri 
di  Virgilio. 

Vijcit  et  anf^uiti  snhtcrfasiigia  tedi 
I/if’rntern  jEneam  dujcii;  statisque  loeavit 
Ejf  'ttUum  foliie  et  pelle  Liiy^stidis  ursae. 

LIBRO  DECIMOQUINTO 

V.  39.  Defalt  antanU  ec. . Ciò  a'e  veduto  sul  lìue  del 
libro  IV. 

V.  1 79.  La  vergata  biga.  T^a  biga  variegata. 

V.  191.  Ih  Giove  alunno.  Cosi  chianumsi  i represso 
Omero. 

V.  193.  Oh  're  ec..  Val  quanto  dire;  Coailusse 

colà  anche  Llisse  mio  padre  f Ksrlamaaiunc  naturalissima 
ad  un  fìgiiO)  c qui  soprattutto,  dove  a Pisislrato  è data 
incunibeiiza  di  riverire  Gestore  suo  gcnilorr. 

V.  306.  Pensa  ec. . Telemaco  e Pisulrato  ( dice  la  I)a- 
riir)  erano  troppo  giovani  j»cr  arrogarsi  d’iuterprvUrc  da 
loro  un  Ul  giudiiio. 

V.  a46.  Riirnermi  il  vecchio  ec. . LVspresso  comandi» 
di  Minerva , e il  pro«ligio  da  Eleo»  interpretato  giustifìi^too 
questa  conilotta  di  Telemaco,  la  quale  scoia  di  ciò  parrebbe 
iourl>ana  e riprovevole.  D. 

V.  a85.  Filaco.  Figliuolo  di  Dioneo  re  della  Focitlc,  e 
jadre  dTfUio. 

V.  396.  Jl  Cielo  ec. . Il  ìc:Axì:  Pose  un  eccelsa  ma- 
gione, 

V.  3o4-  Dalla  pili  avara  ec. . Erifile  plesò  l'or  una  col- 
Lina  il  luogo  dove  Anfiaraotenevasi  celato  per  non  andare 
alla  guerra  di  Tebe , dove  saiwva  che  rimarrebbe  ucciso. 

V,  4u8.  Ferrea  atolta.  Cosi  il  testo  j ed  c da  notarsi  che 
la  frase  greca  sidereo  ( ferreo  ) cielo  , è jioi  venuta  anche  a 
noi , ma  in  signincaziooe  diversa. 

LIBIIO  DECIMOSESTO 

V.  4’*  F nudo  ec. . Fa  oiscrvarc  la  Dacier  che  presso  i 
Greci  e t Romani  il  letto  delle  priuu;  nozic  non  serviva 
mai  alle  seconde. 

V.53.  Stalli ^Jorestier,  disse  ee..  SoDoinlìnitiin  questo 
poema  i luoghi  dai  quali  sì  vede  manifesta  la  grande  vene* 
razione  in  clic  gli  antichi  avevano  gli  ospiti. 

V.  1 46.  De" M timi  su  i ginocchi  ec. . Cioè  : questo  è tut- 
tora dubbioso:  ed  è un  espressione  usiUU  dai  poeti  antichi 
e propria  dellanlica  mitologia. 

V.  179.  h'armigera  Dea.  Minerva. 

V.  348.  In  lagrime  ee..  La  Dacier  cita  a questo  luogo 
quel  posso  della  Genesi  : Elevavìtque  (Joseph)  oocerne/wn 
Jletu,  quam  audÀerunt  £gjptii  omnisque  donais  Pha- 
raonis. 

V.  3.^9.  Celerò  il  vero  ee. . Elisse  finora  avea  dato  sem- 
pre a tutti  menzognere  risposte;  ap|>arct-chi:iDdosiora  a dire 
il  vero , è ben  naturale  che  il  poeta  awertisca  il  lettore  dì 
questa  novità. 

ODISSEA 


LIBRO  DECIMOSETTIMO. 

V.  4^.  Pari  a Diana  ee. . Cioè  casta  come  Diana , e bella 
come  Venere. 

V.  53.  Dietro  alla  fama  ee. . Ovidio  dice  in  questo  pro- 
posito: 

lite  per  insidias  pene  est  mihi  niiper  ademptus 

Dum parai ^ invitis  omnibu.t , ire  Pj'lon. 

V.  73.  Penelope  ee. . Facea  voto  di  sagrificare  cento  buoi 
( nn' Ecatomlte  ) a ciascun  Dio. 

V.  353.  Mclanzio  ee. . Questo  capra jo  rappresenti  in  se 
la  dannosa  corruzione  de 'servì  che  accelera  e compie  U ro- 
vina delle  famiglie  disordinate  : c tutto  il  dialogo  è di  tanta 
vivezza  die  fluirebbe  servir  di  modello  agli  scrittori  dram- 
matici. 

V.  397.  OA^oA  ee.  .Melanziodk  il  nome  di  jeo//rv  Ca- 
ne, ad  Eumeo;  e so{^iunge  per  ironia,  che  puicb'csso  è si 
astuto  converrebbe  valersi  di  lui  uonpiùcume[iorcaio,ma 
ai  come  guidator  di  una  nave  speibta  a raccoglier  ricchezze* 

V.  t)oi.  Il  nume  ee..  Apollo. 

V.  (>58.  Ruppe  in  un  alto  ee. . Gli  antichi  annoveravano 
lo  starnuto  fra  le  cose  di  buon  augurio  ; c solevano  anch'essi 
dire  a chi  starnutiva.  Giove  ti  salvi. 

LIBRO  DECIMOTTAVO 

V.  9.  Irò.  L' noto  che  Iri  o Iride  si  chiamava  la  messag- 
gìera  degli  Dei. 

V.  16.  jimmiccar.  Far  cenno  c<^lì  occhi. 

V.  68.  Ma  voiec..  Ulisse  teme  a ragione (diceU  Dacier) 
ebei  Proci  intenti  a divorar  essi  come  padroni  ogni  cosa, 
non  diano  favore  aU’ospite  straniero  contro  il  domestico. 

V.  1 o4-  Di  questo  Eebeto  crudelissimo  tiranuodeil'Epiro 
non  trovasi  menzione  presso  gli  stc^ci.  Divìcn  quindi  assai 
più  probabile  la  tradizione, che  Omero  sotto  questo  nom« 
abbia  voluto  infumare  presso  la  posterità  qualche  suocon- 
temporaneo. 

V.  44®-  A'onèee.  .Eustazioossenrachene’versiscgueBti 
Omero  ci  ha  lasciato  il  più  antico  modello  dalla  poesia  sa- 
tirica. 

LIBRO  DECIMONONO 

V.  39.  Gineceo.  L'appartamento  destinato  alle  donne. 

V.  65.  Pari  a Diana  ee. . Questo  verso  di  duplice  loda 
s’incontra  anche  tn  alcuni  altri  luoghi  del  poema , e già  sic 
notato  nel  libro  XVII. 

V.  Ila.  Cagna. faeeiata.  Questi  è veramente  Tespres- 
sionc  del  testo,  la  Dacier  traduce  iuyoxinsolente:  ma  trop- 
|>e  sarebbero  le  modificizioni  da  farsi , chi  volesse  ridurre 
le  anticlic  poesie  dentro  ì confini  della  gentilezza  moderna; 
cd  allora  come  {>olrebberu  ^xii  trovarsi  d'accordo  illinguag- 
giu  c le  costumanze  ? 

V.  3<)o.  Ulisse  intanio.ee..  H pericolo  in  cui  Ulisse 
si  trova  giustifica  in  gran  porte  la  veemenza  <U  questi  modi 
e di  queste  minacce.  D. 

V.  63a.  Di  Pandaro  ec..  Secondo  la  comune  dei  poeti 
Filomela  fu  figliuola  di  Tcrco  c sorella  di  Progne.  Secondo 
Omero  essa  è figliuola  di  Pindaro  : si  nomò  prima  Aedone, 
ed  uccise  per  errore  Iti  che  una  sorella  di  lei  aveva  parto- 
rito a Zeto  (rateilo  di  Anfione. 

37 


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j3^  Is  O 

X.  6qo.  Degli  aerei  sogni  ee.  CiXi  Virgilio: 

Simt geminae  somiii  portati , quariun  altera  ferunt 

Cornea , (^ua  veris facilrs  datiir  exitus  umbris , 

Altertx , canderUi  perfetta  nitens  elephante  , 

Sedfalsa  ad  coelum  rnittunt  insontnia  Maiies. 

LIBRO  VENTESIMO 

V.  6j.  4SÌ?  cinquanta  ee. . La  Dacìer  cita  a qu«to  luogo 
quel  detto  del  SalmisUi:  Siconsistunt  cuU>ersuni  me  ca- 
stra f non  timebit  cor  menm. 

X.  85.  le  Pandaridi.  Mc«|»e,  Cleotóra  e Aeodooe  fi- 
gliuole di  Pandaro. 

V.  pa.  Àrtemi.  Diana. 

T.  366.  Rwo  sardonico.  Cosi  anche  il  testo^  «ì  è noto 
quel  ch’s’inlcotLi  |ier  riso  sardonico.  In  quanto  allWigitic 
di  questa  o-sprcsslone  racojntasi  fra  le  altre  cose  esservi  stala 
nella  Sardegna  l’usanza  di  uccidere  tutti  i vecchi  die  ollre- 
jxissavanoi  sessant’aiuii,  obbligandoli  a ridere  nell  atto  che 
erano  uccisi. 

LIBRO  VENTESIMOPRIMO 

T.  361.  lapiti  e Centauri  ec..  Piritoo  unude’Lapìti 
mariUmlosi  a I|>p«.tlaniia  figliuola  di  Adrasto  invitò  alle 
nozze  gli  altri  Lajiili  e iCcnUmri.  Questi  ultimi  aveudoLc- 
YuUi  eccessivamente  fecero  nascere  una  rissa  che  mando  sos- 
snpra  il  banchetto  e uc  fra-siornò  tutta  la  letizia;  d'omle  Ura- 
sio  jioi  disse  ^ 

At  rw/jui.t  modici  munera  Liberi 

Centatirra  monet  cum  Lapithis  rixa  super  mero 
Debellata. 

Il  primo  \toi  a provocar  questa  rissa  fu  il  centauro  Euriiio- 
»e  * mentovalo  qui  da  Omero. 

V.  5o6.  Traea  seduto.  La  Dacicr  nota  che  Omero  rap- 
presentandoci Ulisse  seduto , ha  voluto  mostrare  l.i  somma 
Lcilità  con  cui  egli  sostenne  questa  provala  cui  le  fmzc  dei 
Proci  non  erano  bastate. 

LIBRO  VENTESIMOSECONDO 

V.  56.  Quando  li  vera  ee. . I morti  (dice  piacevolmente 
la  Dacier  ) hanno  sempre  il  torto  i e perciò  Euriuiaco  river- 
sa la  coljia  di  tutti  i muli  ùlti  dai  Proci  nella  casa  di  L liasc 
«opra  il  solo  Anlìwx) , che  già  è tolto  di  vita. 

V.  1 14‘  Il  prevenne  ec..  Ad  Eustazio  non  piace  che  Te- 
lemaco ferisca  nel  tergo  Anfinomò , )iareadogli  clte  t vaio- 
firai  debbano  assalir  sempre  di  fronte  il  nemico.  La  Dacici- 
lo  scusa)  dicendo  che  in  un  combattimento  cosi  ineguale 
i.oD  è sempre  necessario  di  osservare  tutta  quella  delicatezza 
che  ti  richiede  nei  ducUi.  Potrebbe  aggiuDgersi  ancora  che 


T E 

nel  pericolo  dei  padre , Telemaco  non  jHJlcva  punto  esitare 
su  quello  che  fosse  da  farsi. 

V.  3aa.  Amici  disse  ee. . Anche  qui  la  Dacicr  cita  quel 
lui^o  dei  Paralìp[X)Uiem  : Rex  auter/i  Sjrn'ae  praecrpe- 
rat  dncibus  equitaius  suì,dicens:  Nepugnetis  cantra 
minimum  aut  cantra  maximum^  nisi contm  solar»  rvgent 
Israel.la  generale  è una  n*gola  ue\'Ouibaltiuiculi  di  wtU- 
nare  ai  soldati  di  volgersi  contro  coloro  che  più  ixissouo  iia- 
|)odir  la  vittoria. 

V.  5o8.  Qual  par  leone  ec..  Io  questo  luogo  osserva 
Eustazio  che  le  iimiìitudi ni  Unto  frequenti  neiriliadc  sono 
invece  rarissime  ncirOdissea  ^ ciòche  procededalia  diveisa 
natura  degli  arguuiculi. 

a.  558.  Xrt piccola  torre.  Propriamente  il  ro?o,ethfi- 
zio  rotondo  e fioìenle  in  un  comignolo,  destiuato  a ripoivi 
gU  ulcoailicasdlinglii. 

LIBRO  VENTESIMOTERZO 

V.  a3.  Io  mai  ec. . Eustazio  dice  che  Omero  accenna  que- 
sta cin»stanza  di  un  sonno  più  profondo  del  consueto  i»er 
rendere  veriaìmilc  che  PeneloiH:  non  tósse  svegliaU  ihd 
grande  schiamazzo  che  la  balUglia  coi  Proci  aveva  dovuto 
produrre. 

V.79,  Un  Nume  ec..  Coex  Omero  dalla  incrctlulUa  di 
Penelope  trae  argomento  nuova  lode  ad  Ulisse  j quau«lo 
la  vittoria  da  Ini  riporlaLa  e creduta  superiore  a tuLUj 
quanto  un  uomo  può  faro , e degna  solo  d un  Nume.  D. 

V.  198.  Kida  lavacri  ee. . Tutto  quellocbeOmeroviene 
dicendo  di  qui  innanzi  fino  all  abbracciamento  di  Penelope 
c-on  Ulisse  è condotto  con  artificio  luirabilc»  c suol  esser 
citato  ad  esempio  de 'cosi  delti  riconoscimenti. 

V,  3ao.  Tiresia.  Celebre  indovino. 

LIBRO  VENTESIMOQUARTO 

V.  I Mercurio  ec. . Una  sola  os-scrvazione  par  necessaria 
inlornoa  questo  libro,  cioè  che  Omero  vi  ha  comprese  al- 
cune rose  le  quali  uon  potevano  entrar  ndllUade , sebbene 
siano  il  compimento  della  storia  di  quel  iK>eina.  Può  notarsi 
eziandio  che  se largomenlo «leU’Odissca  fusa*  il  ritorno  di 
un  privato  e il  suo  riconoscimento,  lutto  questo  libro  p..- 
Irobbc  [varere  soverchio  j nia  trattandosi  di  un  princi|»e  , la 
storia  del  suo  ritorno  finisce  sol  quando  egli  abbia  ripi- 
gliata nel  proprio  |iaC8e  la  signoria  di  prima  ; [lerciò  questo 
libro  dove  si  racconta  la  vittoria  di  Ulisse  siq^ra  la  fiiziouc 
di  Antinoo , è una  \tarte essenziale  dei  poema.  Sì  aggiunga 
cb’essu  ci  ia  uonosccre  alcune  cose  assai  iutcre$.<iaDli  ri- 
guardo  alla  teologia  ^lagana  od  omerica.  Del  resto  i |ierso- 
naggi  dei  quali  [«aria,  c i fatti  a cui  allude  sono  tutti  di 
fàcile  iotelligcuza  a chi  ha  letti  i due  poemi. 


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INDICE 


Il  numrro  romano  imUcn  il  libro,  l'nrabico  il  rtrio 


A 

AcasloXlV.4''*- 

Acheronte,  fiume  inCTiMle.X,fi3S.  _ , 

Achillo , figlm  <*>  1 ' l""' 

111  1/(0.  V,  39Ù.  Vili,  ()<).  U !UU  animu  l«rU  cou 

liliie  M , 591 . Comesi  iwr  le  sue  armi,0K3.  liinmlro 
rtella  »ua  anima  cu.  quelle  ae'l'roci , e a Aga.nc.mone, 
XXlV,aieaeg. 

A croni'O.  viii,i46- 
Afia;ml«.X\IV,3»8. 

Agauicam.ue , actto  Auitle.  Ili , 10.  .Sua  morte,  .^17 
c SCR.  Xl,5a3.  XIII,  448.  Sua  anima  con  qucUad’Achil- 

Ic.  XXIV,  j6  c seg.  Le  narra  le  sue  esequie,  5t)c«T;- 
Ricorda  U tradimento  d’Egbto,  i3o.  Parla  all  auimad  An- 
fimeilonte,  i4l.  Lmia  L’Usue  e Pcnelode , 349  e 

AgelaojCSorU  Telemaco  a tar  ai  cIk- la  madre  ti  riina- 
rili.  XX,  4u4.  Kinchiuso  con  gli  altri  Proci,  tenia  ili 
muovere  il  i«opolo  a rumore.  XXII.  l63  eseg.  Sgrida  Mi- 
uer%a,cr«lendula  McnUire,  36j.UIÌMe  lo  uccide,  3(U. 
Ajacc  d'OilA).  IH,  i4o-  Affogato  iu  mare.  IV, 639. 

L'iistc  ne  vede  l'anima  ncinnlcriu». 

Ajace  di  Telamone  XI , 680  c scg. . | 

Alcinfa»,  re  dc'Feaci.  VI,  17.  Suo |wlaa*o.  VII,  1 1 1- 
RircveL'liMe.  VH,  3a3.  Parlai, lenU  co  Eeaci  sopra Llisse 
■Vili,  6.  Celebra  i giuochi , i3o.  Ordina  a'capi  deT«m 

il  regalo  da  farsi  a disse , SaS.  E alla  moglie  di  appresUrc 

una  cassa  per  ri|H,rvi  i regali,  5Ga.  Domanila  L liste  del* 
Tesser  suo,  717.  E se  abbia  wluto  neUlnfernoalruno  de* 
suoi  corapgni  nella  guerra  di  Troja.  XI , 477-  .Sentito  ila 
LUissc  il  raocwito  dc'suoi  casi  gli  <ià  un  altro  regalo.  XII I, 

1 6.  Sagrifica  un  bue  a Giove , 35.  Fa  distribuire  lU  l vino 
a lutti  i Feaci,  che  Ubano  a Giove  suj»plicandolo  pel  buon 
viaggio  d’UlUse,69.  Accoinj«gna  IjUsse  fino  alla  nave,  83. 
"Vede  la  nave,  retlucedairavercaccomjagnatn  UUtae,  fer- 
niatn  in  mare  da  X^cttuno , e mostra  a'coiupaguì  verificato 
Un  antico  pronostico , 3 1 o ■ 

Alcmcna:  sua  aniiiu  veduta  ,la  Ulisse.  XI , 34>. 
Alcroeóne,  figliuolo d'Anfiarao.  XV,.3o3. 

Alfi^v,  figliuolo  di  Dìocle.  IH  ,637.  XV,  339. 
AlibunU*.  XXIV',  38g. 

Alio , figliuolo  d’Alciiioo  : balla.  Vili , 1 56 , 496. 
Alilerse,  figlio  di  Maslore,  spiega  a’Prori  laugurio 
delle  due  aquile  mandate  da  Giove.  Il , 3oa  e scg.  Euri* 
maco  locootn«ldice,  3 35.  Telemaco.  s,ansandoi  Proci,  va 
da  lui  come  amico  |«terno.  XVII,  85.  Parla  a faviM 
d'UUsse  nell  asscuiblca  degli  Ilaccsi.  XXIV , 573  c $c*g. 
Aloéo.  XI,4of». 

Amfialu.  VHI,  149. 

Amfilrione.  XI , 343. 

Amitaone.  Xl,33a. 


.Amniso.  Ivi  e la  grotta  d'Eitia.  XIX  , s33. 

Anabesiuw.  Vili,  i49- 
Aucbialu.  Vili,  i47* 

Aiidremone,  |,adre  di  Toante.  XIV,  596. 

Anfiarao.  XV,3ooeseg. 

Aiifllocn.  XV,3o3. 

Anfimedonte,  figlio  di  Melantio,  unode’Proci  r AgrUo 
Io  eonfortaa  dtfendersida  Ulisse.XXl  l,3o7.  Ferisce  TpU** 
maco  leggiermente,  ed  e du  lui  uccìso,  35u.  Sua  anima 
raoroota  ad  Agamvunune  resterminiu  de’Prod.  XXIV, 
iGocseg. 

Anfioomo , uno  de'Proct  : vede  la  nave  di  Telemaco , già 
tornato  da  cercar,*  il  padre.  XVI , 38o.  Hisponde  ad  Aulì- 
noo,  4^8.  Hegula  due  |uni  a Llbse.  XV  IH,  l5o.  Alle 
sue  ginocchia  sede  Ulisse,  quando  Eurimacu  gli  fu  sopra 
con  UDO  sgabello,  487.  Arringa  a lavor  deU'isicsso,  5i  i • 
Spiega  raiigurio  dell'aquila  edella  colomba.  XX,  399.  E 
ucciso  «U Telemaro.  XXH,  1 15. 

Aniìone.  XI, 337, 

Anflone.  XI, 363. 

Anlìtéa,  avola  d'UIisse.  XIX  , 5lo. 

Anfilrile.  XH , 80  , I a8. 

Autìclcu  figlia  d'Autolico.  XI,  i (4* 

Antifiile,  la»trigoue.  Sua  figlia  interrogata  da'com{«gni 
d'Llisse.  X , t38.  Uccide  uiiutii  loro,  i53.  Sua  memoria 
attrista  gli  altri  compagni,  367  cscg. . 

Antifate  , fratello  di  Manlio  e padre  d'Oich'*o.  XV,  198 
Antifo.  Telemaco  va  presso  lui  fuggendo  da'Pruei 
XVH,85. 

Anliloco,  figliodi  Nestore,  morto  a Troja.  Ili , i4s 
Sua  .mima  è velluta  lii  U Ussc.  XI , ,5<)3.  Sue  ossa  riposte 
con  quellcd'.Acbillee  di  Patroclo.  XXI V'  ,107. 

AntiuiKi' sua  rùiKKla  a Telenuco.  Il,  109.  Gli  trama 
insidie.  IV , 796  e seg. . Si  stupisce  del  ritornato  Telemaco, 
e pro)M>ne  di  ammauarlo.  X VI,  4oi  escg..  Esgridatoda 
Peueloiw  ,44^®  cgb  il  PiU'caro , perchè  aveva 

coodoUo  UUssc  ad  luca.  XVII , 4^^*  Risponde  risentito 
a Telemaco  « minaccia  Ulisse,  497-  [wrcuote , 563. 
Stimola  Ulisse  ed  Irò  a battersi.  X Vin,5a.Mi»nccia  Irò 
che  paventava  del  cimento , i o l e scg. . Ricala  Ulisse  d'ua 
ventriglio,  1 4^  ® **(?•  • consiglio  a Penelojic  353.  Cc.<i- 
forta  i Pnxù  a soffrire  il  severo  parlare  di  Telemaco.  XX, 
3a8.  Ha  speranta  di  vincere  nel  gioco  dcirarco.  XXI,  1 iG. 
luiiwne  a'Proci  che  jwr  oniiiic  cumincioo  il  giuooi , 1 75. 
Riprende  Lcode , perchè  non  jx>lè  lemlcrc  l'arco  d'UUsse, 
3u4‘  Comanda  a Mclanziu  che  scaldi  l’unto  per  facilitare 
la  lesa  dcirarco,  3i3.  Pro|Hjne  differire allallro  giorno  il 
giuoco  fléli'aroj , e di  sagrificare  ad  A|k)Uo  arciero , 3o5.  e 
joqj..  Brava  Ulisse  per  aver  chiesto  l’arco,  34*.  E uociao 
da  Ulisse  XXII,  19. 

Antio|ia.  XI,  33.5. 

Apollo  : uccise  il  piloto  di  Menelao.  Ili,  364-  Suo  vati- 


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i3j  IN] 

dolo.  Vili , 98.  Uccise  Eurito  per  averlo  provocato  a 
saettare,  3o 3.  ^el  consìglio  degli  Dei  parlaa  Mercurio  45 1 . 
Maestro  de 'cantori,  6a8  e seg. . Sparviere,  uccelloalui 
sacro.  XV,  653.  È pregato  da  Mclanzio  che  ferisca  Tele- 
xnaco.  XVII,  3o3.  È invocato  da  Telemaco  contro  a'Proci 
XVUI,394. 

Arcesio.  XIV,  a 16.  XVI,  i3i. 

Arete,  moglie  d’Alcinoo  manifestata  da  Minerva  aTJUsse 
VII , 68.  Per  comando  d* Alcinoo  dà  una  cassa  a Ulisse  da 
riporvi  i regali.  V III , 56a.  Dice  a'Feaci  che  Ulisse  c suo 
f«pite.XI,  44^- Ulisse  le  presenta  unacopimdi  rioo.XIII, 

^5.  Manda  alcune  donne  condiversi  oggetti  mentr 'egli  s av- 
via alla  nave , 84  e seg. 

Areto.  III.5a3. 

Aretusa  : sua  fonte.  XIII’,  47J). 

Argo,  riconosce  Ulisse  suo  padrone  dopo  venti  anni. 
XVII.  35o.  Muore , 3^7. 

Argo,  città.  IH,  334.  XV,  100,  394.  XVIII, 3o6. 
XXI,  i33. XXIV, 47. 

Argo , uomo  di  cento  occhi:  Mercurio, per  averlo  ucciso, 
soprannominato  Argicida.  1 , 56.  Sua  nave  XII , y3. 
Arianna.  XI,  430. 

Aribantc  Sidonio.  XV,  533. 

Arpia.  XIV,  439.  XX,  100. 

Artacia,X,  139. 

Aslalione,  servo  di  Menelao.  IV,  a8o. 

Asopo , padre  d'Aolio|ia.  XI , 335. 

Atene  XI, 433. 

Atrèo.  XI, 553. 

Altoride.  XXni,285. 

Aurora,  rapila  da  dito.  XV,  3o6. 

AutolicOjCgliodi  Mercurioe|ìadrc  di  Penelope.  XI,  1 15. 
XIX, 484.  XXIV, 4a3. 

Autouoe.  XV11I,337. 

B 

Bscco.  XI , 435.  Anfora  d oro  donata  da  lui  alla  madre 
d'AchUlc.  XXIV,  103. 

Boote.  V,  35o. 

Borea. XIV,  agS,  566.  XIX, 638. 

C 

Cadméì, popoli  XI,  355. 

Calipso,  ritiene  Ulisse  che  non  tomi  a casa.  I,  sS.  IV 
698,  V,  17.  Sua  isola  71. Congeda  Ulisse,  307.  Giuiadi 
non  gli  fare  alcun  male , s33  c seg.  .Cour’cHa  trattò  Ulisse 
nell’isola  Ogigia,  VII,  3o8  c seg..  VIU,  589  e seg. 
IX , 36.  Predisse  ad  Ulisse  Tiogiuria  che  i suoi  rom{ugui 
avrebbero  fatta  al  Sole.  Xll , 496  e seg. . Lo  accoglie  dnjio 
il  naufragio,  585.  XVll,  170.  Bacconto  di  Ulisse  a Pe- 
nelope sopra  la  dimora  ch’egli  fece  con  Calipso.  XXIII, 
435  e seg.. 

Cariddi.  XII,  i36,3o9.343  554.  XXIII, 430. 
Cassandra  , figlia  di  Priamo.  XI , 536. 

Castoro,  figliuolo  di  Tindaro  e di  Leda.  XI  ,391. 
Castoro  llacide.  XIV,  a38. 

Gefaleni, popoli.  XX,  360.  XXIV,  479,  545. 

Cerere  : (atto  di  lei  con  Giasone.  V,  i63. 

Olio,  iiola.  III,  3ig. 


ICE  ^ 

Ciclopi:  loro  superbia,  VI,  6.  Dove  abitavau»,  5. 
Messi  al  jari  co’GiganU.  VII,  36S.  Loro  costumi,  ix] 
134  e seg. . Soccorrono  Polifeoio,  519. 

Ciconi , po{K>li  domali  da  Ulisse  IX,  4?j  ?5  309. 

Cidoniì  popoli.  Ili,  376,  XIX,  318. 

Cimmerii , popoli.  X 1 , 1 8. 

Cipro  isola.  Vili, 484.  XVII , 537. 

Circe  ; istruzione tlalu  da  lei  a Ulisse.  Vili, 593.  È ri-  ” 
tenuto  da  lei.  IX,  38.  Alla  sua  isola  ( Eéa  ) , giunge  Ulis- 
se. X,  178.  Incanta  i coiii|Kigm  d’Ulissc,3lo.  Ulisse  maucfit 
a lei  ì suoi  cotupgui  per  seppellire  Klpenore  XII , 1 1 . Dà 
loro  da  mangiare,  c predice  ad  Ulisse  alcuni  pericoli , 49. 

Si  congetla  da  luì,  188.  Suo  comandamento  dimenticato 
da  Ulisse,  396.8001  vaticinii  palesati  da  Uliise ai  coiii|>a- 
gni,35l . Suo  fatto  raccontato  da  Ulisse  a Penelo^ic.  XXilX, 
393  e seg. . 

Citerà,  IX,  104. 

Climene,  veduta  da  Ulisse  neirinfcrno.  XI,  497. 

dimeno,  padre  d'Euridice.  Ili , 576. 

Clitennestra,moglied’Agamennone.  III,3o3.  XI,  537  . 

Clito:  rapì  l'Aurora.  XV,  3o6.  e seg. . 

dito  : riceve  in  consegna  i regali  fatti  da  Alcinoo  a Te- 
lemaco. XVI . 349  e 35o, 

Clitonéo,  figliod’Alcinoo.  Vili,  157. 

dori,  moglie  dì  Neléo.  XI , 365. 

Cocìto , fiume  infernale.  X , 638. 

Cratei , madre  di  Scilla.  XII , i6f . 

Creonte,  padre  di  Mcgara.  XI,  345. 

Creta, isola.  IH,  347,375.  XI , 431.  XIII, 3o5.  XIV, 
s35,  373 ,355.  XVI , 74.  XVlI,  637.  Ila  novanta  città  : 
sua  descrizione,  XIX,  33o  , 4l3. 

Cretéo.  XI , 3o3. 

Cromio.  XI  ,370. 

Ctesio.  XV,  5i4- 

Clesippo.XX,  37 1 . Sgraffia  coH’arme  Eumco,ed  è ucciso 
da  Filezio.  XXII , 353. 

Ctimcnc,  figlia  di  Lacrlc.  XV  , 45a. 

D 

Damastorc , padre  d’Agelao.  XX , 390. 

Dcuielore,  tìglio dTaso, re  di  Cipro.  XVII,  .536. 

Dcmoiloco , cantore.  yill,5a.  Cauta  d’Ulisse,  p<*i  di 
Marte  c Venere,  35a.  K regalato  a mensa  da  Ulisse,  638. 
Canta  del  cavallo  di  Troia,  647.  Cauta  nella  («arlcuza 
tl'Ulisse  da  Alcinoo.  Xlll , 4o. 

Domoptolemo.  XXII,  3oi. 

Dcucaliouc , Jiadrc d’Idomcnéo.  XIX,  3s3. 

Diana.  XI,  334,4^4  693.  XVU , 45- È pre- 

gata da  Peneloi>e.  XX , lo4. 

• Dioclc  , re  di  Fera,  riceve  Telemaco.  Ili,  636 
XV,  338. 

Diomede,  figlio  di  Tidéo.  Ili,  3i5. 

Dite  o Èrebo,  regioue  infornale.  XI,  793.  XXIII, 

333,  4i3. 

Dodona.  XIV,  391.  Oracolo  lU  Giove.  XIX,  36a, 

Dolio,  8cr\^  di  I.aertc.  XXIV,  agS. 

Dolio,  padre  di  Melanzio.  XVII , a5a. 

Dorii,  popoli  di  Creta.  XIX,  319. 

Dulichio  (luogo).  IX,  39.  XIV,  4^**»  47'^'  XVI, 
i37  , 383,  495.  WHI . 157 , XIX,  159 . 357. 


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indice 


i53 


K 

Ebe.  XI,763. 

EcbiTruoe.  HI,  533. 

E*'lieQ(X) , il  l'ìù  aDziuoo  dc’Fcaci.  VII,  309.  \I,  447 

Echelo.  re  d'£pu~u,  aUtr[iuUire  XV  lllj  lu4, 

i43.X\l,3tì7. 

Edi^x).  XI , 35o. 

Eéa,  isola.  X , 17B.  XII , 3. 

£cta,  fratrllu di  Circe.  X,  181. 

Egisto  uitide  AgajuenDuuc . 1,53.  Questo  làlUi  c rar- 
conLitoda  X’estore  a Telemaco.  Ili  ,3o3.  È urriso da  Ore- 
ste, 33a.  Suo  tradimento  narrato  dal  veglio  inanità.  1 V , 
656  c si^..  Anime  degli  uccisi  io  sua  casa  a[ipr«*ad  l.lisse 
con  quella  d’Agameonone.  XI,  49^  ■ D’anima  d’A- 

gameuuuDC  tte  rauiuu’UJurailtradimcutuaquelJad'AiJliiile 
XXIV,  io6e  scg.. 

Egitto.  XIV  , 387 , 3a3.  XVII , 5i 5 e scg. . 

I^uii , jio|K)li.  IV,  107.  XV  11 , 5a3. 

Egisio  . |tìdre  d’ Antifo.  LI , 3 1 e seg. . 

EUto,  uiiode'Pryci . ucciso  da  Euiucu.  XXII , Big. 

Elealrm.  Vili, 

Elcna,  figlia  di  Giove,  moglie  di  MeneUn:  dopo  aver 
partorita  Erm«jnc,<livcnne  sterile.  IV , 16.  Viene  doveù 
il  iiiaritu  e Telemaco,  i .57.  A.ssisa  wl  suo  lavoro  |«irb  con 
Menelao  di  Telemaco  1 77.  Piange  io  ravvisarlo , 339.  Me- 
Ac-oU  il  ncj’cnte  col  vino  j»er  tor  via  ogni  tristotsa  dagli  af- 
tìitli , a83.  Narra  alcuni  fatti  d’UHsse  nella  guerra  trojana, 
3io.  Fa  preparare  i letti  j>er  Tclemaw»  cPisistnito,378. 
Caitta  della  morte  di  molli.  XI , 554.  E perciò  maledetta 
da  Eunuk».  XIV,  84-  Cava  fuori  un  b(dlis<iimo  velo  lavo- 
rato. XV  , i3a.  Ibjiia  un  pploa  Teiemaoj,  i54. Spiegai! 
vaticinio  dellaquiU,  309.PI  riferito  da  Telemaco  a Penc- 
lo|«,es.ser  ella  stata  veduta  da  lui.  XV  H , i44  Penelo{«  la 
cita  in  esempio  ad  lilisse.  XXliij,  373  es«‘g. 

Elide.  Xm,335.  XV,36S.  XM , 4i3. XXI V,  547. 

P3isio(  campo).  IV  ,706. 

Kllada,citlà.XI,633. 

£lles(H>ntu:  sulla  «ua  spiaggia  fu  Citta  la  tonilu  a* Greci 
morti  a Troia.  XXIV , 112. 

Eljìenore:  sua  morte.  X,  683.  Sua  anima  ap^iaread  Ulis- 
se , 68.  E se|K>ltu.  XII , 30. 

Enipéo( fiume).  Xi,3o5. 

Euo|>e , (udre  di  Leodc.  XXI,  178. 

Eolia,  isola.  X,  I. 

Eolo  : r^la  Ulisse  d'uo  otre  pieno  di  venti.  IX , 39. 
XXUI,  399. 

Epi'i,  popoli  abitatori  d'Elide.  XIII,  .126,  XV,  36g, 
XXIV, 547. 

Epco,  làbbricatore  del  ca  V’alio  trojanu.  VT 1 1 ,648.  X 1 ,657 . 

imperito,  nome  preso  da  Ulisse  per  farsi  cmlerc  figlio 
d’ABdantc  re  d’Alibante.  XXI V ,.390. 

Epicasta  , madre  d’Edipo.  X l , 348. 

Epiro.  XIV,  1 34-  XVI II , 104.  XXI,  i33. 

Ercole.  Vili,  396.  XI,  346.  Sua  auima,  veduta  da 
Ulisse  in  compgnia  d’EbenellTuIcruo,  759cscg..  Uccise 
Ilìlo.  XXI , 3o  c st^f. 

Erembi.  IV,  I08. 

ErelmiH) . V 1 1 1 , 1 48. 

Eretlw)  Alcuicse;  Minerva  nella  casa  di  lui.  VII,  io.5, 

Krilìle.  XI,  4^^‘ 


Erimanto,  monte-  VI,  147- 

Krmióne,  6gIiuoU  d’KIcna.  IV,  i8. 

Eriiiiii,  Furia.  XV,  388. 

Esuue,  figlio  di  Crcteec  di  Tiro.  XI , 33i. 

Eteuw:  y.  Eclieneu. 

Kto>oi^  figlio  di  Boele,  servo  di  MeneUu.  IV, 49*^^ 

1 15, 175. 

Etune,  nome  preso  da  tllinse  per  fìngersi  a Pene- 
lope figlio  di  Deitcaliimc , figlio  di  Minosse  re  di  Creta. 
\IX.334. 

Piubt'-a.  VII,  4n9* 

Kumik),  porcaro  d'UIisse.  XIV,  4.  Dà  da  mangiare  al 
p idrone  creduto  un  forestiero  ,100  scg. . Narra  i CitU  de* 
Proci  ij3.  Oumauda  a Ulisse  cbi  egli  sia,  333.  Sagrifira 
un  l'orco, 499.  Ciunsìglia  Ulisse  a non  jartirsi  da  lui.  XV 
^|u4.  Gli  narra  la  sua  etmdizione,  490  cscg..  Actxiglie 
con  festa  Telemaro.  XVT , 16.  Avvisa  P«neIo|>e  del  ritorno 
del  figlinolo,  36u.  Torna  ad  Ulisse  ed  a Telemaco,  489  > 
Conduce  UlÌ!>sc  alla  città.  XVTl,  335.£  seg..  ÈuuUratLaUt 
da  Melouaio  caprajo  d’UlUsc,  3D9.  Porta  vivande  e or- 
dini ad  Ulis.se  da  parte  di  Telemaco,  E sgridato  «la 
AnUnoo,457.  Avvisa  Ulwsc  clic  vada  da  PcuelojKijGóg. 
Si  licenzia  daTeletnam,  7*4  - IXmianda  a Ulisse,  come 
sia  risi»cUaUMla‘Proci.  XX,  aio.  Prega  gli  Dei  che  torni 
Ulisse,  a83.  Reca  l’arco  a’Proci.  X\i,  i8.  M««tra  a 
Ulisse  il  desiderio  ebe  Iwcb’egli  torni,  i46.  Ia>  rit»nosce, 
367.  Riceve  ordine  da  lui  di  dargli  il  suo  ano,  c Gtr  ser- 
rare «falle  donne  tutte  le  porle  di  casa , 381 . V.  ikmIo  alU 
guarda  d’uoa  |»orU.  X.Xll,  lÓa.  Trova  Melausio  nell* 
.stanza  «lelParmadurc , e i>er  ordine  d’L  li.s»e  lo  «..■.ivniic  al 
|»al<x)  a35.  Uccide  Elato,  329.  E sgraffiato  daUuaip|>o, 
c |icrcuotc  Polibo,  343.  Con  Teiema«x)  e Filezio  impi«v.a 
le  d«>une  malvage  coinaudaudolo  Ulisse,  60I.  Gli  ilc'«si 
latmostraziodi  Mclauzio,6o3.  Fa  restare  il  ballo.  XX  IH, 
374*  Parte  con  Uli«e  d.iUa  città, 476. 

Eupitc,  ladre  d’Antiuoo:  esorta  grilaccsi a vcn«li<5irsi 
di  UIi«se  per  ruccisioue  de 'Proci.  XXIV.  5.15.  Una  (arte 
dcgl  ltacesi,  lo  segue,  .591.  E ucciso«laIoiert«,6fÌ3- 

Euriade,  uuudc’Proci  .’c  uccìso«la  Telcimnxi.XXU,  3 39. 

Eurialo,  vince  alla  lotta.  V HI,  168-  Fa  che  Laoda- 
mante  sfidi  Ulisse  a provarsi  uè 'giuochi,  e di  poi  egli  stesso 
uiiTtlragU  uou  lo  stimare  in  quclPairarc  j onde  Ulisse  se  ne 
riscute,  ao3.  Gli  è imposto  da  Alcinoo  die  afqiiacevolisca 
con  larolcecon doni  Ulisse,  530. 

Euribate , servo  d’UIisse , gobbo.  XIX,  3o9- 

Euricb'a  , fìgiiiuita  d’Opi , figlio  di  Pisenore,  comprata 
«la  Laerlc  al  ji?e7xo  di  venti  buoi , cd  onorata  c couscrvaU 
intatU  ; balia  d’UIisse.  1 , 348.  Piange  per  la  partenza  di 
'IVlamaco,  453.  Coosola)Penelope,  afflitta  |k?I  figlio.lV, 
q34’  Xa  incontro  a Tel«!maco.  XVH.  38.  Lo  loda , perche 
comincia  a prender  cura  dcirarmi  dclpa«lre..XlX,:!y  .Lava 
i piedi  ad  Ulisse,  470.  Lo  riconosce  , 574.  M«wlra  a Tele- 
maco che  Ulisse  è stali»  trattato  bene  da  PeoelojK'  ^ c di  poi 
dà  alcuni  ordini  alle  donne  di  casa.  XX,  175.  Chiude  le 
porle  del  palazzo.  XXI,  4^3.  Rivela  a Ulisse  quali  donne 
in  sua  cisa  aleno  state  ree.  XXll,  5a8.  Porta  zolfo  ad 
Ulisse  |»er  mon«bire  b casa,635.  Avvisa  Peiiebipe  ebe  è 
liirnato  Ulisse  ed  ba  uecìso  i Proci.  XXIII,  i.  Apparec- 
chia per  Online  di  Pcuelope  il  letto  a«l  Ulisse,  3i7eseg. 

r,uriiUiiiante,  uno  de 'Proci  ; suo  regalo  a Penebpe. 
W HI,  366. 


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i34  I N D 

figlia  di  Ciimcno,  moglie  di  Nestore.  I II,  57.1. 

Eurìloco:  gU  tocca  io  sorte  landare , a spiare  l'isoLi  di 
Circe.  X,  365.  Disluglie  gli  altri  compagui  daliaodare 
da  Circe,  e<l  è minacciato  da  (Jlisse  , 5^'  e scg. . Tiene 
le  vittime  pel  sacrifizio.  XI,  3Q.  Lega  Ulisse  mentre  passa 
dalle  Sirene.  XII,  a6a.  Vuole  smontare  con  gli  altri 
comjiagni  neirisulu  del  Sole,  36o  e sog. . Li  consiglia 
che  nc  ammazzino  le  vacche,  44^*  K lulmiuato  insieme 
cogli  altri  da  Giove,  536. 

Eurimacu  , contraddice  aib  dichiarazione  dciraugurio 
fatta  da  AUtersc.  Il,  aa6  e scg. . A lui  il  padre  cd  i fra- 
telli vogliono  rimaritare  l*encloi>e.  XV,  a4-  Oli  c in- 
viato Teoclimeno  da  Telemaco  dopo  il  suo  ritorno,  643. 
Dà  avviso  a’Proci  del  ritorno  di  Telemaco.  XVI,  3yo. 
Ama  Mclanzio.  XVII,  3lo.  Eletto  da  Tcleiuaco  ad  ap- 
provare il  suo  parere  nel  fatto  dTro.  XVIII , 73  c scg. . 
Loda  Penelope,  3o5.  Suo  regalo  a lei,  363.  Amante  di 
Melanto,  4^^  ^ * Motteggia  Ulisse,  443-  Lo  vuol 

colpire,  l'on  uno  sgabello  , 467.  Vuol  cacciare  dal  palazzo 
d'Ulisse  Telemaco.  XX,  44<^  ^ lagna  di  non  [xv- 

ler  tendere  Parco  d’Ulis-se.  XX  392.  Mostra  a Penelope  il 
disonore  che  risulterebbe  à’Proci,  se  Ulisse  tendesse  Parco. 
3Sl.  Cerca  placare  Ulisse  XXll , 55.  Cou&iglia  i Com- 
pagni a combatterlo)  resta  ucciso,  100. 

Eurimedusa  , ancclb  di  Nausica.  VII,  ii. 

Eurinome,  dispensiera  di  Penclo]w  : impreca  a'Proci. 
XVII,  6o3.  Consola  Penelo|>e.  XVIII,  aia.  Reca  una 
sedia  per  Ulisse.  XIX,  118.  GetU  im  panno  sopra  lui, 
che  dormiva.  XX,  6.  Lo  lava.  XXllI , io3.  Gli  prepara 
U letto,  363. 

Eurinorao  , XXII,  33o. 

Euripilo,  figliuolo  di  Tclefo,  ucciso  a Troja.  XI,65o. 

Euro.  XIX , a5H. 

Eurito,  Ucciso  da  Apollo.  Vili,  396  e seg. . 

Eurìzione.  XXI,  35o. 

Evanti-o.  IX,  aSo. 

Evenore.  1 1 ,3oa.  XXII  ,368. 

F 

Faetusa.  XII,  171. 

Fca,  KFera. 

Feaci, dominati  da  Alcinoo.  VI,  3.  XI, 436.  Sono  m 
ira  a Nettuno  per  aver  ricondotto  a casa  Ulisse.  Xlll, 
i8a.  Nominati,  SS;.  XVI,  a6o.  XIX, 345. 

P'ebo.  r.  Apollo. 

Fedra;  sua  anima  \‘edutadaUllis5cnellTufcrno.Xl/|ao. 

Femio,  mitiga  i Proci,  col  canto.  I , aia  XVII,  3l8 
e scg. . Domanda  la  viu  ad  Ulisse.  XXII,  419.  Prega  per 
lui  Telemaco,  453. 

Fenicii.  XIII, 3aa. XV, 587. 

Fenicia.  XIV,  343- 

Fera, o Fca, città.  III, 6a5.  XV,  137,367. 

Ferete.  XI  . 33i. 

Fetonte , preso  pel  Sole.  XXIII,  3 1 3. 

FHlnae,rede’Tcsproti.  XIV, 376.  XIX, 353. 

Filaco.  X V,  a85. 

Filezio,  bifulco  d'Ulisse  : non  conosoindolo , manifesta 
il  suo  sentimento  sopra  lui  ed  i Proci.  XX,  a33.  Distribui- 
sce il  |unc  a'Proci,  3 IO.  Mostra  desiderio  che  ritorni  il  |m- 
dronc.  XXI,  s4‘-  U»  riconosce,  349  Per  ordine  <b  lui 


ICE 

serra  le  porte  del  palazzo,  287.  Insieme  con  Kumeo  sc- 
-sjiende  Mclanzio  al  jxiloo.  X.XII , a35.  Uccide  Pisaudru, 
33o.  Percuote  Ctesippo,353  Nominato,  574- 

Filomelide:  vinto  di  Ulisse.  XVII,  159. 

FilottetePcanzio,  figlio  di  Achille.  Ili,  346.  Valente 
Urator  d'arco.  Vili,  390. 

Forcine,  e Forco)  vecchio  marino.  Xlll,  tao,  4*^4> 

Ftia  (città).  XI,  6a3. 

G 

Geresto  (luogo).  HI , 339. 

Gia.sone;  passa  da  Scilla  e Cariddi.  XII  ,97. 

Giganti, ^11,269.  Loro  impresa  dì  jiorrei monti Puno 
sopra  l'allro.  XI,  4i5. 

Giove,  figlio  di  Saturno,  detto  anche  Saturnio.  1 , 16. 
Suo  parlamento  con  gli  altri  Dei,  43»  Udito  il  parlar  di 
Minerva  pel  ritcrno  d’Ulisse,  determina  die  sia  esaudita 
93.  £ autore  delPinrenziotii  dc'{>octi,  453.  Manda  due 
arcuile  per  buono  augurio  a Telemaco  nel  parlimeiito  de' 
Proci.  II,  190.  Manda  tempesta  a ULìsse  c a'suoi  com[Ki- 
gni.  IX , 65.  Detto  Ospitale , 343.  Di  lui  non  curano  i Ci- 
clopi, 349.  Da  Antiojia  genera  Anfiune  e Zelo.  XI,  335 
e seg. . Padre  d’Ebe , ;63.  Promette  al  Sole  di  vendicarlo 
da'compagni  d'Ulisse.  XII  ,49^*  F ulmina  la  naved'  U Usse, 
e tutti  sì  ili.spnrdooo , 536.  Gli  è fatto  sagrifizio  d'un  bue 
da  Alcinoo.  Xlll,  35.  E supplicato  da  *FeacÌ  pel  buon  viag- 
gio di  Ulisse,70.  Permette  a Nettuno  che  fàccia  impietrire 
la  nave  de'P'caci  che  aveva  ricondotto  Ulisse  alla  ptria, 
199  e seg..  Fulmine  scagliato  da  lui  nella  nave  d'Ulisse. 
XIV, 366.  Suo  oracolo  a Dodona.  XIX, 36a.  Manda  du> 
plicato  augurio  ad  Ulisse,  che  ne  Io  ave\'a  richiesto.  XX, 
la4.  Pregato  da  Minerva,  si  mostra  favorevole  ad  Ulisse, 
XXIV, 606.  Scaglia  un  fulmine  avanti  Minerva,  accior- 
diè  faccia  fermare  Ulisse  dal  combattimento  cogli  lUi- 
cesi,  684. 

Circa,  scoglio  di  mare.  IV  , 634. 

. Giunone , iiuiglie  dì  Giove  ; saU'a  Menelao  dalla  tciupe- 
sta.  IV  ,641.  Madre  d'Ebe.  XI , 763.  Fa  jxi&sar  libera  la 
nave  d'Argo  da  Scilla  e Curùkli  [wramur  di  Giasone.  XIX., 
9<^'97- 

Gnosso, città  iti  Creta.  XIX,  aao. 

Gorgone.  XI , Sua. 

Gurlina,  città  di  Creta.  III,  379. 

I 

Icario  ) [«lire  di  Peneloiie.  XI , 563. 

Icmuli»  .XIX , 68. 

Idoiueuco, padre  d’Orsilocu.  XIII , 3lo.  XIV  , 377  , 
454-  Fra  figlio  di  Deucalitme.  XIX,  aafi. 

Idott-a , figlia  del  Veglio  marino  ossia  di  Proteo;  insegna 
a Menelao come  deliba  pigliare  suo  [«tire , acciocché  gli 
inoltri  il  viaggio.  IV,  463. 

Ifialte.  XI  ,4o3. 

lode , induviuo.  XI , 3;6. 

Ifimidca,  moglie  d'Aloeu,  la  quale  di  Nettuno  jiarloit 
Oloed  Efialle.  XI,  4oo. 

Ifìlo . XXI , 36.  Ucciso  da  Ercole , 3o. 

Ilio.  r.  Pruja. 

llttia  o Lucina . ma  grolla  in  .\mniso.  XIX,  a34. 


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I N n 

Tao,  fidili  Hi  Caiimo  in  di  fulag»  : toofurU 

laisw  nell»  l«nj>e8tj.  V . ti-ìCì  e «Tf. . 

I|ierc«ia(ciUii }.  XV  . a. 

Ijicnube}  9oprannouic  d«l  Sole.  I , H-  XII  j 17** 
I|>|Hidami» . X\  111 . 337. 

irò , jHivero  : cl«  iosse.  X\nijf)*  ^ cacciare  I.lis- 
*e,  la.  Uisfi«la.  Paveiila  d’Llisse,  4o.  Si  batte, ed  è at- 
terrato , 1 1 5.  Nominato , a84  « • 

liiiuaru, città,  §;icrheggiata  il»  l.livK.  l\  , ^7  ? 

Itaca,  |utria  U'L'Iìmc.  1 , 14  | i<?“^trove. 

Itacrsi;  lor  jarLuneoto  i*er  la  strage  dc’Proci.  XXIV  , 
56.V. 

Itaco  unotle’fnndaturi  d’IUca-  XV  li,  a4^’ 

Iti,  figlio  di  Zctu  ucaso  lUlU  figlia  di  J'andarv.  XIX , 

139. 

L 

I^redemonc.  ì'.  Sparla. 
laicuDia.  y.  Sjwrta. 

Lacere,  cloratore.  lU,  53S.  Indora  le  corti  a al  loro  che 
Nestore  fa  sagrificarea  Minerva,  55a. 

taierto , figlio  d*ArcÌsU)  ,e  ]u»lre  d'Ulisse  ; eoinpra  Eiiri- 
rléa.  1 , 55o.  IìIìmc  dumamlà  di  lui.  XV  , 4^9  I.eii«uolo 
onde  rivolgere  il  suo  craclavero  doj»o  la  morte.  XIX , 180. 
XXIV,  lt>9.  Alla  sua  magione  giungono  liln»sc,  Telema- 
co, li  porcaro  e ’l  bifolco,  a(>8.  Desrruiooc  del  suo  abito, 
31)7.  SuoccdlofiuiocoD  Ulisse, 34^1.  Lo  riooQusce,  c ino- 
Mm  timore  del  risrulimcuto  drgritaresi  j»er  la  strage  de’ 
Proci,  45l-  È confortalo  da  Uli^tcj  trova  Telemain»;  c, 
lavalo,  apparisce  jnù  bello,  per  o|)eradi  Minerva,  4^^*^ 
*rg. . S’arma  coolra  gli  Itaccsi,  633.  Gode  del  valori*  del 
ligi  io  e uijiote , fa  prego  a M iiicrva , c uccide  Eupitc  ,663. 
LaiDu',casleIllo.  X , 1 08. 

I.ani|N-tÌr,ninlà,  figliadclSoleediNccra.  XII,  171,484 
Laodamaulc,  figliuolo  di  Alcinoo:  dmuamla  a L li.ise  "c 
sia  esperto  in  alcuno  de’ giuoclii , Vili,  lyS.  Liuse  lo 
escluilc  dal  cimento  de 'giuochi , [»cr  essere  suoospilc , 

Balla,  499- 

I^apiti.  XXI, 36i. 

I.alona  , madre  d'Apolloe  di  Liana.  XI , 4*7  ? 7’^* 
Leila  : veduta  da  Ulisse  Dcirinferno.  XI , 390. 

Lcnni> , castello,  Vili , 378. 

Leocrito,  figliuolo  d'Evenore  , uno  de  Proci:  riprende 
Mentore,  li,  3o3.  È ucciso  da  Tcleinaco.XXll.  365  c w^. 

Letnlc , ini|>otctito  a tender  l’arco  d Ulisse,  e parla  a 
com]>agni.X\I,  187  È ripitSMi  da  Antinoo  , ao5.  Si  rac' 
comanda  a Ulisse.  XXII , 393.  K ucciso  da  lui , 4*^- 
Lc»bo  (città  ).  XV  lì , 1 59* 

Leslrigctnia,  terra.  X,  109.  XXIII, 4**7* 

libia,  regione.  XIV  ,340- 

Lotofagi , popoli.  IX  , * 08.  XXIII , 394* 

]\I 

Malée  o Maléa.  IV  , 643.  IX  , 1 o3.  XIX , 333. 

Manlio , fratello  d’Antifate , padre  di  Polifidc  c di  Clito 
AV,3o5. 

Marcine  d’Evanteo,  sacerdote  di  .VpoUù;  dona  un  otre 
di  vino  ad  Ulisse.  349> 

Marte  : suoi  amori  eoo  Venere.  Vili,  389 1 seg. . 
Meduute , rivela  a Penclo[K:  rìnsidie  tic 'Proci  coolra 


I C F. 

Telemaco.  IV  ,854- Nominato.  XV  l , a88 , 438.  XV  II, 
3o5.  Gli  c iun»etrala  la  vita  da  Telemaco.  XXII , 4^3  c 

cg. . Arringa  a favor  d’Ulisse  tra  glijluifsi.  XXlV  , 56a. 
MegajicuU* , figlio  ili  Menelao.  X V , J a3. 

Megara,  di  Urcoule  ; veduta  da  Ulisse  ueirinicrno. 

XI, 345. 

Melaiiipo,  uomo  riceodi  Pilo.  XV,  377. 

MeLnio,  XV  III  ,3.>8.  XIX, 80. 

Melami»,  caprajo  : malUalU,^  liwe  suo  ladrone  e il 
porcaro.XVU,  sSa.  Vad.-I  Euriin3Co,3io.  Parla  a iWi, 
/|5o.  Maltratta  di  nuovo  tlisv.  XX , 3 3o.  Distribuiste  il 
vino  a Proci,3i3.  Scalda  runlo  |<r  ugnerc  l’arrod’UliMe 
XXI,  330.  K«a  a'Pit-ci  dodici  armaiiurc.  XXII , i67« 
aeg. . Sua  morte,  ai6.  È lacerato  da  Telemaco,  dai  bifolco 
c |iorca  jo , 60 1 . 

Menelao,  fa  ronvilc  nutiajc , quando  Telemaco  giunge 
a Laceilemone.  IV,  33.  Ix)  riceve,  39  e seg..  Si  sdegna 
deU’iqierc  de’Ptoci , e gli  narra  il  fallo  del  Vi  glio  marino^ 
44a.  l'roiiictlc  doni  a Telemaco,  7.43.  Suoi  falli  a Troja 
rjiilati  da  Demodeco.  Vili  ,655.  Bicordali  da  tlusr. 
XIV,  547  e seg . . Pregato  da  Tclemaivi  di  «ingnlo.  \ V , 5 c 
seg..  Gli  risjiootlc  bcuìgnauicnle,  63.  l<o  regala,  i4a. 
Mentre  vuol  chiarire  Taugurio  d'uu  aquila , è prevcnulo 
dalla  moglie, 310.  Snntrallamenlo  a Teìcmarooi  si  narra 
da  lui  alla  madre.  XVll,  l44  « *^g-  ■ Suo  valoreramme- 
inurato  dairanima  d'Agauicuoooc  a quella  d Aixbmedculc 
XXIV,  |35. 

Mennoue,  il  |«ù  bello de’G reri  XI  ,655. 

Mentore,  coin|wgno  d'Ulisse:  fa  dogliaoaa  nel  parla- 
mento de’Proci  col  iKqiolo  d’itaca,  «1  c ripreso  da  Ixroerito. 
II , 379.  Minerva  , sotU»  sembiauaa  di  lui , appare  a Tele- 
maco , 338.  Con  lui,  siccome  amico  dolpailre,  s'avside 
Telcmact).  XV  J 1 , 84-  Sotto  sua  sembiama  fu  veduta  .Mi- 
nerva da  Mcdoole , XXI V , 567. 

Mera  : veduta  «la  Ulisse  nell 'Inferno.  XI,  436. 

Mercurio , figliuolo  di  Maja  e inviato  da  Giove  atl  P.gi- 
slo.  1 , 56.  IVoiKìsIo  da  Minerva  a Giove  per  mandarlo  a 
Calipso,  che  dia  libertà  ad  Ulisse,  lao.  Gli  è wnimei^j  da 
Giove  l’ambasciaU.  V,  36.  Va  al  consigltio  degli  Dei. 
Vili  45l . Appare  a Ulisse  X , Bfig.  Discentlc  con  Ercole 
airioferno.  XI,  759  e «*g. . Sagriliaio  Dito  a lui  da  Eu- 
inéo.  XIV,4«)6  e seg..  Pniletlore  de*  hidri.  XLX,  486. 
Guida  ranime  tlc’Preci  all  Inferno,  XXIV,  l. 

Mesaiilio , com|wguo<l’Euméo.  XIV , 53g. 

Messene  (città).  XXI,  3o. 

Micene  (città  ).  XXI,  i32. 

Mimauta.  111,333. 

Minerva  ; prega  Giove  che  assenta  al  ritorno  d’UlUse., 
68.  Va  ad  Itaca,  ia4.  IGcevuta  da  Telemaco  jw ospite, 
177.  Si  finge  Mente  figli»  d’Aocbialo.  a43.  Consiglia  Te- 
lemaco, 333  e seg.  . Parie  da  lui,  4 14.  Gii  appare  in  scm- 
biaoM  di  Mentore.  11,338.  Prende  1 aspetto  di  Telemac.>, 
483.  Fa  addormenure  iProcì,  498.  Sotto  forma  di  Men- 
tore guj.b  Telemaco  alla  nave,  533.  GHiniione  di  andare 
a Ne.store.  Ili,  3i . Liba  a Nettuno,  73.  Lascia  Telemaco 
da  Nestore  , C parte  simile  ad  a<iuiia  , ed  è ricooctìciuU  i«cr 
Minerva,  471.  Consola  Pencloiic.  IV,  io34.  Difende 
Uluse  .«I  con««o  .Ugl.  Dti.  V.J.  V.  . d'Atónoo 
re  de’  Feaei  VI.  3.  Sotto  varie  scuibianrc  a ^Nausica  fi- 
gliui.la  d'Alciooe  , 19  e «•((..  Ad  Ulisse.  XII , ao  1 l'ca- 
ci.  Vili,  toc  seg.  . Pone  i termini  al  gioco  del  disco,  356 


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i56 


1 N n 1 c n 


<*  seg. . Arbitra  tra  Ulisse  ed  Ajacc  contendenti  l'urini 
d Actàllc.  XI,  t>85.  Fa  che  Ulisse  non  riconosce  Itaca. 
XIII , a3a.  Api^reud  Ulisse  in  forma  di  pastore,  368.  S«* 
gli  manifesla  , 354*  Discorre  con  lui  sopra  i Proci , 4^8. 
Ti-as6gura  Ulisse,  5o4  ew’g. . Va  a Lacedemone,  Sai.  Fjj. 
noto  a Telemaco  il  ritorno  del  pa<lre  XV,  6 e seg. . Sagrì- 
fiiio  fatto  a lei , 373.  Ap|jaread  Ulisse  c a Teleuiacu  sotto 
forma  di  donna , cd  è conosciuta  solo  da  Ulisse.  XVI,  i83. 
Addormenta  Penelope  , e trasfìgura  Ulisse,  4^8,  4*)’^. 
Bende  piacevoic  Telemaco.  XVII,  73.  {"a  che  Ulisse  vada 
ad  accaUare  da’Proci  44<>*  Ingrandisce  UUssc.  XVIII , 8(>. 
Induce  Pcocloi'c  apirarirc  avanti  a’P«id,  30.  Addonuenti, 
c abbellisce  Ulisse,  33a  e seg..  Me<nu  strage  a'Proci. 
XIX,  3.  Fa  lume  a Ulisse  c a Telemaro.43.  Riprende 
Ulisse , perche  è irresoluto  a vendicarsi  de’Prtwi.  XX,  4 1 . 
Ix)  addurmcDla,  (i().  Toglie  il  silenzio  a’Proci,  4ai.  In- 
spira Penelope  che  pn.pjinga  ai  Pnici  il  giuoco  di  tirar 
l’arco.  XXI,  i.  Porta l’arood’UIissea’Pnici , 75.  Fa  ad- 
dormentare Penelope,  4*7*  Ap|iare  a Ulisse  in  sembianza 
di  Mentore  ; c ^data  da  Agelao , accende  Ulisse  alia  Iwt- 
taglia.  XXII,  375.  Piglia  la  forma  di  rondine,  sqS.  .Mo- 
stra l’Egida  a’Proci , cd  essi  si  pongono  in  confusione,  873. 
Bende  beltà  ad  Ulisse.  XXlll,  198  e seg. , Sotto  sem- 
bianza di  Mentore  fu  veduta  da  Medontc.  XXIV',  567. 
Parla  a Giove  in  (avere  di  Ulisse,  600.  Fa  fermare  il  com- 
battimento fra  Ulisse , c gl’Ilacrsi , 670  e .seg; . 

Minosse,  giudici  dcirauime.  XI, 710. Sua  stirpe, Wll. 
638.  Begbù  in  Gnosso  nove  anni.  XIX,  333. 

Miriuidoni , III , a44-  XI  ,638 
Muiio,  ministro d'AnGuomo.  XVlll,  Ssi. 

N 

Kajadi.  XIII  ,138, 407. 

Nausica  , figliuola  d'Alcinoo  : Parole  di  Minerva  a lei. 
VI , 8a.  Va  a lavare  i paoDi , g5  c scg. , Vcdelllissc.  ao.. 
c Mg. , L’acteglie , a65  c seg. . Lu  lascia.  Vili , 6o(i 
Nautco.VlH,l4;.  •' 

Neera:  cnngiuuU  col  Sole,  generi  Facluja  c Lam:»- 
«ie.XU,j,3. 

JVelà).  IIl,5i7.XI,3a6,366,XV,  aSa. 

Jiico.  I,a5i. 

Aeottoiemo,  figliuolo  d’Achille  ; sue  prodezze  a Troia. 
XI,  687, 678. 

.Nerico , XXIV , 480. 

Nerito.  XIII  ,4i  I. 

Kerito , uno  di  coloro  rhe  fabbricarono  la  C,nle  d'Itara 
XVn,a47. 

Ncasnoo,  nome  con  cui  Ulisse  inganna  il  Ciclone  IX 

4G8. 

Nestore  (detto  Gereoio),  riceve  Tclomaro  e Minerva 
sotto  sembianza  di  Jlcntore.  IH , 77.  Gl'interrogn , gfi. 
Narra  quanto  sa  d’Ulisse,  l3l  e seg..  Regnò  treot.ò  d'ùo- 
snini,  3t6.  Narra  la  morte  d’Agameunono , 3l8  c seg.. 
HiconoseeMinervs,53o.  Come  trattasse  TeIcmaco.XVII 
l33.  Ritiene!  Greci , che  non  vadano  via  dopo  la  morte 
d’Achille.  XXIV,  71  cseg. 

Nettuno:  cruceiato  con  Uliaae.c  andaloagli  Etiopi.non 
interviene  con  gli  altri  Dei  al  piirkiuento  di  Giove.  1 , 3S. 

K sdegnato  con  luì , per  avergli  amccato  Ì1  Ciclop  pJiif«* 
mo,  luo  figliuolo , (jo  e seg.  k pietra  Girti  per 


fsir  iiffiigar  AJace  IV,  634'  Muove  tempesta  a Ulisse.  V, 
873.  A a al  cuitsiglio  degli  Dei.  \TH,  484-  Gigione  dej 
suo stlcguo  con  U'iissc,  inauilestatagli  da  Tiresia.  XI,  134* 
Io  seuibuDza  del  fiume Eniiico  genera  da  Tiro,  moglie  di 
Urcteo,  Pclia  c NcU'o,  3oy.  Poi  da  Ifimidéa  genem  Oto 
ed  EliaJtc  , 4oo.  SÌ  lamenta  con  Giove  del  buon  ritorno  di 
Ulisse  iu  Itaca.  XIII,  i54eseg..  Vuol  maltrattare  i Feaci 
perche  hanno  ricondotto  Ulisse  alb  patria , 183. Fa  impie- 
trire la  lor  nave,  199.  Sagrifiziodi  dodici  lori  fattogli  da' 
Fcaci,  3 3 3.  Minerva  noi»  vuol  contendere  con  lui  eh  c suo 
zio  jm  terno, 4oo. 

Niso , figliuolo  di  Arczio  re  e [OiIre  d'.\nfiuumo.  X VF 

4^3.  XVm,i'ì^. 

Nolo,  vento.  XIII,  i35. 


Oceano,  padre  di  Persa.  X,  i83.  Omero  gli  dà  il  nome 
<U  fiume.  XI. 809.  XII,  z. 

Ocialii.  Vili,  146. 

Ogigia.  XII , ,3i  z.  Vi  approda  Ulisse  dopo  la  tempesta 

XII,584.XXiII,4a6. 

WcIi'‘o.  XV,  399. 

Olimpo,  VI , 63.  Detto  invece  del  Ciclo , abitazione  «lo- 
gli Dei.  XV,  56.  XVIII.  348.  a\LX,53.XX,o5,  i33 
XXIV, 448,630. 

Opi.  1 , 549.  II , 436.  X.X , 100. 

Orco, i’Infemo.  X,624- 
Orcoineuo.  XI , 365 , 58o. 

Oreste,  uccise  Egisto  uccisore  di  suo  padre.  Ili  3q5 

IV, 686.  XI, 583.  ^ 

Orione.  V,  l57,35a.Cacciatore:  sua  pena  Belllnrertni. 
XI,  716. 

Orsa  (costellazione).  V,35o. 

Orsiloco.  XXI  , 30. 

Ossa  ( monte ).  XI , 4 13. 

Oto , figliuolo  di  Nettuno  e d’Ifimidéa.  XI , 4o3. 


Pafofelltà).  Vili,  485. 

Pallade.  F".  Minerva. 

Pandaro  : sua  figlia.  XIX , 63  j.  Sue  figlie.  XX  , 85. 

Panopeo  ( luogo  ).  XI , 7 z4. 

Parrbe.  Vll,a.58. 

Parna.10.  XIX, 48s. 

Patrorlo.  Ili,  i4i  .Sua  anima  veduta  da  Ulisse  nclrin. 
fcrno.  XI,  593.  Sue  ossa  riposte  con  quelle  d'Achille. 
XXIV,  io5. 

Pclasgi.  a\IX,  319. 

Peleo,  Pauima  d’Achille  domanda  di  lui  ad  Ulisse 
XI , 6.3.5. 

Pelia,  figliuola  di  Nettuno  c dì  Tiro.  XI , SsG. 

Pelio(monU?)  XE,4i4* 

Pcnelulie , figliuola  d’Icirio  : viene  dove  Femio  canta  T 
4z5.  Intende  da  M«lonte  che  i Proci  vogliono  ucciderle  il 
figlio.  IV , 883.  Suo  lamento,  960.  Fa  prego  a Minerva 
gba.Sua  pruilenza.  XI,56a.Suoi  Pr«»:i donde  siano.X\  l| 
1 16  e seg. , K avvisata  del  ritorno  di  Telemaco,  36o.  Si 
lagna  >oo’Pr.ici  ch'insidiano  la  vita  «lei  figliuiil  suo  44i  e 
seg..  Va  incontro  a Telemaco.  XVII , 46.  Doma’ndagU 


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I N D 

nuore  d'Ulisce,  i s8  e teg. . Sente  dispiacere  che  Ulisse  sia 
auto  percosso  da  Aotinoo , 598  e seg. . È inspiraU  da  Mi- 
nerva che  si  presenti  ai  Proci.  XYlll)  aoo.  S'addoriueuta, 
e di  poi  appare  davanti  ai  Proci)  a34.  Si  duole  col  figlio 
perchè  Ulisse , creduto  da  lei  forestiero , sia  sUto  ufieso  in 
sua  casa,  lyo  e seg. . Kis^^ode  ad  Euriniaro,  c narra  ciò 
che  le  disse  il  marito  andando  a Troia  , 3i  1 c seg. . È con- 
sigliata da  Antioco  ad  arcettare  i doni dc'Proci,  35a.  Siede 
al  fuoco.  XIX,  66.  Sgrida  raneella  ,ctl  interroga  Ulisse, 
fio,  1 aS.  Raccontagii  il  fatto  <lella  tela  , i8a.  Comiuetle 
alle  ancelle  che  lo  rivestano,  386.  E ad  Euriclt'a  clic  lo 
lavi , 435.  Narra  un  sogno  a lui , Pensa  di  proporrea’ 
Prtxu  il  giuoco  deirarco,636.Sua  prece  a Diana.  XX, 708. 
Persuade  Aotinoo  a non  rrede-re  che  se  Ulisse  tenda  Parco» 
^li  labbia  ad  avere  per  nuglic.  XXI,3|^a.]lis|iuoilcad 
Eurimaco*  e vuole  che  Ulisse  si  cimenti  n tender  l'arco. 
393.  E ripresa  dal  figlio,  4<>8.  Sente  da  EuricléacheUlisse, 
era  tornato , c che  aveva  ucciso  i Proci.  XXIII , i e seg.. 
N’on  riconosce  per  la  prima  volta  il  marito,  lay.  Vededi 
nuovo  Ulisse , e impone  ad  Euricléa  che  gli  rifaccia  il  letto 
fuori  deila  sua  camera,  31^.  Riconosciutolo , Pabbraccia 
33^.  GU  domanda  qual  sìa  Pultimo  travaglio  pronostica- 
togli da  Tiresia  , a3o.  Va  a letto  con  Ulisse , c discorre  con 
lui  de’[uasati  accidenti,  3^ a.  È lodala  dall'anima  d'Aga- 
inennone.  XX I V , 3 49  e seg. . 

Pereclimeno,  figlio  di  JN'eléo.  XI,  3yi. 

Perimede, compagno d’Uiisse.  XI,  39.  XII,  iSS, 

Pero , figlia  di  N'cléo.  XI , 3^  t . 

Persa,  madre  di  Ciw«.  X,  iSa. 

Perseo,  figlio  di  Nestore.  Ili,  5a3. 

Pilli  (popoli).  Ili,  43  e altrove. 

Pilo  (città).  Ili , a36  e altrove. 

Piréo.  XV,  669.  XVII , 67 , 93.  XX , 454. 

Piriflegctontc,  fiume  dcllTofcrno.  X,654- 

Piritoo.  XI,  797.  XXI, 35a. 

Pisandro,  figlio  di  PoliUoro,  uno  dc’Proci.  Suo  regalo 
a Penehipe.  XVIII,  370.  E ronfortato  da  AgeUo  a coni- 
hattcrecoDtraUlis^jXXH,  33i.E  ucciso  daEìletio,33o. 

Piscnore.  ,1,  549-  *90*  ' 

Pisistrato,  figlio  di  Nestore, riceve  Telemaco,  111,53 
Lo  accompagna  a I.acedem(iDe,  616.  Giunge  da  Menelao. 
IV,  37.  Gli  mostra  che  Telemaco  è figlio  d’UUsse,  199. 
SolleciUtoda  Telemaco  alla  {partenza, lo  consiglia  atratte- 
ncre.tantocheMenelaogli  faccia i regali.  XV, 63.  Ripone  i 
detti  regali,  l65.  Domanda  a Menelao  la  spiegazione  del  va- 
ticinio dell’aquila,  e dipoi  si  parte  da  lui  con  Telemaco, 
ao5.  Conduce  Telemaco  alla  nave,  aSo  e s<^.. 

Pilo  (dita).  Vili,  io3.  XI,  733. 

Plejjdi.  V,  349. 

Plutone , o Fiuto , ed  Orco.  X , 6a4  c altrove. 

Polibo.  Vili,  Sor. 

Polibo  , padre  d’Eurim^.  XV,  644-  XVI,  469. 
XVIII,  436.  XXII  ,3oi.  È percosso  da  Euméo,  353. 

PolicasU.  Ut,  593. 

Folidamna.  IV,  395. 

Polifemo.  I,  io4-  Trova  Ulisse  c i compagni  nel  suo  an- 
tro. IX , 3ao.  Gli  è ahbrudato  l’occhio  da  Ulisse , 490. 
Chiama  in  ajuto  gli  altri  Ciclopi,  5a5.  La  memoria  di  lui 
attrista  i compagni  d’Ulisse.  X , 367 . Esempio  di  lui,  ad- 
dotto da  Ulisse  per  confortare  i medesimi.  XII,  378.  Suo 
latto  narrato  da  Ulisse  a Penelope.  XXlIl , 396. 

ODISSEA. 


ICE  nX, 

Polifidt.  XV,3o6. 

Polite.  X,  391. 

Pulitore.  XVII , 347.  XVUI , 370. 

Polluce.  XI, 391. 

Pontco.  Vili,  i/|8. 

PoDtonoo , civppiere  d'Alcinoo.  VII , a35.  XIII , 69. 

Priamo, redi  Troja.  XI, 536.  X1U,373. 

Primnik).  Vili,  147. 

Prod  : loro  parlamento  con  Telemaco.  Il , 3 r . Lo  bef- 
fano, 3790  seg. . Si  (Unno  buon  in  casa  d’Ulisse , e 
intendono  da  Nfjemimechc  Telemaco  è andato  a Pilo.  IV, 
79H.  Mincn-a  parla  di  loro  ad  Ulisse.  XIII,  438.  Consu- 
mano i porri  d’Uliise.  XI  V,3 13.  Insidiano  Telemaco,  a i5. 
I^airo  numero.  XVI,  383.  S’attristano  del  ritorno  di  Tele- 
maco, 366  e seg..  Vanno  intorno  a Trlcmaco.  XVII,  80. 
Si  snilazzaoo,  199.  Da  essi  accatta  Ulisse  in  sembianza  di 
povero  stimolato  a ciò  fare  da  Minerva . 44*  • Gl»  appella, 
doi»  raffronto  ricevuto  da  Anlinw,  ed  essi  sdegnaosi  di 
quel  fiato,  575.  Aizzano  Ulisse  ed  Irò  a combattere  in- 
sieme. XV'III.  54  e s<^. . Fanno  accoglienza  ad  Ulisse  per 
la  vittoria  di’egli  ebbe  sud’Iro  137.  Va  Penelope  ila  loro, 
359  c seg. . La  regalano,  358  e seg. . Eurimaco  parla  a 
loro  conira  Ulisse,  436.  Sono  sgridati  da  Telemaco, 5oi. 
Assomigliali  a venti  oche , che  sognò  Penelope  aver  veduta 
uccidere  da  un’aquila.  XIX , 655  e seg. , Augurio  contro 
essi,  XX,  145  e seg..  Ulisse  giura  che  saranno  uccisi  in  bre- 
ve 379,  Augurio  sinistro  per  loro,  397.  Telemaco  pon  freno 
a’  lor  fatti  e parole  conlra  Ulisse , 370  e seg. . Si  ridono  del 
funesto  annunzio  di  Telemaco,  4a*.  Biasimano  Telemaco 
d'aver  dato  ricetto  ad  Ulisse,  456.  E lor  proposto  da  Pene- 
lope il  trarre  l’arco  d’Ulisse,  XXI, 90.  Si  provano  a ten- 
derlo.enon  rie.sceloro,  334.Psrlano diversamente, veden- 
do Ulisse  aver  preso  l’arco  in  mano,  476  e seg  . Sgridano 
Ulisse  perche  uccise  Antinoo,  ed  egli  si  manifesta  ad  essi. 
XXII, 34.  Sonosfiiiati  da  UlLsse  a combattere, o a fuggire; 
e , mosso  rabbatlimcnto  , molti  ne  restano  uccisi  , 83. 
Sono  confortali  a combattere,  307.  Prod  ucdsì,  assomi- 
gliali a’pesci  sparsi  sul  lido  da*pe»:aturi , 4^3.  Loro  anime 
guidate  da  Mercurio.  XXIV , 3.  Loro  parenti  muovono 
guerra  ad  Ulisse  , 691  e seg. . 

Procri  : veduta  da  Ulisse  neirinfemo.  XI,  4ao. 

Proserpina.  X,  6l3.  XI , 63 , 494  j8o3. 

Proteo.  IV,  44o  j 4^^-  E preso  da  Menelao , e risponde 
alle  sue  domande,  583.  Racconta  che  cosa  è d'Ulisse  , 680 
eseg..  XVII,  167. 

Proto,  uno  de’Feaci  che  fecero  i giuochi adUlisse.  Vili, 

148. 

Psùria,Uola.  ni,330. 

R 

Badamanto.  VII  ,4*3. 

Rcsseoore , |iodre  d’Arete  , moglie  d’Alcinoo.  VII,  196. 

Retro , porto.  I , aSa. 

3 

Salmom'o.  XI,3o3. 

Samoo  Samc,  isola.  IX,  39.  XV,  4*  « altrove. 

Scheria , luogo  de’Fead.  XIII , 19G. 

Scilla.  XII,  1 15,  i5a  ,3o8.  Dis^'erde i compagni d’U-< 
lisse , 3a5 , 895 , 557. 

i3 


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V 


j3S  I N B 

Sciro.  XI  ,639. 

Sicilia,  y.  Trioacria. 

Sidone.  XV,  i47}533- 
Sidonii.  IV,  107, 

Sintii.  Vili  ,394* 

Sirene.  XII,  Sa,  306- Invitano  tJliase,  9 16.XXHI,  417' 
Siria  ) isola.  XV,  5o  i . 

Sisifo  : sua  jiena  ncirinferoo.  XI , J 
Sole, padre  di  Ciroe.  X,  i8a.  Sua  uula.  XII, 344*  XIII, 
988. 

Sparviere , uccello  sacro  ad  Apollo.  XV  ,65i. 

Sparta,  o Lacedemone,  o Lacooia,  città.  XIII,  485, 
5ai  ,XV,i.XVI1,i46.XXI,I7. 

Stnaio , figlio  di  Gestore..  Ili , 5a3. 

T 

Tafii , popoìi  XIV  , 536.  XV,  534.  XVI , 458. 

'i'aigctu,  monte.  VI , 147. 

Tantalo.  Sua  pena  ncirinfemo,  XI,  738. 

Tebe.  XI,34o,XV,3o4. 

Telftb.  Xl,65o. 

Teleuiacu.  porla  a’Proci.  1 ,4?8'  Propone  d’andare  a 
Sporta.  II , 361  c »pg. . P'a  preparare  il  vino  e la  farina  pel 
viaggio  , 4^  « • Giunge  a Pilo.  Ili , 5.  Interroga  Ke- 

atore  del  padre , 1 ao.  Si  |urte  da  Nestore , e va  a Fera  da 
J)iocIe,6i5.  Arriva  a Sparta.IV,  3.  Ll«se è ragguagliato 
seirinferno  dalla  madre  de’  portamenti  di  lui  XI , a34.  E 
ammonito  da  Minerva  che  ritorni  alla  patria.  XV  , 3.  Do- 
jnanda  congedo  da  Menelao,  107,  Vede  laugurio  duna- 
<|uila,  198.  Si  porle  da  Menelao , lai.  Giunge  aFera,e 
quindi  a Pilo,  3 37e  seg. . Se  gli  raccomanda  Teoclimeno. 
Iwndito  d’Argo,  3i4  * • Sbarca  in  llaot , cmandai 

comittgni  alla  città  , ed  egli  va  alla  cainp^tgna , 6i6c  srg. . 
Vede  uno  sjwrvierc  sj^enaare  una  colomba , 654<  Giunge 
ijovcsono  Ulisse  ed  Euméo.X  VI,  i5.  E accolto  da  Euim-o, 
] 8.  Non  riconosce  il  podro , 54<  Manda  Euméo  ad  avvisare 
la  madre  del  pn>prio  ritorno,  147.  Non  riconosce  Minerva, 
184.  Riconosce  U judre,  a44-  'a  alla  città,  XVll,  3i. 
Vede  Ulisse  nel  palaste , 39H.  Lo  manda  a regalare  di  vi- 
vande,e  gli  commette  che  vada  ad  accattare  intorno  a’Pnici, 
417.  Sgrida  Anlinoo477«  • Simula  lostlegno  perla 
percossa  dita  da  Antinooasuo  padre,  593e»cg..  Starnu- 
tisce gagliardamente.  659.  CoofijrU  il  padre  a combattere 
con  Irò.  XYIU,  73.Bis[Hin«ìealla  madre,  383.  Sgridai 
Proci,  5oi.  Hinwve  dalsolit»  luogo  Tarmi  del  padre.  XIX, 
4 e seg.  Uojnamia  ad  Eurid'  a , come  sia  stato  IralUlo  U li.s- 
•c  di  mangiare  e di  dormire.  XX,  168.  \ a al  parlamento 
de’Prt*ci,  l8ó.  AUuogaa  tivob  Ulisse  apparUto , 3 1 .5. 
l»npnoe  a’IVf’à  che  non  Toff  odano,  3t«4.  Riprende  Cte- 
*ippo,35l  , 371.  EsorU  i Proci  a trarre  l’arco  d’Ulisse. 
XXI,  139.  Bice  a Penelope  di  guardare  al  lavoro  ddh* 
doetne  . • che  egli  avrà  il  pensiero  dclTarco , 4«8.  Uccide 
Anfitiomo.  XXllf,  1 14  armial  pdre.al  p<'rcaJoeal 
bifolco,  l36e  seg..  Uccide  Euriade,3i9  P'eritoda  Anfi- 
medonte , lo  ripercuote , 34o  e seg. . Impetra  la  vita  a Fe- 
Diioed  a Mcilontc,  437  > 453.  CoU*ajutodclbif'lroed-  I 
porca jo  impicca  le  dimne  maU-age  di  casa , 5S5  e seg, . Fa 
«trario  di  Melan «io, 60 !.  Sgrida  la  madre, perchè  riinane 
stupida  la  prim*  volta  che  vede  Ulisse.  XXIII,  1 37.  Gli  c 
Utostrato  da  Ulisse  il  modo  di  salvarsi  per  Tucclsiooc  du' 


I C E 

Proci , 165.  Fa  restare  il  ballo . 3;3.  Armatoti , parte  col 
padre  dalla  città, 471.  Suoi  fatti  nella  strage  de’ Proci  nar- 
rati dalTaniiua  d'Anfiinedonte  a quella  di  Agamennone. 
XXIV , 1 60  e seg..  Prepara  da  mangiare  a suo  padre , 4^o 
S’armaooo  esso  contro  gl’Itaoesì,  641  ) 645. 

Telciuo.  IX , 655. 

Teoodo, isola.  Ili,  3o4- 

Teoclimeno  , bandito  d'Argo,  s’appressa  a Telemaco, 
doj)o  essersi  imbarcato  per  Itaca  ^ e narrasi  la  sua  discen- 
densa  j domanda  a Telemaco  chi  sia,  e lo  supplica  di  prò- 
lesione.  X V,3i4  eseg. . Gli  pronostica  in  suo  favore  l’au- 
gurio dello  si»rviere,  656.  Lo  riferisce  a Penelope.  \ IH 
180.  Annunzia  casi  funesti  a'Froci.  XX,  4^7*  Minacciato 
da  Eurimaco,  parte , e va  a Piréo , 445* 

Teséo  , amante  d'Arianna.  XI  ) 4^t'  Gump*gtu>di  Pi. 
ritoo,  797. 

Tesproli.  XIV, 376, e altrove. 

Teli,  interviene  all'esequic  del  figlio  Achille  XXIV, 
75  e seg. . 

Tidtki , padre  di  Diomede.  Ili , a 1 5. 

Tiudaro, marito  di  Leda.  XI,  390.  Sua  figlia.  XXIV. 
358. 

Tiresia,  Tebano,  indovino.  X,  616.  Suo  discorso  eoa 
Ulisse, XI,  isB.  Rainmcutato.  \11  348.  XXIll , 3ao 
4I3. 

Tiro , figlia  di  Sulmooéo , e moglie  di  Gretco.  XI , 3o  1 
3oa. 

Tizio.  VII  ,4**'  Sua  pena  nolTInferno.  XI,  731. 

Toante,  figlio  d’Andremóne,  compgno  d’Euuiéo.  XI V 

536. 

Tono , marito  di  Pulidamna.  IV  , 396. 

Toonc,  uno  de’Fcaci  che  fecero  i giuochi  ad  Ulisse 
Vili,  1 48, 

Tracia.  Vili , 483. 

Trasituede,  figlio  di  Nestore.  111,57,  534-  Sacrihea  un 
toro  a Minerva,  56o. 

Trioacria , cioè  Sicilia  , isola.  XI , l43. 

Troja , o Ilio , città.  1 . 459  e altrove  più  volle. 

U 

Ulisse  : Minerva  s'interpone  a favor  suo  nel  parlamento 
degli  Dei,  acciocché  Giove  gli  faccia  dare  da  Cali|^  » la 
lihorlà.e  p«'s.<a  ritornare  alla  |vilria.  1 ,66  e seg. . V , i.>  e 
si’g.  È conged.ito  da  Calipto,  ao4-  Fabbrica  la  nave  per  U 
partenza  , 3l3.  Patisce  tempesta,  3;3  c s<'g. . E sovvenuto 
da  Ino,  4a5  e seg.  . Fa  pn'go  alla  fin*  d un  fiume . 578. 
S’addormenta.  64i.  Si  desta, Vi,  171.  Parla  a Nauricu, 
da  cui  è Gito  rivestire,  aSo  e seg.  . Prega  Minerva,  447. 
Ella  gli  vico  inoiotro  in  forma  di  vergim  Ua.  VII.  96  Egli 
si  prc«-uU  ad  Alcinoo  e ad  Arde . 189.  Narra  quanti,  gli 
avvenne  dop*.  essere  approdato  aU’isda  Ogigia,  fino  che 
giunse  in  Ftacia,  3o8  e seg  . Fa  pn-go  a Giove,  410. 

Giunca  al  disco.  Vili. 3i9escf,  . E regalato  d.i  Alcinr-., 
540.  Si  lava,  600.  Regala  a incns;kDeunKloco.638.  Quello 
che  fece  DclÌ’inr«uìiodi  Troja,  655-  Si  manifesta  ad  Al- 
cinoo, e narra  i suni  accidenti  IX.  31  e seg. . Racconto  de’ 
compagni , 78  e «eg,  . E o^me  accieca  il  Ciclope  e ne  s«  »m- 
pò , 4o.5  e seg. . Kilt  nto  in  mare . insulu  il  Ciclope  , Gl  4 . 
Sacrifica  a Giove,  704.  Giugne  alTis-da  Eolia.  X . t.  Spinili 
dalla  temjieala  rii'. itiu  Ìu  Eoli»,  7V  D sgridato  da  E<‘b> , e 


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» 


/ 


I C E 

Ottiene  da  Giove  un  augurio,  1 3 1. Risponde  adEuméo  in- 
torno a’Proci,  a 1 3.  E di  nuovo  maltrattato  da  Melamio,  a a a 
Predice  a Fileaio  e giura  che  presto  saranno  uccisi  i Proti, 
a83.  Scansa  un  colpo  scagliatogli  da  Ctesippo,  364-  Arco  e 
dardi  donati  ad  Olisse  da  I6U>.X\I,  i6.  Esaminala  fedeltà 
del  porcaro  e del  bifolco,  asa.  Ordina  al  porcaro  di  dargli 
l'arco  .quando  lo  chiederà,  e di  làr  serrare  dalle  donne  le 
[torte  della  casa,  a 8 a.  Tende  il  suo  arco  e lancia  il  dardo  sen- 
ta lallire  490  e seg..  Uccide  Antinoo.  XXII,  19.  Risponde 
ad  Euriniacu,  sGdando  a combattere  tutti  i Proci, 8a.  Ucci- 
de Eurimaco,  100.  Uccide  molti  Proci.  t47’  Uommellc  a 
Euméo  c a Filctio  di  sospendere  Melanzio  al  [talco,  aoy  e 
scg..  È incoraggiato  da  Minerva , in  sembianza  di  Mentore 
360.  Uccide  Deiuoptolcmo , 3ay.  Gli  e chiesta  la  vita  da 
Lcode,392.L’uccide,4o6.La concede  invece  a Femio, 45 'j. 
Domanda  a Euricléa  quali  sieno  state  in  casa  sua  le  donne 
ree , e le  buone , 3a5.  Fa  portar  via  i morti  e ordina  che  le 
donne  ree  siano  di  poi  uccise,  55i.  Purga  la  casa  col  sullo 
635.  E accolto  dalle  donne , 63q,  Si  lascia  vedere  da  Pene- 
lope , che  non  lo  riconosce.  XXIII  ,1 09  e seg. . Pro[tone  a 
Telemaco  d'uscire  della  città , 1 5i . E lavato  «la  Eurinonie: 
e,  profumato,  si  presenta  di  nuovo  a Penelope,  200.  Si 
meraviglia  che  «la  lei  gli  sia  fatto  accoino«larc  il  letto  fuor  di 
camera*,  e le  descrive  il  proprio  letto,  aaS.  1»  racconta  il 
pronostico  di  T ircsia , 3 a o . Va  a letto  «xtn  Pcuel«»[te , 3 i . 
Le  ra«xonla  i passati  travagli,  386.  S addormenta,  4^9 • 
DesUto,  ordina  a Pcnelo[ie  che  governi  la  casa  : ed  egli , ar- 
matosi con  Telemaco,  il  bifolco  ed  il  [«oriajo,  esce  della 
città , 456  e seg.  .Giunto alla  tenuta  di  Lacrte , manda  Te- 
lemaco e i servi  a [irovvedere  da  cena  j ed  ei  s accinge  a far 
prova  se  il  padre  lo  ri«x>nos«ai.  XXIV , 281.  Risponde  al 
padre  e si  finge  figliuolo  del  re  Afidaute , 386.  Si  manif«»ta 
al  padre,  4**-  Itacesi,  che  s«)tto  la  guida  d'Eu|iiU;,  si 
muovono  contro  di  lui;  e Minerva  prega  Giove  a favor.* 
d'Ulisse,  600.  Si  batte  con  gl'Itacesi,  666.  A'  amai  di 
Minerva  depone  l'armi , e là  1^  col  suo  [>o[iolo , 693 . 


I N D 

di  poi  va  nel  paese  de’Lest rigoni , g4e  seg. . Arriva  nel- 
llsola  di  Circe , 1 78.  Prende  un  cervo,  ao3  e seg. . Mercu- 
rio lo  instruisce  contro  gl’incanti  «li  Circe,  359  ^ ^K*  ■ 
è intimato  da  essa  il  viaggio  all’inferno , 608  e seg. . Giu- 
gne  a’popoli  Cimmerii , e sagrifica  a'mcrrti.  XI , 3o  c seg. . 
Gli  ap[«ris«»no  l’anime,  46.  Gli  appare  Tiresia,  i a3.\  ede 
sua  ma«lre  che  lo  informa  de 'fatti  «li  sua  «asa  , 186  c scg.  ^ 
Gli  ap[iariscono  altre  donne,  291.  Vede  rauiiiicd'Acliille, 
Patroclo,  Antiloco c A jace,  690.  Fa  scp[>ellirc Elpenore, 
XII , 16.  Tornato  daU'Infcrno,  è iucontrato  da  Circe, che 
gli  predice  l’incontro  delle  Sirene,  ai  cscg. . Di  Scilla c 
Carridi , 1 1 3 e scg. . R’arra  a’compagui  qu«*llo  ch«*  gli  ha 
detto  Circe,  201.  Trova  Scilla  e Cariddi , 3o8.  Vi.^laa 
compagni  di  toc«arc  gli  armenti  del  Sole,  38a.  Sta  un 
mese  nell'isola  del  Sole,  4i8.  Soffre  tcui[H.*i!ta , 5a5.  A[>- 
[>ruda  all’isola  Ogigia , 584.  6i  congetla  «la  Al«ànoo.  XI lì, 
79.  S’addorinenU  nella  nave  e così  addormentato  è [osto 
sul  li«lo  d’Ilaca,  « 00  e s«rg. . Destatosi , non  riconosce  la  [la- 
tria,  229.  Gli  appare  Minerva  da  pastore,  a cui  diced’ess«*r 
fuggitivo , per  avere  ucciso  Orsiloco  , a68  e seg. . Min«*rva 
si  mauifesU  a lui , 389.  Riconosce  il  suo  [>aes«*,  e prega  le 
Riufe  Najadi,  4 13.  Ri[one  nella  lor  grotta  i douidc'J*'caci, 
439  E trasfigurato  da  Minerva,  5o4- Va  «lai  [orcaro.  XIV, 
4 . Finge  essere  spurio  di  Castore  llacidc;  e narragli  un  suo 
tr«>valu , 3 36  c seg. . S’addonucuta , 62 1 . Fa  prova  del  por- 
caro. XV,  377.  E veduto  dal  figlio,  e creduto  forestiero. 
XVI , 65  C seg. . Parla  minaccevolnieiite  contro  a’ Proci, 

1 o3  e seg. . Vede  Minerva  in  forma  «li  donna , che  lo  torna 
nel  suo  primitivo  sembiante  e gI'im[one  di  [«alesarsi  a] 
figlio  , 1 83  e seg. . Si  manifesta  ,316.  Ordina  a Telemaco 
c«>me  debba  contenersi  co’Proci,  3 16.  Minerva  di  nuovo 
trasformalo,  acciocché  non  sia  riconosciuto  «lai  porcaro, 
495.  Va  alla  città.  XVII,  337. E maltrattato  «la  Melan.'.io, 
suo  caprajo  ,216.  Giunge  al  suo  palazzo,  3i5.  Gli  è ordi- 
nato «la  Telemaco  di  accattare  «la’Proci  ; ed  è stimolato  a 
ciò  «la  Minerva , , 44^*  IX>nianda  lim«>sina  a Antino.i, 

fio 3.  Maltrattato  da  Irò,  gli  ris[H«nde  coraggiosamente  e si 
batte  con  lui  e lo  vince.  XVIII , i 3 e seg. . E regalatod’uo 
ventriglio  da  Antinoo,  l46.  E sgrùlato  da  Melanto . ed  ei 
si  risente,  407  5 4’  * • alterco  con  Eurimaco,  4 I6, 454. 
Si  rifugia  da  Anfinemo,  41^7*  Grdina  a Telemaco  che  ri- 
veda le  sue  aruii  XIX  , 4.  Sgridato  un’altra  volta  da  Me- 
1 into,  80.  Ri$[>onde  a Pcnelo[«e  che  lo  interroga  di  sua  ani- 
dizione,  138  e seg..  Rifiuta  d'e.sscre  lavaUi  da  damigello 
giovani  ; 4 ‘9-  Mentre  c lavato  da  Euricléa , questa  lo  rico- 
nosce per  la  cicatrice  d'un  morso  fittogli  già  da  un  porco 
nella  caccia,  480  c seg..  Le  impone  silenzio,  590.  Mixlita 
come  debba  punire  i Proci , e le  sue  donne.  XX,  8 e seg..  E 
sgridalo  da  Minerva , 43.  È fatto  addormentare  da  h i , 


V 

Veglio  Marino.  V.  Proteo. 

Venej«  con  Marte;  Vili,  391.  XavaU  dalle  Grazie, 
487.  Mentovata.  XX  , 89. 

Vulcano,  prende  colla  rete  Marte  e Venere.  Vili , 36 1 
c scg. . Suoi  lavori!  XV , 1 46.  XXIV , io3. 

Z 

Zacinto , isola.  IX , 3o  e altrove. 

Zefiro , vento.  X , 38  e altrove. 
Zcto,re.XI,337.XIX,638. 


F 1 K E. 


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OPERE  COMPLETE 

DEL  CAVAL.n:lU: 

IPPOLITO  PINDEMONTE 

VOL.  II. 

ELOGI  DI  LETTERATI  ITALIAISI 

VUI.UME  UNICO  ’ 


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I 


ELOGI 

D I 

LETTERATI  ITALIANI 

SCRITTI 


IPPOLITO  PINDEMONTE 


NAPOLI 

R.  MAROTTA  E VANSPANDOCH 
1834 


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ELOGIO 

DEL  MARCHESE 

SCIPIONE  MAFFEI 


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AVVERTIMENTO 


L’autore  àeWsi  Letteratura  Ilaliana  nella  seconda  metà  del  secolo  decìmottavo 
dice  nel  terzo  tomo  , ove  di  Giuseppe  Torelli  ragiona,  che  questo  letterato  vero- 
nese, da  cui  aspettavasi  una  Vita  del  suo  immortale  concittadino  Scipion  Maffei, 
avea  cominciato  a fare  un'esatta  analisi  delle  opere  di  lui.  Poi  soggiunge.  Questo 
lavoro,  e V adunare  le  necessarie  materie  lo  trasse  in  lungo;  nè  sappiamo  in 
mano  di  chi  ne  cadessero  i manoscritti , che  le  nostre  indagini  non  riuscirono  a 
trovare.  Giuseppe  Torelli  non  si  mise  mai  di  proposito , qual  ne  fosse  la  cagione, 
a scriver  la  Vita  del  suo  immortale  concittadino.  11  Seguicr  bensì , ìntimo  del 
Maffei , come  tutti  sanno,  stese  intorno  a lui  aXcxrae  Memorie  , ove  inserì  lunghe 
analisi  delle  sue  opere,  e diè  da  esaminare  il  manoscritto  al  Torelli.  Questi  gliel 
rimandò  con  poche  annotazioni , nelle  quali  accusa  di  confusione  e disordine 
l’estratto  del  libro  della  Scienza  cavalleresca  , e afferma , che  questo  e gli  altri 
estratti  così  diffusi  e distinti  non  hanno  luogo  in  una  Vita,  e sembrano  trascritti 
dai  giornali.  1 suoi  manoscritti  poi  caddero  in  mano  all’erede  Alberto  Albertini, 
e con  quelli  le  poche  annotazioni  intorno  alle  suddette  Memorie , e le  Memorie 
medesime , che  al  Torelli  il  Seguier  consegnò  ritornando  in  Francia. 

Si  aggiunge  all’Elogio  una  difesa  della  Merope  centra  due  lettere  di  Voltaire. 


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Quantukqve  fila  vero  che  gli  uomini  comu- 
nemente bau  più  d’ inclinazione  e più  d’attiui- 
dine  a questo  che  a quello  studio , o ciò  vcn^a 
dalla  tempera  naturale  che  ogmin  sortì , u dalle 
circostanze  particolari  in  che  si  trovò  , u dell- 
l'uno  e dall’altro  ad  un'ora;  vero  èi^ou  tnaiico, 
sorgerne  alcuna  volta  di  tali,  che  di  tutte  le 
migliori  discipline  ìnvaghìscon  di  tratto  , e sì 
felicemente  intendono  a tutte,  che  la  gioia  si 
fanno  de'  ^oro  amici  , ì'onor  del  paese  loro  , e 
la  maraviglia  del  mondo.  Clie  sarà  poi  se  ne' 
medesimi  entrerà  un  desiderio  lortissimo  della 
gloria,  che  là  sospingali  sempre  dov'e’  credano 
poterne  molla  ottenere  ; diuioduchè  non  v'ab- 
uia  facoltà  in  voga  , in  cui  non  voglian  rispleit'> 
dere,  non  risplenda  in  alcuna  un  contempora- 
neo , cui  non  emulare , una  corona  non  si  mo- 
stri lor  d’alto,  acuì  non istendere cupidamente 
la  mano?  Di  questi  fu  il  marchese  .Scipiun  Maf- 
fei.  Nato  e allevato  per  grandi  cose,  altro  non 
pensò,  non  bramò,  non  teiitòclie  quanto  potea 
renderlo  il  primo  nomo  in  Italia,  e de' primi 
in  tutta  l’Europa.  Questo  veemente  amor  di  se 
stesso,  ove  belle  non  sieno  ed  oneste  le  imprese 
che  altri  si  prefìgge,  funestissimo  riesce  all'uni- 
versa società  umana  ; ma  Scipion  Mallèi , die 
per  la  falsa  non  ìscarobiava  la  gloria  vera  , non 
solamente  sè  stesso  in  tè  , ma  la  patria  , la  ua-> 
zione,  la  religione  in  sè  amò;  rivolse  il  suo  pri- 
vato piacere  a utilità  pubblica , c col  proprio 
lustro  quel  cercò  sempre  della  patria,  dr'lla  na- 
zione, della  religione.  Ciò  di  lui  si  vedrà  lacil- 
mente  su  queste  carte,  qual  siasi  l’aspetto  sotto 
cui  io  proporroDo  , o di  poeta  , o di  storico , o 
d’antiquario,  di  hlosofu  naturale,  o murale, 
di  politico,  e anche  di  teologo  , novi  per  accre- 
scergli fama , cosa  nò  agevole  a me,  nè  a lui 
necessaria,  ma  perchè,  avendo  io  sentito  più 
volte  (|uelle  faville  , che  le  memorie  de' sommi 
uomini  destano  in  noi,  spero  che  una  vita  sì 
bella  , benché  debolmente  scritta  , potrà  qiial- 
chegiovanile  e ben  dispastoaninio  rinliammare. 

Le  contrarie  fazioni  de' Guelfi  e dc’Ghibel- 
lini,  cirerano  spesso  cagione  del  trasmutarsi  da 
una  città  all’altra  delle  famiglie,  obbligarono 
i Maffei  a lasciar  Bologna , di  cui  mi  paiono 
anzi , che  di  Volterra  , come  alcuni  avvisano  , 
originari,  e a stabilirsi  in  Verona  , donde  più 
rami  in  più  parti  d’Italia  si  trapiantarono. 
Vanta  la  famiglia  tre  cardinali,  Bernardino, 
IVTarc'Antonio  ed  Orazio,  e molli  letterati;  tra 
i quali  un  Agostino,  gran  promotor  degli  stu- 
di, e il  primo  a raccor  museo  d'anticaglie,  pre- 
cedendo il  Colucci , cui  ciò  s’attribuisce  meii 
bene,  e il  suddetto  Cardinal  Bernardino,  scrit- 
ture in  lingua  latina  molto  pulito,  che  non 


poco  accrebbe  il  museo  e l’amor  delle  cose  ro- 
mane , e degli  antichi  monumenti  nel  Manuzio 
e nel  Panviuio  , per  confessiuii  loro  , trasfuse. 
In  Verona  un  Giovan  Francesco,  do|>o  seguito 
in  guerra  il  generale  Alessandro  da  Monte  suo 
zio  materno,  ridottosi , morto  il  da  M«>nte,  alla 
patria  , impalmò  Silvia  Pellegrini,  donna  or- 
uatissima  , d’alto  ingegno  e di  spiriti  generosi, 
e cresciuta  in  una  splendida  corte,  com'era  in 
Italia  quella  di  Mantova.  Costei  partorì  a Gio- 
van Francesco  , oltre  cinque  femmine,  maschi 
tre:  Antonio,  che  s'ammogliò,  Alessandro  che 
militò  con  onore  ai  servigi  dell’Eleltur  di  Ba- 
viera , e il  nostro  Scipione  , che  ultimo  nacque 
nel  1675,  e che  la  madre,  scorgendo  un'Ìndole 
maravjgliusa,  amò  sopra  gli  altri,  benché  tutti 
eli  amasie  fervidamente.  Ella  sola  gl' informò 
riutellelto  ed  il  cuore,  stillandogli  per  tempo 
nell’animo  quanto  v’iia  di  più  eccel>o  e di  più 
gentile;  e poi  grandicello  seppe  da  sè  |>artirlu,  e 
mandarlo  al  collegio,  che  i Padri  di  Sant’lgiia- 
zio  reggexano  in  Parma  con  molto  grido.  Vi  si 
conserva  il  ritiatto  di  lui , c non  già  tra  quelli 
de'  giovani  sliiimi,  il  cui  valore  nei  mondo  non 
risponde  sempre  alle  speranze  che  di  sè  diedero 
ne’ collegi:  il  ritratto  è di  lui  molto  innanzi 
negli  anni , e quando  già  rilucca  di  tanta  ripu- 
tazione, che  non  {Kitea  non  averne  un  rilampo 

Duella  palestra  , ove  riputazion  tanta  ei  s’ad- 
estrò  a procacciarsi. 

Uscitone  dopo  il  corso  di  cinque  anni , e ri- 
tornato a Verona  , non  credette  che  il  viver 
nell’ozio  fosse  un  privilegio  di  chi  è nato  no- 
bile , e pressoché  una  macchia  del  grado  la  let- 
teratura. Tutto  si  dava  sul  leggere  e sul  com- 
porre ; e non  restava  di  far  della  poesia  Ialina, 
che  ad  amare  avta  tolto  , la  sua  delizia.  Forse 
torcerà  il  viso  a queste  parole  alcun  di  coloro 
che  disapprovano  il  verseggiar  nella  lingua  del 
Lazio  , tuttoché  la  lettura  dei  poeti  ne  racco- 
mandino , e mostran  così  d’ignorare  , che  non 
penetra^  che  imperfettamente , al  bello  de’poett 
del  I^azio  chi  non  verseggiò  un  tempo  nella  lor 
lingua.  Tra  i coinponimenti  merita  considera- 
zione, massimamente  in  sì  fresca  età,  un'Arit- 
metica , lavoro  dilUciìe , ma  non  intentato, 
com'ei  chiamollo , giacendo  inedito  in  più  bi- 
blioteche il  poema  di  Giovanni  di  Sacro-Bosco 
su  i Numeri  ; poema,  cui  non  è da  stupire,  che 
il  Mafì'ei , che  ne’  manoscritti  non  avea  comin- 
ciato a frugare  ancora  , disconoscesse. 

Con  la  poesia  latina , in  cui  scrirea  secondo 
i buoni  dettami  del  suo  maestro  in  Parma,  Pa- 
dre Beilati , non  tardò  ad  accoppiar  l'italiana  ; 
ma  s'applicò  a questa  in  diverso  modo , rioà 
giusta  il  pessimo  vezzo  che  allor  correa  , spe- 


6 


ELOGIO  DEL  MARCHESE 


zialmente  nelle  nostre  contrade,  ove  fu  mag- 
giore , e durò  più  , quella  barbarie  ingegnosa  , 
che  il  nume  ha  dal  secento.  Volentieri , io  mi 
persuado  , sì  leggerà  qui  uii  de’ituoi  sonetti,  che 
non  ismonterebbe  punto  tra  quelli  di  Ciro  di 
Pera , o deirAcliilliiii. 

IVr  fosca  via  con  j»ìà  c sosjxsi 
V'ciiivd  Amor  di  sua  ùrètra  carco, 
lo  ,qual  uoiu  ,che  il  acrilico  attese  al  varco  , 

Gii  fui  sopra , e quell  armi  empie  gli  preti. 

Ma  di  QUova  ira  entro  di  me  m'accesi 
la  trovar  vóto  il  suo  Bdalu  iacarco  : 

Perch’ci  perù  sen  gisse  aucor  piu  scarco  , 

Sjicxzailo , e ai  boschi , troo.-o  vii , Io  resi. 

Tuoto  ,su  l'auree  corde , io  poi  gridìi  : 

Vo’  caoLir  si , clic  m'udirà  fin  l’etra , 

Che  iiiib.dle  sci , cht  disarmato  or  vai. 

Taci  ,diss’ei,  mrsschia,  getti  la  cetra , 

Gli  strali  al  petto  tuo  lutti  io  piantai , 
iùl  or  meco  verrai  tu  per  ùrètra. 

£ :c  > donde  parti  queiruomo , che  giunse  sin 
dove  a pochissimi  è dato  arrivare. 

Già  sì  riaprivan  gli  occhi  di  qua  degli  Àp> 
pennini  eziandio:  puerile,  o eccessivo,  comin> 
ciuva  quello  a parere,  che  par  fino  reputato  s'e- 
la  , o sublime;  e la  rivoluzione  prendea  sem- 
pre più,  o,  meglio . la  coutrorivoluzioae.  Quel 
coinmoviineQto,  che  dovea  nascer  negli  animi, 
e ne’più  focosi  singolarmente  , congiunto  ad 
una  certa  naturale  inquietezza,  ch’è  loro  pro- 
pria, portò  II  MdH'ei  in  varie  città:  in  Milano, 
]ii  Genova,  in  Rniia.  lu  Milano  conobbe  Cirio 
Maria  M iggi , che  levava  grido  a que^giorni;  e 
in  Genova  si  strinse  d’amicizia  col  gesuita  Pa- 
òtorini,  die  gli  pose  in  mano  il  Chiabrera.  Nel- 
la Capitale  del  m indo  cristiano  trovò  l'Arca- 
dia, che  si  argomentava  di  rimettere  iu  piedi 
il  buon  gusto , e che  nomollo , assegnatogli  to- 
sto i suoi  campi,  Orilto  Brenteatico;  ed  egli 
nella  prima  radunanza  , che  da  lei  teunesi , re- 
citò una  latina  composizione  molto  applaudita. 
Veduta  con  qualche  fretta  la  popolosissima  Na- 
poli, tornò  per  Firenze  a Verona’,  iu  cui  poco 
ì'ard^fntc  giovane  si  trattenne.  C>nciossiachè 
▼erso  il  bue  del  1669  . e neU’aprire  dell’anno 
santo  , di  nuovo,  e accoiupagnato  dal  Iratello 
Alessando,  sìcondusseallertvedel  Tevere,  chi 
giù  funnicolavaiio  di  forestieri  d'ogni  maniera 
per  gl’immiuenti  giorni  di  perdono  e di  grazia. 
Recato  avea  seco  un  oratorio,  intitolato  iliS.i/z 
sorte  , ch’eì,  della  musica  intenditore,  e suo- 
nator  del  violino,-  nell’abitazione  sua  si  pìa- 
que  di  far  cantare.  Mi  che  ? I versi  sapeauo  al- 
quanto di  quel  secentismo,  di  cui  l’autore  non 
era  totalmente  purgato  ancora.  È vero  che  sta- 
va per  essere.  Roma,  che  sempre  de’crocchi 
letterari  si  dilettò  , non  n’ebbe  mai  un  più  no- 
minato di  quei  che  forni  ivasi  in  casa  prima  di 
monsignor  Sevcroli,  poi  di  Giovanni  Filangieri 
xiapoletaiio.  Intervenivano  il  Gravina,  il  Fa- 
bretd,  il  dei  Torre,  il  Buonarroti,  il  Quarte- 
roni,  il  Guidi,  il  Sergardi,  il  Bianchini , altro 
lume  delia  mia  patria , e il  Riviera  ed  il  Lam- 
bertiui,  che  furono  appresso  l'uu  del  cappello, 
ros&Oj  e Taltro  della  maggior  mitra  iu^iguìih 


I ragionamenti , ammesso  tra  cotanto  senno  il 
s’aggiravano  non  di  rado  intorno  alla 
poesia  italiana^  Qui  le  dispute  grandi.  Percioc- 
ché, notandosi  gli  autori,  e gli  Stili  contrappo- 
ueiidosi,  il  Veronese  preferia,  secondo  Tusanza, 
uuello  iu  cui  credea  valer  più,  e alla  contrad- 
dizione, caldo,  siccom’era  al  spiriti,  s’inalbera- 
va. M i non  andò  guari , che  couobbe  l’errore , 
e,  ch’è  più.  il  confessò,  applaudendogli  tutù, 
e concependo  di  lui  una  speranza  , che  non  in- 
gaimolft;  attesoché  si  gittò  subito  ai  migliori 
uostri  poeti,  e massime  a Dante,  che  sol  gli  era 
noto,  per  sua  contessìoue,  di  nome,  e ch’ei 
prese  a imitare  felicemente  con  que’due  suoi 
Capitoli  per  la  Nascita  del  Principe  di  Pie- 
monte. 

Con  questi  in  mano,  quasi  con  un  documento 
autentico  della  sua  conversione , ricomparve  in 
Arcadia,  meravigliando  ciascuno,  che  un  Lom- 
bardo, cosi  diceauo,  avesse  potuto  sì  presta- 
mente far  ritratto  dall’Alighieri.  La  stessa  pro- 
va fec-j  nel  Petrarca,  n#*l  Casa,  nel  Costanzo, 
e auchs  nel  Chiabrera.  Ma  poco  stante  s’avvidts 
che  non  è così  veramente  che  si  sale  in  Parna- 
so ; e si  rammentò  forse  di  quelle  parole  d’A- 
gesitao  , il  quale  , invitato  a sentire  chi  perfet- 
Umente  il  canto  dell’usignuolo  coritrafl'acpva» 
rispose,  che  più  volte  sentito  avea  l’usignuolo. 
Q lindi  non  si  propose  imitazione  alcuna  par— 
ucolare  nella  Canzone  in  Morte  del  Principe 
di  B iviera,  succedi  turo  al  re  di  tutte  le  Spagne; 
canzone  eh  sebbene  arieggi  alcun  poco  a quel- 
la del  Bembo  in  morte  d’un  suo  fratello,  pur 
dice,  che  il  Muifei,  letti  attentamente  i mae- 
rri,  atringegiiostio  s’abbandona;  che  per  verità 
óciò  che  vuol  praticarsi  da  chiunque  crede  ave- 
re uu  iug-gii).  Nè  io  stupisco,  se  Malatesta 
Strinati,  uU’udicla,  predisse  del  nostro  Scipio- 
ne , che  darebbe  all'llalia  una  eccellente  trage- 
dia; poiché  tanto  già  proinettea  lo  stjl  gravo 
ed  eroico,  il  discorso  pien  di  lagrime  in  bocca 
del  pidre,  e Taifetto,  che  tutto  riscalda  il  com- 
ponimoijto,  e che,  non  domestico,  qual  è nel 
Bembo,  ma  straniero,  palesa  meglio  la  facoltà 
di  pisiioiiarsi  sul  liuto,  come  dimanda  il  co- 
turno. 

C »si  egli  dimorava  in  Roma  , godendo  nei 
più  verdi  anni  della  fama  di  poeta  non  comuna- 
le, e osservando  le  reliquie  della  romana  gran- 
dezza, e la  cupola  del  San  Pietro.  Napoli  , 9. 
cut  passò, e in  cui  ferinossi  questa  seconda  volta 
più  a lungo , rapi  Ilo  assai  più  co’ portenti  del  la 
natura  che  con  quelli  dell’arte*,  giunti  es.seiulo 
più  tardi  a Oipo  di  Monte  gli  eruditi  tesori 
della  casa  Farnese , e sepolti  rimanendosi  tut- 
tavia sotto  la  lava  e la  cenere  ì Ponipeiani  egli 
Ercolaaetisi.  Bensì  visitò  nuovamente  il  Vesu- 
vio , su  la  cui  cima  tanto  inoltrossi , che  ì globi 
di  caldo  fumo  y suri  parole  sue,  a tirarsi  il  co- 
strinsero indietro.  Non  parlerò  della  soddisfa- 
zione, con  che  rivide  la  Toscana,  e in  ispecie 
Firenze,  ove  caro  l'avea  il  gran  principe  Fer- 
dinando, che  mirabilmente,  i vestigi  calcando 
de’suoi  maggiori , vi  favoria  le  belle  arti.  Dirò 
più  presto,  che  non  prima  rìmpatriossi,  cheat- 
tcàe  a emeudarej  couetto  il  suo  proprio,  il  gu- 


SCIPIONE 

sto  dei  suoi  Veronesi,  e prò  nta  occasione  gliene 
ofieri  un’accademia  di  vers  i per  un  veneto  Go- 
vernatore, nella  quale  recitarono  i poeti  più 
in  fama  d’una  città,  che  al  la  billezra  delle  sur 
colline  quella  sempre  unì  d egl’ingegni,  ma  non 
fu  delle  prime,  convien  confessai  lo,  a spogliarsi 
del  Marinismo.  Sovvenendo  gli,  thè 

» ridiati  ttnt  acri 

Fortius  ac  melius  magnas  plerunu/ue  secai  res. 

scrisse  la  sera  medesima  , e divulgò  il  giorno 
appresso  un  Centone  tutto  di  emistithj  e versi, 
e oistici  recitati , e stamjiati  artifiziosamente 
tessuto  ; e conseguì  più  leggermente  il  suo  fi- 
ne, che  se  venuto  fosse  ai  ragionamenti,  per- 
chè , promovendo  il  Centone  , che  fu  come  uno 
specchio  , quelle  considerazioni  che  i netti  poeti 
fecero  allor  da  per  sè,  e di  cui  secretamente 
applaudironsi , sembrava  loro,  non  tanto  al 
Mafiei  cedere,  quanto  a sé  stessi. 

I primi  passi , ch’egli  diè  nella  prosa  , paiono 
essere  state  le  Osservazioni so-^ra  una  tragtdia 
di  Cornelio  , la  Rodoguna  , che  si  rappresentò 
nell’estate  dello  stesso  anno  1700  in  Veruna. 
Con  queste  osservazioni  ei  mirava  , io  credo  , 
ad  uno  scopo  maggiore,  che  ad  ailèrrare,  emet- 
tere innanzi  ai  lettori  il  debole  d’una  tragedia. 
Sdegnavasi  l’egregio  Italiano  deH’incenso  che 
già  oruciavasi  a larga  mano  da’suoi  connazio- 
nali in  onore  della  francese  letteratura  ; e pia- 
cessi, quanto  alla  poesia  drammatica,  d’aver 
ferito  , dirò  così , nella  Rodegunaf  che  il  Cor- 
nelio antepone  nell’iVomc  all’altro  sue  favo- 
le, tutte  le  tragedie  di  Francia  ; se  pur  la  Fran- 
cia medesima,  anzi  ogni  nazion  moderna,  non 
venne  a ferire , pronunziando  in  quella  scrittu- 
ra , che  la  poesia  è mestier  nostro.  Le  quali  pa- 
role il  Salvini  ebbe  per  sì  ardite , che  non  potè 
temperarsi  dal  postillarle  in  tal  guisa:  Jo  mi 
do  a credere  , che  poesia  buona  esser  possa  in 
tutte  le  lingue  e nazioni.  Non  può  negarsi  che 
il  MalTei  alquanto  non  eccedesse  in  tal  parte: 
ma  temea  le  influenze  straniere,  e forse  preve- 
dea  le  settentrionali. 

Da  ivi,a  non  molto  un’idea  bizzarra,  e non 
però  nuova , gli  entrò  nel  capo.  S’era  rivolto 
con  gran  calore  a considerar  le  ragioni  dell’e- 
tica  ; scienza  , la  quale  , per  non  usare  al  par 
della  chimica  , della  botanica,  e di  parecchie 
altre,  un  proprio  linguaggio,  tutti  confidansi, 
benché  cercata  hon  l’abbiano,  di  possedere.  Già 
ne  avea  sbozzato  un  trattato  , da  cui  si  pare, 
che  tutta  volesse  in  brevi  proposizioni  rinchiu- 
derla ; e parte  son  del  trattato  cento  Conclu- 
sioni d’amore,  che  nell’Acraderaia  Filarmonica 
con  pompa  grande , e alla  presenza  di  molta 
nobiltà  d'ambo  i sessi , valorosamente  sosten- 
ne. Dissi  che  nuova  ron  era  l’idea  ; peri  liè,  la- 
sciando quelle  antiche  e sì  celebri  corti  d’amo- 
re , a simil  difesa  pubblica  s’accinse  Torquato 
Tasso  nell’Accademia  Ferrarese  , (he  divenne 
in  tale  incontro  un  mirabil  teatro  , qual  chia- 
mollo  egli  stesso  , di  belle  donne  j e di  cava- 
lieri cortesi } senonchè  nelle  Conclusioni  del 
Maffei , oltre  l’esser  queste  più  numerose  dei 


M A F F E I.  7 

doppio,  vi  si  dichiara  la  natura  e gli  efietli 
della  terribil  passione  più  largamcnic,  e vi  ,sl 
tratta  la  materia  più  a londo.  Il  suddetto  .Sal- 
vini pensò  , ma  non  ridusse  in  atto  il  jiensiero, 
d’ilinstiarle  ciascuna  cunun  Discorso,  imitan- 
do Vitale  Zuccolo  , che  quelle  illustiò,  e non 
■solameli le  in  fantasìa  , di  Torquato.  Corse  an- 
che nn’alira  difl'eienza,  che  uomini  soli  argo- 
mentarono contra  il  primo  , cioè  il  come  Goni- 
berlo  Giusti , il  conte  Francesco  Medici , e il 
marchese  Pietro  Gnarientij  laddove  contra  il 
secondo  si  levò  tra  gli  altri  quell’Orslna  Be  rto- 
laia  Car alletti,  da  cui  Torquato  nomitiò  il  suo 
Dialogo  della  poesia  Toscana,  che  intitolar  vol- 
le la  Cavalletta. 

Mentre  seguiano  in  Verona  prr  ojera  del 
Maflèi  queste  battaglie  non  sanguinose,  e da 
sdicrzo,  ardra  fieramente  in  Italia,  e di  V<  ro- 
lla non  lunge,  la  guerra  tra  i Galiìspanic  1 Te- 
deschi per  la  successione  ad  una  delle  maggiori 
monarchie  dell’Eiiropa.  Una  sete  incredibile  di 
nuove  cognizioni  che  il  pungea  sempre  , spin- 
selo  a frequentare  , all’<  mbia  della  nentialità 
veneta  , or  l’una  e quando  l’altra  delle  due  ar- 
mate nemiche.  Narrò  ei  raKlesimo  molto  dap- 
poi nel  proemio  alle  Memorie  del  fratello  gi- 
nerale  , che  il  maresciallo  di  Cutinat , accampa- 
to a Rivoli  , diss'egli,  aver  serrata  la  porla  , 
ma  che,  se  i Tedesdil  volean  gettarsi  per  le 
finestre,  non  potcali  impedire;  alludendo  al- 
l’alpestra  c diflicilc  strada  che  dQ\can  pren- 
dere: Si  getlaron  di  latto,  e,  per  la  saggia 
condotta  del  principe  Eugenio,  senza  far.si  ma- 
le ; come  adoperarono  a’dì  no.«tri  ngiialmente 
sotto  il  comando  del  generai  Wurmsi-r,  te- 
nendo la  via  stessa  della  Vaifredda.  Ma  il  no- 
stro Ma  ilei , che  quelle  pratiche  da  molti  ri- 
guardi ristrette  non  appagavano,  risolse  di 
trasierirsi  in  Germania,  e faie  ima  campa- 
gna in  persona  di  volontario  presso  il  fraiello, 
il  qual  comandava  le  truppe  bavare  ai  Fran- 
cesi unite  Contra  l’impero.  Arrivato  a Bol- 
giano  , che  i Gallobavuri  invaso  aveano  il  Ti- 
rolo  , non  ci  f u chi  gli  osasse  , g‘à  insoigendo 
il  paese,  dar  cavalli,  ed  accompagnarlo.  Un 
contadino  si  pre.sentò  finalmente  che  metterlo 
gli  promise  per  istrado  solitarie  in  Baviera, 
e poi  abbanuonollo  tra  via  ; inianfochè  gli 
parve  gran  ventura  ritornar  salvo  a Bolgiano, 
donde  non  senza  gravi  difficoltà  alla  sua  pa- 
tria si  ricondusse. 

Ciò  che  di  freno  c agli  uni,  agli  altri  non 
di  rado  è di  sprone.  Quindi  ranno  seguente 
partì  con  cavalli  propri , tolse  la  strada  del 
Frinii  e della  Stlria  e Carintia  , e penetrò, 
col  favore  del  conte  di  Castelbaico,  vescovo 
di  Chiemsèe,  in  Baviera  , recando  all’Elettore 
una  lettera,  che  la  gran  Principessa  di  To- 
scana, sorella  dfll’Elettore',  come  udì  del  suo 
viaggio  , aveagli  spedita  per  un  corriere  a Ve- 
rona. Ciò  fatto,  1 aggiunse  iliratello  a Slraii- 
bing , e alla  giornata  trovo.ssi  di  Donavert, 
nella  quale  una  palla  di  cannone  gli  rasentò 
il  fianco,  e vicino  gli  cadde  un  giovane  ca- 
valiere, di  cui  appresso  lagrime  in  versi  la 
morte.  Poco  stante  accompagnò  il  fratello,  che 


8 


\ 

ELOGIO  DEL  MARCHESE 


da  Monaco,  di  cui  era  governatore,  a scac- 
ciare andava  della  Baviera  le  truppe  imperiali 
che  dal  Guttestein  capitanate  la  devastavano. 
Strano  caso  si  vede  in  quella  spedizione.  In- 
timato avendo  il  generale,  per  mancanza  di 
subordinazione,  l’arresto  a certo  Boismorel, 
colonnello  de’granatieri  rossi , costui  montò 
in  collera , e a lui  con  la  pi.stola  in  alto  ve- 
niva incontro  ; ma  strappata  tosto  di  mano 
l’arma  gli  fu  da  Scipione,  che,  scrive  nelle 
sue  Memorie  il  generale  stesso,  se  gli  avventò 
col  cavallo.  Continuavano  intanto  le  opera- 
zioni, quando  Alessandro  ricevè  lettere  da  Ve- 
nezia portanti  , che,  uscito  di  vita  il  mar- 
chese du  Hamel,  comandante  in  capo  dell’armi 
venete,  molti  senatori  gli  occhi  a lui  rivol- 
tavano. E lo  stesso  avviso  ebbe  da  Verona  per 
mezzo  della  marchesa  Silvia  sua  madre.  Tanto 
' bastò  perchè  Scipione  abbandonasse  subito  il 
campo,  e si  moves.se  per  alla  volta  di  Vine- 
gia  rapidaniente.Ma  sventura  volle  che  la  me- 
desima sera  che  si  doveva  deliberare  in  senato 
giungesse  da  Vienna  l’annunzio  falso,  e forse 
inventato  ad  arte,  della  morte  del  General  ve- 
ronese accaduta  in  duello  col  barone  di  Li- 
zelburg:  però  s’elesse  immediatamente  il  ge- 
nerale Steinau,  che  servito  aveva  la  Repub- 
blica con  molta  lode  nella  guerra  del  Pelo- 
ponneso. 

Non  tacerò  che  il  nostro  MafFei , sedendo  a 
mensa  con  gli  uiHziali  bavaresi  e francesi , e 
udendo  dai  francesi  quelle  lor  canzonette  , cui 
danno  il  nome  di  Bacchiche,  volle  mostrar  loro 
che  formar  .«e  ne  pos,sono  di  non  meno  allegre 
in  lingua  italiana  , e più  cantabili  molto,  e più 
musicali.  Fatta  la  pace,  bel  destro  gli  venne  di 
manifestare  il  suo  buon  giudicio  e i’amor  suo 
per  la  venta.  Il  marche.->e  di  Priè  , ministro 
dell’Imperatore,  proposegli, indettato  daf  prin- 
cipe Eugejiio,  di  scriver  la  storia  di  quella 
guerra  , facendosi  dalla  mbrte  del  Re’di  Spa- 
gna; ed  assicurollo  che  al  titolo  di  storiografo 
cesareo  quello  aggiungerebbe  di  con.sigliere  di 
stato.  Rispose  il  Maffbi  che  tal  proposizione 
al  principio  soltanto  delle  ostilità  pareagli  ac- 
cettabile ; perciocché  allora  bazzicato  avrebbe 
ancor  più  tra  gli  eserciti  e le  corti,  procu- 
rato d’intervenire  a tutte  le  fazioni  più  gran- 
di , o almeno  i paesi  osservato,  ed  i siti,  e 
ragionato  dopo  le  battaglie  co’generali  d’am- 
bo le  parti.  Sapea  quanto  gli  storici  per  difetto 
di  queste  cose , e per  non  essere  stati  a ca- 
vallo e sotto  le  tende , prima  d’entrar  nello 
scrittoio  e pigliar  la  penna  , pecchino  co- 
munemente ed  anche  gli  antichi , eccetto  Po- 
libio tra  i Greci  e Cesare  tra  i^ Latini , co’ 
quali  ardirei  porre  il  moderno  Bonamici , che 
scrisse,  soldato  al  par  d’un  antico.  Sapea  che 
in  tutta  la  Biografia  di  Plutarco  non  na  rac- 
conto di  guerra  meglio  espresso  o circostan- 
ziato di  quello  della  battaglia  de’Cimbri  nella 
Vita  di  Mario  , perché  Plutarco  vide  i Com- 
mentari di  Siila,  che  mescolato  s’era  in  quella 
battaglia.  Senzachò  uno  storico  esser  non  do- 
vrebbe nè  storiografo  cesareo,  nè  d’altra  corte; 
il  che  sapea  puie,  ma  necessario  non  gli  era 


di  dichiarare  nè  al  marchese  di  Friè,  nè  al 
principe  Eugenio. 

Contento  ,,se  non  pago,  alle  cose  vedute, 
e rientrato  dai  pensieri  delle  armi  in  quei  delle 
lettere,  s'avvitò  di  fondare  in  Verona,  per 
dare  un  nuovo  impulso  agl’ingegni,  una  co- 
lonia d’ Arcadia,  di  cui  fu  egli  il  vicecustode. 
Si  raccolsero  i novelli  pastori  la  prima  volta 
nel  superbo  giardino,  ed  unico  nel  suo  genere, 
de’conti  Giusti , del  qual  non  è forestiero  in- 
tendente che  non  istupisca,  veggendo  un  monte 
dentro  la  città  in  cento  guise  abbellito , e 
convertita  in  un  luogo  di  delizia  una  rupe.  Il 
Mafiei  apri  la  radunanza  con  una  Prosa  , in 
cui  si  tesse  brevemente  una  Storia  della  Poe- 
sia nostra  , e a maniera  de’principali  nostri 
poeti  giudiziosamente  si  tocca.  Ciò  tuttavia 
che  merita  secondo  me  più  attenzione,  è il 
dirsi  che  lo  spirito  della  poesia  nel  secento 
non  usci  d’Ilalia  , conforme  stimano  alcuni: 
ma  che  quegli  elevati  ingegni,  a cui  riparò, 
o alla  corrente  un  argine  non  si  curarono, 
o indarno  tentarono  contrapporre.  È chiaro 
che  non  essendo  stato  di  quegli  elevati  inge- 
gni , perchè  lui  ancora  trasportò  la  corrente, 
gli  tornava  il  prescindere  da  tal  considera- 
zione ; e s’egli  non  se  ne  contenne  , fu  per- 
chè l’onor  dell’Italia  più  che  il  suo  proprio 
.slavagli  a cuore.  Di  fatto  molti  si  conservaron 
sani  in  mezzo  il  contagio.  Ricordami  avere 
udito  nella  mia  giovinezza  che  il  Ghedini  in 
Bologna  si  lasciava  ridere  in  faccia  nelle  ac- 
cademie poetiche,  e tollerava  pazientemente 
quella  vergogna,  non  dubitando  che  presto  o 
tardi  se  gU  farebbe  ragione.  La  Toscana  poi 
si  mantenne  pressoché  intatta,  che  non  fu  l’ul- 
tima certo  delle  sue  glorie. 

Del  rimanente,  s’ei  non  comparve  tra  i pri- 
mi o condannar  le  punte,  il  falso  lustro,  o 
le  iperboli,  sì  scagliò  il  primo  contra  una  nuo- 
va depravazione,  che,  sorta  in  Milano,  già 
dilatavasi  per  l’Italia.  Gran  turba  di  seguaci 
avea  il  Maggi , uom  certo  di  mente  vasta  e 
di  dottrina  uon  ordinaria,  ma  il  cui  stile  man- 
ca di  quella  dote  necessarissima,  che  il  poe- 
tico linguaggio,  dal  prosastico  distinguendo- 
lo, costituisce.  Se  molti  dall’uua  parte  si  met- 
tono a scrivere  in  poesìa,  che  non  han  nulla 
da  dire,  vero  è dall’altra  che  non  basta  l’aver 
cose  da  dire,  ove  dirle  non  si  sappia  conve- 
nevolmente; anzi  l’idea  e l’espressione  formano 
Un  tutto,  non  essendo  lo  stile  al  pensiero,  come 
affermano  alcuni,  quel  ch’è  la  veste  al  corpo, 
che  resta  il  corpo  medesimo  sensa  la  veste,  ma 
ciò  che  la  pelle,  la  fisonomia,  il  colorito.  Se- 
nonchè  i pensieri  del  Maggi  altresì , o i sen- 
timenti  che  voglian  chiamarsi,  non  approva 
generalmente  il  Maffei,  a cui  sembrano  acu- 
ti , sentenziosi  o riflessivi  troppo,  e per  isfre- 
natoamor  di  filosofia  profondi  soverchiamente 
o remoti,  onde  anche  molta  oscurità;  la  quale 

10  penso  aver  conferito  non  poco  alla  lama 
di  quell’autore , perchè  d’un  autore , in  cui 
ammiransi  alcune  cose  che  intendonsi,  molti 
quelle  che  non  intendono  ammirano  ancora. 

11  Maggi  a quel  tempo  era  su  l’orlo  della  vi- 


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s c I P I O X 

ta  , o già  morln.  Muover  le  sue  ceneri?  as* 
salire  chi  non  può  dilemlersi?  Cosi  pur  troppo 
si  suoi  ragionare  ; quasi  criticar  solo  si  po- 
tesse un  poeta  tiiichVgli  vive,  e non  fosse  anzi 
cortesia  il  non  isfroudargli  lu  capo  , mentre 
cammina  tra  gii  uomini  , quella  corona  che 
una  gran  parte  forma  per  avventura  delia  ter- 
rena sua  contentezza. 

Facendo  ragione  ij  Maffel  che  alle  sue  cri- 
tiche osservazioni  più  autorità  acquisterebbe 
s’ci  mandasse  lor  dietro  uii  esempio  luminoso, 
immaginò  un  poema  morale  in  ben  cento  can- 
ti I di  cui  non  abbiamo  a 8tanii>a  che  un  sag- 
gio. Vi  si  doveva  dimostrare  che  la  felicità  è 
iiel  diletto,  e che  il  vero  diletto  non  s’ha  nel- 
Fozio,  ne*  piaceri,  nelle  ricchezze,  nel  duini- 
nio,  e nè  tampoco  nella  gloria.  Convenir  mu- 
nirsi, la  prima  cosa  cuntra  il  dolore  e però 
rendersi  imperturbabile:  non  desiderar  nulla 
con  ardenza;  non  temere,  non  adirarsi.  Poi 
si  manifestava  quanta  dolcezza  si  trovi  nel- 
l'operazioni  delle  varie  virtù  e nell’esercìzio 
dell’intelletto.  Quindi  passavasi  a rappresen- 
tar l’inganno  di  creder  possibile  qui  una  fe- 
licità piena  , ove  la  meccanica  struttura  dei 
nostri  corpi  troppo  ci  dillìculta  il  dominio  as- 
soluto delle  passioni,  ove  alcun  bene  non  dura, 
ed  uve  tutto  è vallila.  Noti  si  dar  dunque  vera 
felicità  in  questa  vita  , nella  quale  non  è il 
nostro  ultimo  One;  ma  doversi  tare  ogni  sfor- 
zo, per  godervi  almen  l’imperfetta,  mediante 
la  direzione  all’etenia.  Questa  dottrina  sanis- 
sima , che  il  succo  può  dirsi  delle  greche  scuo- 
le , dell’epicurea,  della  stoica  e della  peripa- 
tetica, corretto  dalla  lilosofìa  cristiana  e per- 
fezionato, aveasi  ad  esporre  con  perpetua  in- 
venzione maravigliosa.  L’idea  generale  è un 
viaggio  alla  luna  , in  cui  abitar  sì  suppone 
spinti  di  spezie  diversa , anime  di  trapassati, 
ed  uomini  dal  nostro  già  trasmutati  a quel 
mondo.  Giunge  il  poeta  dov’eseguivasì  annuo 
sagrificio  solenne,  e sente  come  la  grazia  che 
implora  da  Lio  il  sacerdote,  si  è,  che  i no- 
stri voti  non  esaudisca.  Maravigliandone,  de- 
scriver s’ode  la  vanità  de’ desideri!,  e quanto 
spesso  non  cerchiamo  che  il  nostro  aanno. 
Qualche  luogo  cuncedea  pure,  fuor  della  mo- 
rale, a materie  scìentiiirhe  di  più  generi,  ma 
sempre  favoleggiando.  Per  cagion  d’esempio, 
con  un  mirabil  vetro  che  ottenne  in  dono, 
vede  gli  elHuvii  invisibili  delle  cose,  e la  fi- 
gura loro  ed  Ìl  moto.  Gli  episodi!  viilevano  es- 
sere storici,  e tratti  dalla  guerra  della  Succes- 
sione segnatamente,  svelandovi  il  poeta  molte 
particolai'ità  non  ben  conosciute , ed  il  cam- 
peggiare, il  marciare,  l’assediare,  l’armi,  e 
j|  combattere  rappresentando  de’nostri -tempi. 
La  battaglia  di  Lonavert,  a cui  intervenne, 
apparia  iu  uno  specchio  per  artifizio  d’im  ne- 
gromante. Descrivea  un  conflitto  navale  nello 
Stretto  dei  Lardanelli;  e le  ombre  d'Ettore, 
d’Achille,  di  tanti  eroi  sepolti  sotto  que’lidi, 
uscivaii  delle  lor  tombe,  e disposte  su  la  riva, 

Eer  veder  lo  spettacolo,  rendevano  ai  com- 
attenti  quello  spavento  che  dallo  strepito 
ignoto  delle  loro  artiglierie  riceveauo.  E usava, 

riNUEM.  ELUOI. 


: M AFFLI.  9 

non  che  tutti  gli  stili,  i metri  altresì , acco- 
modando questi  non  men  che  quelli,  alle  di- 
verse cose  a dipìnger  tolte,  a fin  di  meglio 
dipingerle.  Ogui  sorta  di  versi  usò  Cheremune 
tra  i Greci  nel  suo  Centauro  , che  i)  tempo 
c’mvolò  interamente,  a non  parlare  de’nostri 
ditirambi  ; e dopo  la  morte  del  MafiVi  un  let- 
terato francese  raccomandò  la  pluralità  de’me- 
tri , asserendo,  che  questa  mescolanza  di  nu- 
meri, analoga  ai  movimenti  deU’animo  e alla 
qualità  degli  oggetti,  sarebbe  preferibile  al- 
l’uniformità de’trancesi  distici , e dell’ottava 
italiana.  Cosi  Marmontel  nella  sua  Poetica. 

Non  mi  par  fuor  di  proposito  il  toccar  qui 
una  nuova  opinione  che  il  rinomato  lord  By- 
roti  produsse  in  una  sua  lettera  a dieci  aste- 
rischi, o stellette  , indiritta  , in  cui  prese  a 
difender  Pope  contra  le  appuntature  del  si- 
gnor Bowles.  Chi  avrebbe  creduto  che  un  By- 
ron,  la  cui  scuola  è così  altra  da  quella  dì  Fope^ 
rompesse  una  lancia  per  lui?  Egli  pianta  que- 
sto princìpio,  che  la  poesia  didascalica,  e quella 
singolarmente  in  cui  trattasi  di  morale  , sia 
di  tutti  i generi  il  primo;  perchè  ciò  che  rendè 
Socrate  il  più  grande  degli  uomini  fu  la  sua 
Etica,  e ciò  con  che  Gesù  Cristo  provossi  fi- 
gliuol  di  Lio  poco  meno  che  coi  miracoli, 
furono  i suoi  morali  precetti.  Peccato  che  il 
sistema  d’Epicuro  guasti  Lucrezio!  Senza  que- 
sto noi  avremmo  un  poema  molto  al  di  so- 
pra d’ogni  altro  in  qualunque  lingua:  come 
mera  poesia  vai  più  àeW Bneide,  Egli  è una 
moda  corrente  il  tanto  magnificar  ciò  che  im- 
maginazione chiamano  , ed  invenzione  , doti 
comunissime  l’una  e l’altra:  un  contadino  d’ Ir- 
landa con  un  po’  dì  whiskey  nel  capo  imma- 
ginerà e inventerà  più  che  non  è mestieri  ad 
un  moderno  poema.  Ma  io , con  pace  del  no- 
bile liOrd  , credetti  sempre  due  cose  : Puna 
che  il  poema  epico  occupasse  fra  tutti  i ge- 
neri il  primo  luogo;  l’altra,  che  parte  rag- 
guardevolissima e quasi  divina  della  poesia 
fosse  l’invenzione.  Nè  mi  parve  per  questo  di 
non  onorar  la  morale  di  cui  il  poeta  epico  si 
professa  maestro,  non  come  i filosofi  iie’ior 
trattati,  ma  sostituendo  ai  precetti  gli  esempi, 
e rivolgendo  in  azione  l’insegnamento.  Di  ciré 
Francesco  Maria  Zanotti  va  sì  persuaso  che 
i Sermoni  , al  cui  genere  tutte  le  bellissime 
composizioni  morali  di  Pope  si  posson  ridurre, 
non  dubitò  chiamar  poesie  imperfette  rim- 
petto  alla  tragedia  ed  alla  commedia,  non  che 
all’epopea,  li  poema  del  MaiFei , il  quale  ne 
viene  ad  esser  l’attor  principale  e quasi  l’e- 
roe, a quella  guisa  che  del  suo  l’Alìghieri, 
non  può  a rigore  chiamarsi  epico.  Contuttociò 
l’autore,  andando  sempre  per  via  d’invenzioni, 
dà  a divedere  di  conoscer  perfettamente  il  suo 
uffizio  ; e però  merita  senza  dubbio  e la  lode 
di  avere  assunto  una  scienza  sì  nobile  per  ar- 
gomento , e quella  d’essersi  posto  a trattarlo 
secondo  l’arte,  cioè  di  tal  mono,  che  il  lettore 
Tammaestramento  ricevesse,  mentre  altro  non 
aspettavasi  che  il  diletto. 

Questo  lavoro  sì  curiosamente  concepito  e 
sì  arditamente , non  gli  permise  di  compier 

3 


io 


I-:  1,  o r,  I 0 D K r 

mai  le  varie  opere  che  successivamente  intra- 
{nese,'stcumiochò  u la  noviiù  ^ o i'impurtanza 
«Iella  materia  a scrivere  l’invitnva.  Il  sog^etto^ 
<*htt  primo  staccò  ila  sì  gran  tela  poetica  la 
Koa  mano  , fu  quella  strana  dottrina  cavalle- 
iTsca  che  di  tutie  le  piaghe,  che  nel  bel  corpo 
lioiriialia  impressero  i Barbari,  mostra  la  piu 
{>rui'onda  essere  stata  e la  più  insanabile.  Chi 
non  sa,  come  dalle  leggi  de’I^ongobardi  s^'n- 
trodttccsse  l’uso  tra  noi  di  deridere,  non  se- 
«•ondo  ragione  , ma  con  la  forza  , le  contro- 
versie e le  liti?  qnai  pazze  maniere  di  prove 
c!  quali  opinioni  sciocche  in  proposito  di  onore 
V (l’int'amia  prendesser  piede?  qual  travolgi- 
inento  si  facesse  della  morale  / e qual  confu- 
sione entrasse  nelle  idee  del  biasimo  c delia 
Inde,  del  male  c del  bene,  del  vizio  c della 
virtù?  Sì  leggiadra  dottrina  dalla  Scandina- 
via , ove  nacque,  portata  in  Italia,  c auto- 
lizzata  qui  da  Botano  e suoi  successori,  non 
«he  da’re  Franchi  e germani,  e oppresso  da 
quei  semibarbari  jurìsperiti  che  si  chinmavan 
]>rQmmalici  , caldamente  promossa,  i nostri 
scriltori  nel  <le«:irnoquinto  secolo  ordinaroiila 
»«cr«*bberlaed  illustraronla.  Perchè  dove  prima 
scritto  s’ era  del  solo  duello,  cominciossi  a 
trattare  allora  della  mentita  , di  chi  è attore, 

«►  reo  , della  negativa  , della  briga  , del  carico 
e di  tutte  le  alire  parti,  onde  questa  si  com- 
pone ridicola  scienza  ed  assurda,  sino  al  prin- 
riplo  del  seco!  passato  d’ornare  in  Italia  non 
Sì  restò  e d’indorare.  Vergogna  sì  fatta  delia 
linzìone  potrà  l’uUimo  Italiano  vederla  rlmes- 
^ame^tef  Certa  scrittura  per  una  contesa  tra 
il  suo  maggior  fratello  e un  altro  cavaliere 
ll.‘•cì  fuori.  Colse  il  Maffei  l’opportunità,  e 
pubblicò  quasi  a preparar  gli  animi  , dotto 
(ihrrtto  senza  anno  e luogo,  intitolato  La  / <z- 
KÌlà  della  scienza  capalleresca  y in  cui  par- 
Um  déir(»rigiiie  sua,  deira«3cresclmento  , e de’ 
Mioi  falsi  principii;  e a cui  Sf'guì  con  breve 
intervallo  la  grande  opera scienza  chia” 
mata  Cavalieresca,  opera  di  cui  l'iialia  non 
vanta  in  Hlos«dia  morale  nè  la  più  utile  certo, 
nèja  pili  India. 

K difiicile  il  dire  chi  meglio  le  parti  sue 
\'i  sostenga,  se  il  filosofo  o l'erudito.  Prova 
il  Mosoio,  come  questa  scienza  non  è assistita 
«lalla  ragione,  la  quale  niegherù  sempre  che 
l’onor  cavalleresco  sia  il  supremo  de’  beni  e 
«la  preferirsi  alla  vita,  al  principe  ed  alla  pa- 
tria; e che  q'ieht’onore  intendasi  che  si  vuole 
e piglisi  per  l'onestà  stessa,  il  tolga  l’altrni 
ingiuria  , si  ricnprri  col  risentimento  e di  sal- 
varlo abbiati  forza  e Hi  restituirlo,  la  men- 
r ta  , il  duello  e le  soddlstazionì  quali  si  sieno. 
<.)nindi  la  necessità  d'un  fòro  cavalleresco, 
elm  altro  non  fu  sempre  che  immaginario. 

Xc  più  che  dalla  ragione  è soccorsa  dal- 
rantontà;  il  che  si  dichiara  nella  parte  se- 
••4inda,  in  cui  l'erudito  il  principio  n'espone, 
il  progresso  e la  (òrma,  spargendo  nuovi  lumi 
per  tutto  di  antichità,  di  storia  , di  saper  le* 
e politico  , e dimostrando  quanto  eran 
più  savi  di  noi  gli  antichi  (Tceci  e i Uonianì. 
e il  »ono  i Turchi,  Persiani  eCinesi;  perchè 


MARCHESE 

altni  è venire  a singoiar  pugna,  che  può  essere 
inevitabile  alcuna  volta,  altro  aver  libri  rlie 
.seriamente  ne  trattino,  raccoglier  consigli  e 
rasi,  e ammazzarsi  in  regola,  e giusta  il  ilet« 
tato  de’giurecnnsulti.  Si  scorge  qui  non  esser 
necessario  il  «lir  Langobanll,  contorme  il  Ma- 
billon , c molti  altri,  die  trovaron  così  ne- 
gli originali  dc’diplumi,  insegnarono  ; scri- 
vendo , è vero,  i 'rpileadii  lang,  ma  long 
prominziamlo  cumuneuiente , cioè  a riserva 
de 'Sassoni.  E l’origine  si  vede  che  indagata 
non  eresi  aurora  , dell’inimicizia,  o vuoi  delia 
briga;  poiché  ristrettissima  essendo  nelle  na- 
zioni germaiiich’'  anticamente  la  potestà  regia, 
si  governavan  le  terre  da  signorotti  partico- 
lari , i quali , oltraggiandosi  scambievolmente, 
e un  comune  magistrato  mancando,  si  ren- 
dcan  giustizia  da  se  con  la  guerra,  die  in  lor 
linguaggio  chiainaron  faida,  e suona  inimi- 
cizia , o briga  nel  nostro.  • 

T«>rna  in  i.'Cena  nella  terz;i  ed  ultima  parte 
il  filosofo,  e toccar  fa  con  mano  che  nè  tam- 
poco dall’utiiilà  la  supposta  scienza  è difesa. 
Xoii  sì  nianlenne  in  virtù  di  lei  forse  il  duello 
CRvaileresco  e la  fatai  massima  non  invalse 
dell’ obbligo  della  vendetta?  Non  furon  da 
lei  stimolate  e promosse  ie  ingiurie  con  aver 
rendnta  più  vantaggiosa  e onorevole  la  con- 
dizione degl'ingìuriaiui  ? Non  ebbe  principio 
in  lei  ogni  snperchieria  ed  assassinio,  il  por- 
tare armi  nascoste,  il  nodrire  sgherri?  Non 
è «l-’ssa  die  inasprisce  ed  eterna  le  liti  per  le 
inhiiite  diihcoltà  e lunghezze,  e per  le  dili- 
gentissime notomie  d’ogui  sguardo,  d’ogui  ge- 
sto e d’ogni  parola? 

Ma  non  c verità  che  ora  il  filosofo  in  que- 
s»o  libro  apparisca  etl  or  rerudito.  L’uno  « 
r.iliro  vi  campeggiano  a un  tempo,  non  an- 
dan<lo  mai  nè  il  raziocinio  dal  sapere,  nè  il 
saper  disgiunto  dal  raziocinio.  Non  parlo  di 
una  somma  chiarezza  e d’uii  ordine  e metodo 
singolare,  e non  facile  in  opera,  ove  si  coii- 
rmano  scrittori  die  non  s’accordaii  tra  loro, 
e che  ordine  o metodo  non  serbano  alcuno. 
K lo  scrittore  risplendevi  ancora , lo  scrittore 
elegante,  senza  barbarismi  o arcaismi  che  tra- 
sportino il  lettore  o in  un’altra  nazione , o in 
un  altro  secolo  contro  sua  voglia.  Vuoisi  an- 
che osservare  che  due  requisiti  nel  Mallei  era- 
no, se  non  necessari , opportuni  certo  a trat- 
tare un  tale  argomento.  L’uno  l’e.s.,er  nato  no- 
bile , perchè  di  cosa  die  la  nobiltà  sola  ri— 
sguurdava  , sexivea  ; onde  il  motto  ]Sos  no- 
stra corrigimus  , tolto  dal  Cardinal  Noris,  che 
Veronese  ed  Agostiniano,  corresse  il  Panvinio 
della  ste.ssa  patria  con  luì  e della  .sie.ssa  re- 
ligione. Al  qual  proposito  noterò  ch'io  desi- 
derare udii  al  celebre  Alfieri  la  medesima  qun- 
liià  nel  Parini,  senza  la  quale  non  gli  per- 
donava che  fatto  avesse  nel  suo  bellissimo 
Giorno  la  satira  de’noblli  del  suo  tempo. L’al- 
tro requisito  traealo  il  MaHei  dulie  prove  «li 
coraggio,  che,  prima  di  condannare  sì  aper- 
tamente il  duello,  date  avea  in  più  occasioni, 
c allora  in  particolare  che  militò  col  frutelU» 
nella  Baviera;  lasciaiidij  di' egli  eia  destro 


V 


vS  C I P I O N E 

delia  persona  e multo  valente  nello  schermire. 

Pi  ima  di'ei  portasse  a termine  la  sua  t'a« 
tiuu  » cadde  in  furari  debolezza  di  corpo  , se 
crediamo  a una  lettera  di  Apostolo  Zeno  ad 
Ottavio  Alecchi,  dotto  veronese , direttacela 
ceiisettantesiina  drlta  Raccolta  che  l'abate 
Morelli  delle  lettere  di  Apostolo  pubblicò. 
Qoesi'uUitno  si  cundtissea  Verona  nello  stesso 
anno  1707,  come  la  lettera  che  succede  , e va 
al  Horentino  Francesco  Marmi, c'insegna,  nella 
quale  molto  si  stende  sul  diletto  grandissimo, 
di  cui  la  dimora  in  Verona  gli  fu  cagione. 
J[o  godalo  in  quella  citlà , oltre  Vamabilis^ 
jirna  compagnia  del  marcUese  Majfei,  la  beU 
Uzza  del  stlOf  la  magmjìctnza  delle  strade 
€ delle  fabbriche  , e sopra  tutto  le  maesttse 
reliquie  della  romana  antica  magmjicenza. 
£ qui  parla  dell’atifitealro  ch’era  statua  ve- 
der più  volte,  e degli  ultimi  scoprimenti,  ed 
in  ispecie  d’un  pozzo  recentemente  trovato, 
riferetulo  Topinione  di  alcuni  , die  fosse  ad 
uso  d*  innalzarvi  un  grande  albero,  per  cui 
sì  sostenesse  il  velario.  A/a  , soggiunge  , qval 
probabilità , che  il  pià  bel  mezzo  dell'arena 
fosifC  da  cosi  fatta  macchina  ingombrato,  e 
impedito  nelfueo  de'gtuochi  e degli  spetta- 
coli? Fu  il  Zeno  de’ più  teneri  e cosluiìti 
amici  del  nostro  òciplone  , <Ìi  cui  scrisse  molti 
anni  dappoi  ad  Annibale  Olivieri , che  non  si 
può  conoscerlo  e non  amarlo.  E perché  l‘a- 
cilissimu  era  il  conoscerlo  , tralucemlo  nella 
sua  favella  e nell'aria  del  volto  con  riiig**giio 
anche  l’animo  , giudichi  il  lettore  se  molti- 
quei  che  l'amavano  , doveano  essere  : oltre  che 
il  solo  lasciarsi  conoscere  facilmente  è purie 
non  piccìoia  dell'amabilità. 

Kè  meglio  della  persona  si  sent'ia  ranno 
appresso,  culpa  probabilmente  degli  int>n->i 
suoi  studi,  ne’ quali  soli  hi  virtù  gli  lallia 
della  temperanza.  Tuttavolta  la  sanità  poco 
ferma  di  cui  lagnavusi , non  Pimpedi  <li.-cr- 
vire  il  re  di  Danimarca  Federico  IV,  che  nel 
dicembre  1708  onorò  con  sua  dimora  di  dieci 
giorni  Verona,  e ch'io  iioii  so  qual  dì  due 
cose  si  maravigliò  più  di  trovare^  se  un  avanzo 
su  i nostri  monti  di  Cimbri,  tra  la  cui  lin- 
gua e la  danese  qualche  aillui'à  riconobbe,  o 
per  la  stagione  die  quell'anno  rigidissima  coese, 
j1  danese  inverno  in  Italia.  Ma  , venuta  la 
primavera  c riscaldatasi  alquanto  l'aria  , il 
Madéi  andò  a Padova,  ove  con  qucll’iinpetu 
del  suo  spirito,  che  lu  imlisposizion  corpo- 
rale non  rallentava  , cos'i  a un  dipresso  mi 
sembra  mlirlo  parlate  al  professor  Vulliameri 
ed  allo  Zeno,  che  in  Padova  era  per  caso: 
Non  vedete  voi  L'ingiiistizia  e la  negligenza 
dei  forestieri  m riguardo  aW  Italia?  ^e.gli  Atti 
di  Lipsia  i migliori  nostri  libri  si  passano 
sotto  silenzio  , e nelle  Memorie  di  T.ct^‘>u,x 
gli  scrittori  rwstns’appuntanocontinnamente. 
Ci  staremo  noi  con  le  numi  a cintala  , quasi 
non  avessimo  penne  , inchiostro  e intelletto? 
O son  forse  qui  divenuti  ottusi  gl'ingegni,  e 
il  sole  spunta  , più  che  al  tempo  ae  nostri 
padri,  lontano  da  questo  clima?  For  di  tal 
loiza  le  sue  paiole,  1 h(i  uaiipie  subito  tia 


M A r F E I.  Il 

quell’illustre  triumvirato  il  pensiero  di  com- 
pitare un  buon  Giornate  Italiano  , il  (|ual. so- 
verchiasse a gran  lunga  la  corrente  Galleria 
di  Minerva  t di  cui  spiacer  potrà  sino  al  ti- 
tolo , che  le  ricercatezze  seccntistiehc  ricoi- 
dava.  Ecco  l'origine  del  famoso  Giornale  i\c' 
Letterati,  onde  si  diè  alio  Zeno  la  ilirezioiu  , 
e nel  qual  basti , ch'ebbero  parte,  oltre  i suoi 
tre  fondatori  , un  Morgagni  ; uno  Zcndniti, 
un  Puleni,  un  Muratori  ed  un  Foiitanini;  gior- 
nale, che  o si  ponga  mente  al  dettato,  o albi 
quantità  delle  notizie  , o alla  maestria  degli 
estratti , o alle  dottrine  delle  dissertazioni,  tm 
ornamento  sarà  sempre  delle  biblioteche  ch^ 
il  serbano  e un  desiderio  di  quelle  che  noi 
posseggono;  e giornale,  di  cui  priiuipal  lino 
non  era  il  dar  risulto  con  evidente  parzialità 
a tre  o quattro  hcrittori  nostrali,  mai  colpi 
degli  avversari  stranieri  a un  bisogno  rihai • 
tere;  e sopra  tutto  nrj'tlcre  in  moaira  le  rie- 
chf-zze  letterarie,  o scieutilirhe  deiPltaiia. 

Da  Padova  passò  il  Mailéi  a Firenze  , ove 
ottenne  <)al  gran  principe  Ferdinando  , che 
spesso  chiamavaio  a corte,  la  permissione  ds 
dedicarglielo.  Ma  ei  riuii  uvea  racqiiistato  an- 
cora il  vigor  perduto;  per  la  qual  cosa  si  con- 
dusse ai  Uagni  di  l.ucca  , se  in  quelle  rete- 
brate  acque  il  potesse  mai  rinvenire.  Nc  fu 
della  sua  speranza  iàilifo.  Hiturno  lieto  a l'i- 
reiize  , donde  spedi  sollecitamente  allo  Z^no  o 
la  Dedicatoria  e Perudita  Preiazion  generale. 
Si  tesse  nella  medesima  ima  storia  di  tutti  i 
giornali  , si  parla  dell’utilità  di  tuli  opere  pe- 
riodiche; e si  dichiara  il  metodo  die  i com- 
pilatori preligevansi  di  tenere.  Nè  vi  s’onicLio 
di  assennare  quei  di  Trcvuux  , ai  quali  ciò 
non  ostante  piacque  cotanto  , che  il  nieglui 
in  una  delle  Prefazioni  loro  ne  trasportarono, 
lu  avrei  desiderato  che  visi  accennassero  an- 
cora le  qualità  d’uti  ottimo  giornalista;  di  cui 
detto  s’avrehbe  probabilmente  die  un  intel- 
letto non  ordinario  si  richiede  in  lui  fuor  di 
dubbio  , ma  che  nulla  vale  la  dottrina  n il 
giudiciu  senza  la  virtù  cd  il  candore;  ch’egli 
dee,  mentre  scrivo,  non  aver,  per  quanto  o 
possibile,  nè  patria,  nè  parenti , nè  amici,  <• 
nemici  ; che  il  primo  suo  scopo  non  sarà  di 
piantar  nelle  memi  un  concetto  grande  ilei 
[iropriu  criterio,  abl>assaiido.  gli  autori  più 
accreditati,  e ì meno  accreditati  innalzando; 
che  non  si  terrà  da  lodare  ohiasimure  un  au- 
tore , perchè  di  tal  biasimo  o lode  olh-rid:»- 
rebbesi  un  altro  o più  irritabile,  o più  po- 
tente; che  non  dara  nell'assurdo  di  laveliant 
a lungo  dell’opere  meii  preuevoii  , e le  f 
importanti  e gradite,  nò  registrar  pure  ; eli - 
tieiimente,  che  parer  non  gli  farà  più  o im  u 
bella  un'idea,  o uii'i-spressiune  , 11  conviMiire, 
o il  dissentire  da  lui  nelle  credcnzi?  pulitldiu 
e religiose;  dalle  quali  tutte  cose  vedrebbe''! 
che  non  si  disapproverebbe  Tadoperar  gingia- 
mente  così  le  ceiisurc,  come  gli  eiicomii,  con  • 
dizioii  necessaria,  per  mm  niiincare  al  prin- 
cipale suo  iiHizio  ch’è  di  promuovere  lu  ci  L- 
ticH  nella  sim  nazione  ed  il  gusto. 

Roma  iiitaiilo  aspettava  il  uoslio  Malici  tho 


.lOU^Ic 


13 


ELOGIO  DEL  MARCHESE 


Tolea  stampar  la  sua  Scienza  Cavalleresca 
in  quella  città  e intitolarla  a un  punteHce  di 
facondia  lodato  e d’erudizione , a Clemente 
Undecimo , cui  egli  stesso  la  presentò  di  sua 
mano.  Volò  appena  per  l’Italia  il  bellissimo 
libro , che  levossi  da  tutte  le  parti  un  grido 
d’ammirazione  e d’applauso.  Uscirono,  è vero, 
alcuni  scritti  in  contrario , ma  in  breve  mo- 
rirono, perchè  ciò  non  comparve  che  sol  potea 
qualche  tempo  tenerli  in  vita  : le  Mafieiane 
risposte.  Non  so  perchè  il  Maffei  non  colo- 
risse quei  suo  disegno  di  ampliare  alquanto 
l’opera  sua  e trattarvi , secondo  gli  s’aggirava 
per  capo , dell'onore  ad  uso  degli  oltramon- 
tani e delle  armate.  Cosa  deplorabile  che  in 
tempi  che  diconsi  filosofìci , e in  una  nazione 
che  vanta  i suoi  lumi,  il  potere  delle  sue  leggi 
e la  sua  libertà  , si  sfìdino  talvolta  i legisla- 
tori stessi  a duello  per  un  nonnulla  , e cre- 
dono non  esser  degni  di  vivere  se  non  fan 
d’ammazzarsi  scambievolmente  con  una  palladi 
piombo  nel  petto  1 Quanto  all’Italia  , ardisco 
affermare,  che  frutto  sì  pronto  e sì  grande 
d’una  scrittura  mai  non  si  vide.  Se  la  furia 
de’duelli  non  cessò,  scemò  certamente;  e,  non 
sapendosi  più  con  ragione  alcuna  difenderli, 
altro  non  rimase  che  confessare  la  propria  der 
bolezza  in  cedere  ad  una  usanza , che  alla  re- 
ligion  s’oppone,  al  buon  senso  ed  al  ben  co- 
mune, e cui  nessun  può  col  giudicio  suo  , al- 
meno interiormente  , non  condannare.  Ma  ciò 
che  veramente  formava  la  così  detta  scienza 
cavalleresca,  ricevè  un  colpo  mortale;  sicché 
l’autore  conseguì  quello  che  potuto  non  avean 
prima  decreti  di  papi,  editti  di  principi,  ca- 
noni di  concili , e trasmutò,  giusta  l’espres- 
sione del  Bettinelli  nel  suo  £ntusiasmo , il 
pensare  degl’italiani.  Tanta  è la  forza  , che 
talvolta  esercita  sopra  un’intera  nazione  la  sa- 
pienza eloquente  d’un  uomo  solo. 

Volea  Clemente  Undecimo  ritenere  in  Roma 
il  nostro  Veronese;  ma  cosa  nè  un  papa  po- 
tea  offerirgli,  di  cui  ei  non  valutasse  ancor 
più  la  sua  independenza.  Si  ridusse  pertanto 
alla  patria , in  cui  poco  restò , cercandovelo 
io  inutilmente  nel  1711,  e in  vece  nella  ca- 
pitale scorgendolo  dei  Piemonte.  Con  quella 
facilità  che  un  altro  il  suo  giardino  passeggia, 
ei  viaggiava  pel  giardìu  dell’Imperio  , qual 
chiamò  Dante  l’Italia,  che  poi  giardin  dell’Eu- 
ropa chiamossi,  comechè  or  languido  in  alcune 
parti  e sfiorato.  Era  in  Torino  per  affari  do- 
mestici, cioè  per  ricoverare  il  marchesato  di 
Farigliano  dalla  famiglia  perduto,  benché  ne 
fosse  stato  investito  il  padre  dopo  la  morte 
dello  zio  General  da  Monte  che  in  premio  lo 
ebbe  del  suo  valore.  Così  tuttavia  non  l’occu- 
pavan  gli  affari  che  molte  ore  non  passasse 
nella  reai  biblioteca  di  curiosi  libri  e di  ma- 
noscritti talmudici  e rabbicini,  non  che  di  greci 
doviziosamente  fornita.  Ne  mandò  allo  Zeno 
una  Relazione , in  cui  è da  notarsi  tra  il  re- 
sto la  notizia  nuova  dell’intera  Epitome  delie 
Instituzioni  di  Lattanzio,  creduta  mancante 
di  due  terzi,  ed  acefala,  e appresso  pubbli- 
cata da  Cristoforo  Matteo  FfalF,  dottissimo 


protestante  che  si  trovava  l’anno  stesso  in  To- 
rino col  giovane  priiici[)e  di  Virtemberga.  Me- 
rita considerazione  altresì  uii’antic»  e fedele 
version  di  Dante  , la  qual  comincia  : 

jéii  milieu  du  chemin  de  la  vie  presente 

Me  retrouvay  pariny  ime  forét  obscure  , 

Ou  m’estoy^e  esgatv  hors  de  la  droicte  sente. 

è tutta  nel  metro  stesso  che  l’originale,  me- 
tro che  i Francesi  non  usano,  come  nè  anche 
gl’inglesi,  tuttoché  il  sopraccitato  lord  Byron 
l’adoperi  nella  sua  Profezia  di  Dante  : ma 
quanto  all’anno,  essendo  io  in  quella  città  e 
nella  biblioteca,  non  mi  riuscì  rintracciarlo, 
e nè  tampoco  il  nome  del  traduttore  , che 
certo  precedè  il  Grangier,  la  cui  versione  vide 
la  luce  nel  1697  in  Parigi.  Ricco  il  Maffei  di 
notizie  bibliografiche,  ma  non  del  marchesato 
di  Farigliano,  che  di  ricoverare  non  gli  andò 
fatto,  si  rimise  in  via  per  Verona,  dove  una 
sciagura  impensata  e delle  più  gravi  atten- 
dealo  ; la  morte  dell’incomparabil  sua  madre. 
Notai  già  che  amor  singolare  a questo  figlio 
portava  , e d’uguale  affètto  rispondeale  Sci- 
pione ; il  quale  nel  Proemio  alle  Memorie  del 
fratello  Alessandro  narra  di  lei  ch’era  dama, 
quando  si  maritò , deW arciduchessa  di  Man- 
tova , e che  risplendea  molto  per  le  sue  qua- 
lità in  quel  tempo.  E soggiunse  : Riuscì  que- 
sta poi  donna  ardente  nelVamor  vero  dé‘ fi- 
gliuoli, piena  di  spiriti  grandi  , e dotata  non 
meno  di  molto  ingegno  che  di  gran  cuore  , e 
che  non  conobbe  paura.  Costume  raro  nel 
sesso  , di  cui  non  sembra  propria  virtù  la  for- 
tezza : però  Aristotile  la  disse  avòfix  quasi 
non  s’annidasse  che  in  uomo. 

Pianta  una  madre  sì  egregia  e sì  da  lui  ve- 
nerata, cercò  un  sollievo  al  dolore  nella  sua 
libreria,  dettando  una  latina  Dissertazione  su 
la  favola,  qual  ei  la  chiama  dell’ordine  Co- 
stantiniano. Asserito  avea  nella  Scienza  ca- 
valleresca che  tutti  i cavallereschi  ordini  rico- 
noscono il  lor  principio  dalle  Crociate  : il  che 
spiacque  a coloro  che  dall’imperator  Costan- 
tino, e da  que’ciuquanta  soldati  che  alla  cu- 
stodia del  Labaro  ei  deputò,  l’ordine  Costan- 
tiniano fean  derivare.  Nulla  tanto  denota  la 
forza  delle  passioni , quanto  l’odio , che  ha 
l’uom  talvolta  per  la  verità,  che  pure  ama  s,ì' 
ardentemente  poiché  sì  avidamente  la  cerca. 
Ma  chi , nemico  più  che  il  Maffei,  di  tutte  le 
opinioni  torte,  e le  chimeriche  tradizioni?  Chi 
più  animoso  a combatterle,  e in  tempi  ancora 
non  favorevoli  e da  disanimare  ogni  altro  seri  t- 
tore  ? Frasi  in  effètto  avvisato  il  Duca  di  Par- 
ma di  assumer  quell’ordine,  e presentar  ne  avea 
fatto  a Clemenete  Undecimo  le  regole  da  ap- 
provarsi. Ma  io  non  parlo , dicea  il  Maffei, 
dell’ordine  che  un  principe  vuol  dispensare: 
parlo  della  favolosa  istorietta  che  del  mede- 
simo si  racconta  , e tratto  un  punto  d’erudi- 
zione e d’antichità. 

Circa  la  metà  del  secolo  decimosesto  alcuni 
poveri  Greci  di  rito  latino  , che  nello  stato 
veneto  dimoravano,  si  dicro  a .‘spargere  d’es- 


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S C I r I O \ E M A f F K I. 


s^r  della  famiglia  Angela  Comnena  , e <li&cen* 
dere  da  Cii^tantino  il  Grande.  Divulgarono 
stupende  carte,  che  principi  li  dichiaravano 
e duchi  di  varie  province,  e diritto  lor  da> 
vano  all'imperio  di  Costantino|Kjli.  In  oltre 
lincierò  una  religione  di  cavalieri  istituita  da 
Costantino  , e s’iniitolarouo  supremi  mapistri 
militiae  Sancii  Georgtì  , con  tacpltù  di  creare 
milites  Constantinianos , sive  equites  sub  re- 
gala  Sancii  Bastiti  ei  Sancii  Georgii , e ti- 
toli pubblicarono  e documenti  mnravigilosi. 
Ma  la  commedia  hni  tragicamente.  Punito  ne 
venne  l’attor  principale,  che  ai  vide  cangiato 
improvisamente  in  vera  galea  il  trono  fanta- 
stico di  Bisanzio. 

11  Maffei  nella  suddetta  Dissertazione  che, 
in  forma  di  lettera,  a Gisberto  Ciipero  indi- 
rizza, mostra  su  le  tracce  del  Cangio,  il  ri- 
dicolo di  quelle  carte,  e il  falso  manifesta  di 
que'documenti.  Nulla  tanno  i pontilicii  brevi, 
che  tanto  son  validi , quando  veri  sono  i pri- 
vilegi , tenendosi  per  giudice  supremo  il  Pon- 
tefice nelle  cose  che  la  fede  risguardano,  ed 
ì costumi,  non  in  quelle  che  la  storia  o la  fi- 
lologia. Quindi  l’approvazione  di  Papa  Cle- 
mente cade  bensì  su  gli  statuti  che  a quelli 
si  conformano  degli  altri  ordini}  su  la  favo- 
losa novelletta  non  cade.  K in  riguardo  al  chia- 
mar Costantiniano  quest’ordine  chiamisi,  se 
COSI  aggrada,  ma  sol  perchè  instituitu  in  me- 
moria del  Labaro  e delia  Croce  veduta  nell’a- 
ria dairimperatore. 

Poma  nondimi'iio  disapprovò,  e pose  nel- 
l’Indice un  libro,  in  cui  non  si  ragiona  delle 
pontificie  bolle  a quel  modo  che  da  lei  si  desi- 
dera. Senonchè  potrebbesi  dire  che  nell'In* 
dice  non  andava  sedente  il  gran  Lambertiiii, 
il  quale,  scrivendo  alTlnquisltor  generale  di 
Spagna,  che  i libri  del  Cardinal  Noris  avea 
cumlannati , opinò  , non  dover.si  proibire  le 
opere  degli  uomini  grandi , benché  contengan 
cose  che  spiacciono,  e per  cui  meriterebbero, 
uscite  da  minori  penne,  divieto.  Il  Mafìcl  in 
una  Lettera  all’abate  Conti,  che  nella  bibliu- 
tei'a  del  nostro  Capitolo  si  conserva,  par  non 
dubitare  , patisse  la  Dissertazione  un  simile 
storpio  per  maneggio  massimamente  cU-’Ge- 
siiiti  che  insinuati  avessero  al  Duca  di  Parma 
d'assumer  quell’ordine.  Nò  fu  il  solo  infor- 
tunio quello  a cui  la  stessa  soggiacque.  SJe- 
gnossene  il  Parma  , e bisognò  per  calmarlo, 
raccorne  molti  esempla  ri,  e consegnarli  al  conte 
Pighetti  suo  ministro  in  Parigi , ove  fu  stam- 
pata. Lo  stesso  Pighetti  schiccherò  una  con- 
intazione,  che  rimase  inedita.  Ma  inedita  non 
rimase  quella  dell’avvocato  lazzari  veneziano, 
lo  non  so  se  la  pubblicassero  i Gesuiti,  con- 
forme credettesi  : so,  non  far  troppo  buon 
viso  alla  Dissertazion  del  Maffei  il  gesuita 
Zaccaria,  che  gli  scrìtti  di  lui  portò  sempre 
ftinu  alle  stelle.  Comunque  sia,  nulla  rispose 
l’.iutor  veronese,  cui  anteriormente  difesero 
in  certo  modo  tre  personaggi  che  pesavano 
a'quanto  pivi  dell’avvocato  Lazzari  e del  di- 
pfiimatico  righetti  : ciò  sono  il  padre  Mont- 
iaucun  , il  monaco  Quiriai,  poi  cardinale,  e 


il  soprallodato  Lambertini.  Qiiest’ultinio  avea 
steso  per  la  Congregazione  deH’lndice  un  rap- 
porto favorevolissimo  che  nulla  giovò}  e il 
Muntl'aucon  preso  avea  cura  col  Quirini,  che 
in  Parigi  allora  stanziava,  deiredizioiie,  at- 
tesoché in  quella  città,  com’io  scrissi,  si  stampò 
il  libro , benché  questo  dica  con  una  menzo- 
gna, ch’c  la  men  rea  che  un  libro  dir  possa 
d’essere  stato  impresso  in  Zurigo. 

Non  era  dunque  tra  i Lojulisti  e il  MafFei 
quell’intima  connessione  che  più  tardi  si  vide. 
Nè  la  cagion  se  ne  vuole  rintracciar  solo  nel- 
l’opera soprammentovata.  Io  acrrnnai  già  cha 
i suddetti  Padri,  che  \e  Memorie  dì  Trevoux 
comjiilavaiio , avversavan  non  poco  la  nostra 
letteiatura.  Crebbe  que?t’avversione , vendi- 
cati eh'ebbero  gl’ Italiani  i classici  loro  che 
nella  Maniera  di  ben  pensare  del  padre  Bou- 
hours  , il  quale  .spe.*»o  pensa  sì  male  , stati 
eran  vilipesi  ; e più  anror  s’aumentò  per  le 
lodi  date  nel  Giornale  Italiano  alla  Difesa 
degli  antichi  diplomi,  lavoro  del  Fotitanini, 
contro  il  Libro  del  padre  Germon  , che  ad 
abbattere  tendea  l’autenticità.  Ma  ctue)  che  il 
MalFei  annojò  più,  è che  ai  Trevolziani  si  uni 
un  Italiano  , il  gesuita  Antonio  Bernardi.  Co- 
stui pubblùò  l'ima  dopo  l’altra  tre  Leitert 
al  Cavalteru  erudito  ,cWerd.  il  Veronese,  »o- 
pra  li  due  iometit  del  Giornale  d'Italia,  nelle 
quali  accarezza  il  confratelfiiGermoii.efcchiaf- 
leggia  con  incredibile  audacia  e sciocchezza 
eguale  il  Fontanini  e lo  Zeno.  Non  mancò  chi 
sotto  il  nume  appunto  di  Cavaliere  erudito 
rispose  ; e più  eruditamente  per  avventura 
che  il  Bernardi  non  avrebbe  voluto.  Delle  due 
risposte  , che  sole  comparvero  , la  prima  .s’at- 
tribuisce al  Mafl'ei}  il  qual  sembra  essersi  de- 
gnato di  scrivere  anche  la  terza  che  non  istam- 
po?si.  Sareblx.*  stato  meglio  col  silenzio  rispon- 
dere e col  disprezzo,  come  risponder  dovreb- 
besi  oggi  altresì  a tutti  coloro  che  non  bra- 
mano clic  magnis  clarescere  inimicitùs  ^ far 
parlare  in  qualche  guisa  di  sè}  chè  per  verità 
ìncresce,  quando  uomini  non  mediocri  gua- 
stano tuttodì  con  nuovi  e ingegnosi  errori  le 
lettere,  il  veder  taluni  muovere  una  penna 
elegante  contra  gli  autori  più  dozzin^ili,  imi- 
tando Domiziano,  che  saettava  con  arco  d’oro 
le  mosche,  mentre  i Parti  questa  provìncia  o 
quella  invadevano  dell'impero.  Non  tacerò  che 
il  Padre  Bellati , già  maestro  in  Parma  del 
nostro  Scipione,  ^i  scrisse  con  disapprova- 
zione altissima  del  Bernardi , e gli  comunicò 
al  tempo  stesso  una  lettera  che  ricevuto  avea 
da  un  Gesuita,  pur  d’altro  metallo , dal  Tour- 
nemine , che,  sebben  Trevolziano,  di  lodi  Apo- 
stolo Zeno,  e il  Giornale  d’Italia  colmava.  Si 
impara  ciò  dalla  lettera  dugentottantesimase- 
conda  di  Apostolo  e da  un’altra  non  pubbli- 
cata, ma  che  lesse  e citò  il  valoroso  scrittore 
della  sua  Vita  Francesco  Negri, 

Se  è da  commendarsi  nel  dotto  Giornale  ciò 
che  il  Maii'ei  dal  suo  lato  vi  pose  dentro,  non 
mi  par  cosa  da  domandare.  Senza  le  due  De- 
dicatorie, l’ una  in  testa  del  primo  tomo  al 
gran  principe  Ferdinando,  l’altra  del  deci- 


i4  ELOGIO  DEL  MARCHESE 


musetto  al  successor  Gian  Gastone,  e la  Pre- 
fuzioii  Generale,  veti|>on  da  lui  alcuni  estratti, 
tra  i quali  mi  conteiiterò  al  nominare  il  l>el- 
lissimo  del  libro  del  padre  Bacchini  su  le  Ori- 
gini deirecciesiastica  gerarchia  , e V altro  di 
quel  del  Gravina  su  quelle  del  Gius  civile, 
di  cui  disse  11  Gravina  stesso,  che  accende 
d'invidia  l'autore  dell'opera  originale.  Kè  meii 
che  gli  estratti  vi  rìspiendou  gli  opuscoli  di 
sua  inailo;  i|ual  sarebbe  la  sopraccitata  Ilcla- 
zinne  della  libreria  di  Torino;  un’altra  Rela- 
zione dell’Accademia  di  San  Luca  che  nacque 
in  Roma  nel  1418,  e di  cui  era  capo  allora 
Carlo  Maratta;  e una  Descrizione  del  primo 
gravicembiio  col  plano  e Iurte  d’inv'enaiuue 
di  liirtoluunneo  Cnstofali  padovano;  desiai 
zioiie  che  dice,  quanto  avanti  sentisse  il  Mal'- 
iei  nelle  teorìe  musicali.  Si  gloria  il  giornale 
anche  d’un  Ra;^guagUo  che  a lui  si  dee,  ddle 
sperienze  latte  in  Firenze  con  ottimo  specchio 
ustorio  su  le  gemme  e le  pietre  dure.  Se  n’e- 
segiiirono  eziandio  sul  calor  della  lun.i  che 
riimovaronsi  ai  nostri  di,  ma  con  nsultamenti 
diversi  ; perchè  la  luna , già  restia  tanto  a con- 
fessare i suoi  moti  , non  è meii  bizzarra  ri- 
spetto ai  suoi  raggi  , dicendo  all'  uno  speri- 
mentatore, e tacendo  all’altro  che  di  scaldare 
abbian  forza:  ii  che  tacque  parimente  a chi 
tentolla  di  qne'giorni  in  Firenze.  Lascio  il 
Rapporto  d'  una  mirabile  IVomba  acustica 
di  Giuseppe  Landitii,  con  cui,  oltre  il  tavei- 
lare  ai  lunraui  , s’ode  chi  parla  in  distanza 
grande,  ed  a voce  bassa:  tromba,  cfie  nè  ai 
conspiratorì  aggradirà,  nè  agli  amanti,  (rran 
male  che  in  decorso  di  t<*mp«)  alcune  ragioni, 
di  cui  toccherò  , Io  sforzassero  a ritirarsi  da* 
suoi  compagni  \ che  fu , come  se  in  una  cele- 
ste costellazione  sparisse  improvvisamente  i;n 
de’p  iù  chiari  tra  gli  astri  che  la  compongono. 

Giunto  era  intanto  all'anno  58  dell'età  sua, 
quando  rivolse  le  sue  cure  al  teatro,  ecìmeii> 
tare  avvisossi  le  proprie  forze  in  ciò  che  quel  lo 
ha  di  più  ragguardevole:  la  Tragedia.  Gli  do- 
lca la  condizioii  trista  della  scena  italiana,  su 
cui  recitavansi  o componimenti  nostri  , alU 
morale  contrari  e al  buon  senso,  o traduzioni 
dalla  lingua  francese  , ma  tutto  in  prosa;  re- 
gnando r opinion  falsa  che  a cercar  s'avesse 
una  illusione  imperfetta,  qual  certo  più  fa- 
cilmente con  la  favella  sciolta  , che  con  la  le- 
gata, data  nel  resto  la  parità,  si  consegui- 
rebbe. Applicò  dunque  l anìmo  ad  una  rifor- 
ma, e si  valse  di  Luigi  Rìccoboni  ch’era  te- 
nuto pei  Roscio  de't^mpi  suoi,  e pizzicava  non 
poco  di  letteratura.  Il  Mali':!  cavò  fuori , e diè 
a lui,  che  una  coiupigiiia  di  comici  dirìgi*a, 
le  tragedie,  nostre  migliori,  da  più  di  cento 
anni  sepolteediineiiticate;eccitò  preclari  amici 
a comporne  di  nuove,  e si  pose  a scriver  la 
Merope.  Si  disse,  che  a invaghirlo  del  coturno 
ebb'i  parte  una  comica  illustre,  Elena  Bil- 
letti , ch'io  non  veggio  perchè  Agata  Calde- 
roni sia  chiamata  dal  Qiuidrio,  più  conosciuta 
sotto  il  nome  di  Flaminia,  come  si  conoscea 
più  sotto  quel  diL“lio  il  prefato  Luigi,  rh'^- 
lasi  a lei  muto  di  vincolo  luitrìmoaiale.  Molto 


la  pregiava  Scipione,  che  un  argomerto  scelse 
in  bello  studio  per  lei  al  parer  d’ali  uni  ; »c- 
iioiichè  sappiamo  idie  lèlice  su  tutti  gli  altri 
parve  a lui  sempre  il  soggetto  di  >leropc,  o 
eh' ei  mostrar  volea  , polersl  coniinovor  gli 
animi  fieramente  senza  intralciamento  damori. . 
Fu  donna  di  bellezza  più  rlie  mediocre,  e non- 
dimeno di  rara  savirzzu  in  iemmina  di  teatro: 
lidie  lettere  non  poco  intinta  , compunga  versi 
molto  soavi:  ed  ita  in  Francia,  ove  all’ab<ilt; 
Conti,  che  in  Parigi  dimorava,  rai'comandolla 
il  Mallei,  produsse  alcune  francesi  operette, 
che  ottenner  plauso,  benché  non  U mettes- 
sero in  quella  fama  a cui  salì  appresso  co’suoi 
romanzi  la  nuora , cioè  Madama  de  la  Borraa 
Riccoboni.  Riporterò  la  lettera  al  Conti,  av- 
vegnaché stampata  p ù volte.  Incontro  l'oc- 
casione di  rinnovarvi  la  niernoriu  della  mia. 
stima  , portandosi  costà  una  compagnia  di 
comici  italiani  chiamali  dai  Duca  Rr-ggente.. 
l capi  d’essa,  Luigi  Riccoboni  ed  Kiena  sua 
moglie,  sono  miei  amici  in  maniera  più  chts 
ordinaria  , perchè  il  costume  loro  è assai  di-- 
verso  da  quello  che  aver  soglia  chi  fa  sunde 
professione , e non  manca  (oro  di  nobile  che 
la  nascita  , quale  però  è molto  civile.  Del  loro 
spinto  poi  non  potrei  parlarvi  abbastanza. 
Èssi  sono  stati  l'istrumento  unico  di  cui  mi 
sono  servito  per  riformare  alquanto  il  nostro 
teatro  italiano  , avendo  fatto  recitare  da  loro 
le  nostre  buone  tragedie  antiche  , delle  (^uaU 
non  c'era  p:à  quasi  memoria  alcuna  ne  no~ 
tizia.  Risi  Jinalnienle  possono  contribuir  som- 
mamente a rendere  la  riputazione  m questo 
genere  alla  nostra  nazione  con  sommo  van- 
taggio comune  : ma  tutto  ciò  essi  noi  potranno 
fare  senza  il  vostro  appoggio  , e senza  la  vo- 
stra protezione.  Essi  già  vi  conoscono  per 
fama  e vi  venerano.  Voi  col  farli  noli  a chi 
ama  il  buon  gusto  in  simili  divertimenti,  col 
fare  osservar  ciò  che  gli  stranieri  non  avver^ 
tirebbero  { intende  forse  del  recitare  all’im- 
p«‘(>vvi{io  , die  diciamo  a soggetto  ) col  pro- 
curar loro  il  concorso  degl'  intelligenti  e ctd 
proteggerli  in  ogni  occasione , potrete  giovarli 
infinitamente.  Si  la  nostra  amicizia  può  danai 
tanto  merito,  io  vi  prego  di  tutto  questo  in^ 
stantemente  ; non  negandovi  che  la  sonver^ 
suzione  di  questa  signora  non  sia  stata  una 
delle  care  cose  eh'  io  abbia  provate  in  ima 
vita  , perchè  il  suo  spirito  e la  nobiltà  del 
suo  costume  son  singolari  : per  saggio  di  che 
vi  prego  farvi  mostrare  alcuni  de' suoi  sonetti  ^ 
in  cut  vi  giuro  che  nè  io,  nè  altri  ha  parte. 
Non  temerò  d'alfermiire  , essere  stata  im  al- 
tra  Isabella  Andreini,  che  Hurì  un  buon  secolu 
innanzi  , e parimente  all'arte  delia  declama- 
zion  teatrale  congiunse  quella  de'versi , ft'cesi 
ammirare  in  Italia  ed  in  Francia  , c lasciò  ai 
posteri  in  dubbio',  qual  fosso  più  , se  costu- 
mata u avvenente. 

Finita  ch’ebbe  il  Maffei  la  sua  Meropc,  noti 
maudolla  immediatamente  dallo  scrittoio  ut 
commedianti  u ai  tipograli , ma  si  trasferì  a 
Modena  col  suo  manoscritto  , e ([Uesto  lessf» 
111  un  circolo  d'iugegni  prestanti,  di  cui  lu 


! b,  (juogle 


SCinONE  MAFTEI. 


fif>mpre  ropìa  in  detta  città,  sedendo  tra  quelli 
ìiii  prode  JJologiieiie  , il  Marchese  Orsi , che 
mollo  di  teatro  si  coDosceva.  Una  tragedia  si 
b^ne  scritta  , e in  cui  si  toccano  le  corde  più 
(Udicate  delle  passioni  e della  natura,  conve- 
niva piacere  cosi  in  quel  circolo  , come  su  le 
scene,  cuininciaudu  dalle  modenesi,  ove  fu  per 
la  prima  volta  , o alla  presenza  di  tutta  la 
corte  e d iinineiiso  popolo,  rappiesuitata. L'au- 
tore, a cui  sempre  in  mente  pm  cose  , e la- 
lorn  svariate  assai,  nel  tempo  stesso  bollivano, 
di  Modena  passò  a lleggio;  a fine  di  cònsuU 
larvi  il  famoso  padre  JÌacrliiiii  Benedettino, 
sua  guida  nc'sacri  studi,  che  avea  già  preso 
ad  accoppiare  con  gran  fervore  ai  profani. 
Beggio  era  sottoposto  alla  contumacia  di  qua- 
ranta giorni  ì ma  egli  non  potendo  fermar- 
visi  a lungo,  seppe  slnggìrja,  valicando  le  mon- 
tagne a cavallo,  e nella  Lnnigiana  penetrando, 
iiK-diante  ima  scorta  che  dal  suo  cognato  Lo- 
dovico Maiaspina  spedir  si  lece.  Giunto  nel 
cnor  dellVstate  ai  castello  di  Fosdinovo . re- 
.sidenza  de’MaUispini  , che  una  folta  nebbia, 
onde  ingombrato  era  il  cielo,  già  in  pioggia 
si  risolvea  , ed  entrato  in  casa  , e postosi,  se- 
d»*ndo  in  terreno  , a ragionar  col  marchese 
Lodovico,  allor  vedovo  , e con  la  Marchesa 
madre  , nuovo  e pauroso  accidente  colpì  gli 
occhi  loro  ed  il  cuore.  Io  vidi  , così  il  MaQei 
stesso,  avvampar  d’improvviso  nella  stanza 
verso  il  paxnmento  un  fuoco  vivissimo,  e parte 
hiiinchei^giante  , parte  azzurro.  Inarca  avere 
in  se  grandissima  agitazione  e rivolgimento; 
ma  per  altro  il  corpo  della  Jlamma  , elicerà 
di  qualche  estensione  , stette  qualche  tempo 
ssenzu  moto  proprio  : avanzò  poi  alquanto 
verso  noi  con  una  lingua  più  sottile  , e parve 
trattenersi  di  nuovo  , dilatandosi  ancora  in 
maggior  fiamma;  appunto  come  se  dato  fuoco 
a un  mucchio  di  polvere , si  comunicasse  per 
una  linea  di  essa  ad  un  altro  mucchio.  Quindi 
sentii  passarmi  dietro  le  spalle  come  una  stri- 
scia che  parve  alzarsi , e ci  caddero  in  capo 
alcuni  pezzi  di  calcinaccio  della  volta  : poi 
udimmo  rumore  nella  .stanza  di  sopra,  forse 
per  un  gran  quadro  che  staccò  dal  muro  , e 
quasi  nello  stesso  punto  strepito  e scoppio  in 
alto  , difierente  però  dal  rimbombo  de'tuoni. 
Il  Maffei  riprese  la  mattina  seguente  il  suo 
viaggio  per  la  Toscana  con  quel  fulmine,  dirò 
così  , nella  mente,  rivide  ratto  ratto  gli  amici 
tli  Firenze,  abbracciò  in  fretta,  ritornando, 
quei  di  Bologna,  e arrivò  in  patria,  mentre 
tialla  convpagnia  comica  , a Verona  da  Modena 
ira.'mtitatasi,  si  rappresentava  la  sua  tragedia  ' 
iiKlPanfitealro  a lume  di  sole.  Il  perchè,  non 
trovato  in  casa  persona  viva,  c inteso  che  tutti 
pelParena  stavansi  per  la  Merope , egli  altresì, 
tolto  secondo  l’iisaiiza  un  abito  nero  di  ma- 
schera, .cosi  co'polverosi  stivali  in  gamba  co- 
m’era, vi  si  conduàse.  Fochi  giorui  appresso 
mandò  al  Vallisnieri  stampata  la  sua  Lettela 
SII  \s.  Fùrtnazione  de* fulmini  ; lettera,  di  coi 
c da  ringraziare  quel  di  Fosdinovo  che  gli  diè 
1 occasioue  e ad  un  tempo  la  lacoUà  non  gli 
tolse  di  scriverla. 


)5 

Opinava  lo  scrittore  da  terreni  efRiivii  massi- 
maineiite  sullurei  e nitrosi,  si  generassero  i ful- 
mini , e fosse  di  basso  in  alto  il  principio  del 
loro  moto;  intantochè  non  il  cielo  ci  saetti,  ma 
sembriamo  noi  saettare  il  cielo.  Or  più  non  si 
dubita  che  così  salgano  di  basso  in  allo,  come 
di  alto  scendono  in  bassp,  dirigendosi  la  mate- 
ria elettrica  non  men  volentieri  alle  nuvole 
dalla  terra,  che  alla  terra  dalle  nuvole.  Tutta- 
via non  aveati  di  que'  dì  le  congetture  di  (^ray 
annunziato,  e mollo  manco  f esperienza  di  Fran- 
klin e del  Beccheria  , ronièimalo  che  una  si  è 
del  fulmineo  luoco  e deiiVletirico  la  natuia. 
Non  era  iàcilc  adunque  l’iniinaginare  che  ful- 
mini vicino  a terra  si  generassero,  e il  persua- 
derne gli  altri  tornava  tòrte,  o.stando  la  iuve- 
teiata  e comune  opinion  contraria,  e il  più  non 
differenziandosi  sottosopra  nell’un  caso  e nel- 
1 altro  i fenomeni.  Quanto  poi  ai  fìsici , credeast 
che  dalle  nubi  con  violenza  compresse  si  spri- 
gionassero i tiilmini  ; e se  Newton  ricorse  alfe- 
salazioni  sulfuree,  volea  per  altro  che  queste 
prima  di  folgorare  fermentato  avessero  como- 
damente con  gli  acidi  nitrosi  nell’aria.  Ma,  dan- 
dosi i fìsici  appunto  ad  osservar  meglio  queste 
apparenze,  moltissimi  casi  in  piccloì  tempo  si 
raccolsero  di  saette  che  mosser  dal  suolo  , e 
parvero  , secondochè  scrisse  graziosamente  al 
solito  il  Segretario  dell'lnstìiuto  di  Bologna, 
Maffejo  se  accomodare , di  cui  praeclaram 
chiamò  la  sentenza.  Finalmente  le  moderne  os- 
servazioni così  distrussero  ogni  dubbiezza, che 
anzi  ne  risulta  , ascendenti  esser  le  saette  ]>iù 
frequentemente  che  discendenti,  essendo  nega- 
tiva spesso  felcttricità  celeste, e positiva  la  ter- 
restre nc’tcmporali;  ond’ebbe  Franklin  a prof- 
ferir parole  che  moltoa  quelle  delMalIèi  rasso- 
migliano, e dolce  musica  sarebbero  state  a’suoi 
orecchi , cioè  non  le  nubi  nello  scoppiamento 
de'fulmìni  colpir  la  terra,  ma  la  terra,  scari- 
candosi , le  nubi  in  vece  colpire. 

Veduto  avea  frattantoScìpioiie  rappresentar 
la  tragedia  sua  in  due  città;  e la  lettera  trecen- 
vigeaimasettima  di  Apostolo  Zeno  ci  avvisa  che 
neli’aniio  susseguente,  17141  andò  a vederla  in 
una  terza,  voglio  dire  in  Venezia.  Qui  stampata 
fu  per  la  prima  volta  nello  stesso  anno,  benché 
la  segnalata  edizione  veneta  del  1747  citi  nel 
bugiardo  suo  frontespizio  una  prima  edizìouedi 
Modena  deiranno  antecedente.  Ciò  che  indusse 
in  errore  non  pochi,  e da  ultimo  il  signor  Coo- 
per Walker  nella  sua  Memoria  storica  su  la 
tragedia  italiana,  venne  da  questo,  che  non 
badandosi  ail  avvertìmento  deifOrsi  nell'edi- 
zion  modenese,  ch'è  la  seconda,  si  prese  per 
istampa  il  semplice  manoscritto  che  nel  giugno 
del  1713  l’autore  presentò  in  Modena  al  duca 
Rinaldo,  e la  Bìbliotrca  Ducale  gelosamente 
conserva. Divulgata  con  l’inipres.sÌone  la  JWero- 
pe,\e  iodi  cominciarono  a piovere:  ma  chi  non 
sa  che  alla  pioggia  delle  lodi  non  tarda  molto 
ad  unirsi,  ove  d’opera  e.simia  si  tratti , la  tem- 
pesta delle  censure?  Si  gridò  in  oltre  che  aperta 
il  nostro  tragico  iro\  ò la  strada  da  tjuanti  ma- 
neggiato aseun  prima  lo  stesso  argomento:  pc»- 
vtTu  usscrvaziuiie , quando  egli  col  sulo  inno- 


>6  ELOGIO  DEL 

dur  per  caso,  e ignoto  a sè  stesso,  il  giova- 
netto Egisto,  mo:»se  por  una  via  totalmente 
altra  da  quella  del  Torelli,  del  Lìviera  e del 
Cavalierino  , non  che  d'Euripide  , se  ò vero 
che  della  tragedia  di  lui  perdute  rimangan  le 
tracce  in  Igino.  La  Merope  del  Torelli  ricom- 
parve tosto  in  una  nuova  edizione,  e il  Man- 
fredi nelle  Lettere  Bolognesi  dubita,  se  con 
mira  di  far  meglio  risplendere  o d^oscurare 
Ja  MaiTeiana.  Rispetto  alle  censure,  troppo  si 
celebrartm  quelle  del  Lazzarini , che  il  Caval- 
lucci combattè,  e il  Maflèi  distrusse.  Alla  pa- 
rodia del  Valleresso,  intitolata  la  Culicuti 
donia,  o Jiuzvanscad  il  giovine,  in  cui 
del  resto  si  lèrisce  più  ì’ eclisse  del  Lazzarini, 
che  non  la  Merope  del  MaiVei , questi  contrap- 
pose il  Culicutidonio , ch’egli  stese,  diecsi, 
in  una  notte,  o comunicò  solamente  agli  amici. 

In  Francia  più  tardi  noi  trattaron  bene  Faba- 
te  Desfontaines  e Voltaire  : contra  il  primo 
sorse  il  cavalier  di  Mouhy,  e chi  scrive  questo 
Elogio  contra  il  secondo.  Lepida  è la  sco|>erta 
deir  inglese  Goldsmith,  che  nel  suo  Stato  pre- 
sente a'ogni  letteratura  vuole  che  Milton  col 
Sansone  gl'  insegnasse  a non  intromettere  a- 
moreggiamenti.  E non  prima  i Greci  con  le 
tragedie  loro?  La  diflicoltà  non  dimora  nel 
conoscere  questa  condizione,  dimora  nell’esc- 
guirla.  Nè  men  gioconda  è l'altra  del  suo  con- 
cittadino Cooper  sopraccitato,  ch’ei  sotto  la 
direzione  delia  marcnesa  Silvia  la  tregcdiascri- 
Tesse.  La  marchesa  Silvia  era  morta  da  più  anni: 
ma  risuscitiamola.  Confessa,  è vero  , d Mallèi 
che  le  smanie  materne  , in  cui  ebbe  più  volte 
a vederla , gli  suggerirono  alcuni  passi  de'pìù 
graditi  j confessione,  acni  una  simile  ne  fect 
l'Àlfieri  e che  non  domanda  uno  sforzo  gran- 
dissimo d’umiltà.  Anche  quel  bellissimo  luogo, 
in  cui  Euriso  consola  Merope  con  l’esempio  di 
Agamennone  che  sagrificò  Ifìgcnia,  tirollo  il 
Maifei  da  una  donna,  la  quale,  udendosi  nella 
morte  d’un  figlio  confortar  da  un  ottimo  reli- 
gioso con  i'esempiodi  Abramo, rispose  che  Iddio 
non  avrebbe  comandato  mai  un  tal  sagriiizio  a 
una  madre.  Si  dirà  per  questo  che  la  tragedia 
fu  scrìtta  sotto  la  direzione  di  quella  femmina, 
o non  più  presto  , che  il  poeta  seppe  coglier  la 
natura  sul  latto,  ch’c  ciò  che  da  lui  sopra  tutto 
ricercasi?  Non  parlerò  del  tedesco  Lessing  che 
nella  sua  Drammaturgia  il  biasima  ( vedi  acu- 
tezza di  critica  ! ) che  non  seguitò  in  ogni  suo 
passo  Euripide  , secondo  il  quale  Egisto  cono- 
scea  sè  medesimo,  ed  entrava  in  Messene  col 
disegno  bello  e fatto  di  ammazzare  il  tiranno. 

Io  per  me  credo  che  più  di  tutte  le  critiche, 
che  da  qual  penna  vengano,  lasciano  i parti 
dell'ingegno  neJl'esser  loro , ciò  dolesse  a Sci- 
pione, che  dopo  le  prime  rappresentanze  la  sua 
tragedia  patì,  non  fuori,  ma  dentro  sè  stessa. 
Qui  fu  disciolta  in  prosa  e recitata  di  tal  modo 
e stampata;  là  se  le  appiccarono aU’estremità 
d'ogni  scena,  quasi  ornamento  necessario , le 
rime;  altrove  si  cacciò  in  mezzo,  ingrediente 
indispensabile,  una  faccenda  d'amore.  Nel  re- 
ato, se  alcuni  letterati  il  naso  arricciaronleso- 
pra,  quauti  all'opposto  non  mirajrouU  di  buon 


MARCHESE 

occhio  e non  la  blandirono?  Basti  nominare,  a 
non  ricordar  gli  stranieri , un  Orsi,  imo  Zeno, 
un  Gravina,  un  Harullaldi,  un  Volpi,  un  Mar* 
telli  ed  un  Conti,  Non  era  pubblico  teatro  , o 
privato,  ove  non  si  recitasse  la  Merope,  ove 
alla  Merope  non  si  piangesse.  In  Vienna  e alla 
presenza  deU’impcrator  Carlo  Sesto,  cavalieri 
e dame  la  rappre.sentiirono.Ristampatainfinite 
volte:  tradotta  nelle  lingue  francese,  spagnuo- 
la,  inglese,  tedesca,  illirica  e russa.  Tragedie 
ascoltar  si  vede  talvolta  con  approvazion  tacita 
e attenta;  ma  non  commuversi,  fremere,  e di- 
sfarsi in  allctti  una  intera  udienza.  Qual  fu  il 
secreto,  per  cui  ad  onta  di  quei  difetti  che 
tlalle  opere  umane  in&eparabìli  sono , ebbe  ski 
la  più  partedegli  animi  tanta  forza?  Fuquella 
viva  espressione  della  natura,  fu  quel  teneio 
furor  materno  sì  ben  dipinto,  lu  quella  sempli- 
cità e verità,  che  il  MalFei  conseguì  con  lo  stu- 
dio della  natura  appunto,  e de’Greci,  e in  par- 
ticolare d'Omero  , molte  delle  cui  bellezze  da 
ambo  i poemi  seppe,  non  già  servilmente,  ma 
con  sommo  accorgimento,  e da  gran  maestro, 
nella  sua  tragedia  trasfondere.  Fu  lo  stile  an- 
cora c il  verseggiamento.  È una  certa  maravi- 
glia quel  sentirsi  dire  ogni  poco,  che  il  verso 
tragico  non  conosceasi  in  Italia  prima  dell'Al- 
Heri.  Ricordami  che  questi , essendo  io  in  Fi- 
renze e nella  sua  stanza  , prese  la  tragedia  del 
Mallèi  in  mano,  e , aperto  il  libro  alla  scena 
sesta  dell'atto  secondo  , lesse  con  grandissima 
enfasi  i seguenti  versi  che  il  poeta  mette  in 
bocca  di  Merope  : 

Or  Polifunte 

Regacrà  sempre , e regm*rà  trjn(]uillo. 

O ingiusti  Numi?  Il  |>crtìdu,riuiquo, 

11  traditur , Tusurpator, colui, 

Che  in  crudeltà , che  io  empietà , che  io  frode 
Qualunque  sìa  piu  scellerato  avanza , 

Questo  vui  proteggete  : in  questo  il  vostro 
Fav«>r  tutto  versale  ; c contra  il  sangue 
Del  buon  Cresfouto  , contro  gl’lnfelid 
Germi  ÌDuoceuti,di  scoccar  v’c  in  grado 
Gli  strali  : e duolvi  forse  ora , che  ornai , 

Estinti  tutti , uve  scoccar  non  resti. 

Convien  confossare,  disse  rAstigiano,  che  tra- 
gici veramente  son  questi  versi.  Mi  permetta 
Il  lettore,  che  a questi  io  aggiunga  il  discorso 
di  Merope  nell'atto  quinto  : 

Si  SI , o Mcsscni , il  giuro  ancora;  e questi , 

Qu«*sti  il  luio  terzo  figlio;  io  ^ trafugai , 
lo  l’occultai  Gnor  ; questi  c Terede, 

Questi  del  vostro  buon  Crejfontc  c il  figlio  : 

Di  fjucl  Cresfoulc  che  non  ben  sapeste 
Se  fosse  padre, ore;  di  quel  Gresfontc, 

Che  SI  a luogo  piangeste  : or  vi  sovvenga , 

Qiiant’ei  fu  giusto , e liberale , c mite. 

(À)Iui , che  là  dentro  il  suo  sangue  è involto , 

E quel  tiranno , quel  ladron , qucirenipiu 
Ribelle  usurjiator,  che  a tradimento 
Del  legiltiniu  Re , de’figli  imbelli 
Trafisse  il  sen , sparse  le  membra  ; è quegli , 

Che  ogni  dritto  violò , che  prese  a scherno 
leggi , e i Dei , che  non  fu  sazio  mai 
Nc  d oro,  nè  di  sangue , die  [>er  vani 
bus^ielti  trucidò  lauti  iófelici , 


SCIPIONE 

TjA  il  cencr  ne  sporse , e sin  le  mura 
Arse , spiantò , (iislrusse.  A qual  rii  voi 
Padre , u fralel , figlio , congiunto  ^ o amico 
^'un  avrà  tolto?  E dubitate  ancora? 

Forse  non  v'accertale  aoocv , che  questo 
Sia  pure  il  figlio  uiio  ? Mirate  Ìl  volto  ; 

Non  ci  vedete  in  quelle  ciglia  il  padre? 

Ma  se  pur  non  cnHlcte  al  suo  sembiante, 

Cmletelo  al  utiu  cor  : credete  a questo 
Furor  d'alTetto,  che  m'ba  invasa , e tutta 
M'agita , e avvampa.  Eccovi  il  vecchio,  il  cielo 
Mei  manda  innausi , il  vecchio  j che  nodrillo*  ! 

i 

I 

Taccio  il  mirabile  dì  questo  discorso  per  ciò 
che  di  persuasivo  contiene,  e domando,  »c  in- 
catenar si  può  meglio  , e rompere  più  varia-  ; 
mente  , e vibrar  con  più  impeto  i versi  di  una 
tragedia?  E quando  bene  altri  passi  a citare  in  | 
MulFei  non  avessimo , come  abbiamo  , c sl'olgo-  | 
raiitissimi,  non  basterebber  questi  due  a dima-  | 
strare  che  il  verso  tragico  c’era,  e c’era,  mercè 
di  lui  , perchè  non  ne  appare  che  un’ombra  > 
nella  Semiramide  dì  Muzio  Manfredi , ch^è  il 
solo  fra  gli  autori  a lui  anteriori  da  nominare 
in  questo  proposito  ? 

lo  lo  ingiurierei  a dir  soltanto  ch’ei  compia- 
ccasi  del  suo  lavoro  per  la  giuria  che  a lui  ri- 
dondavane}  sen  compiacea  per  quella  nonmen 
che  ne  ridondava  all  Italia  , a cui  di  non  avere 
una  tragedia  eccellente  non  si  potea  più  rin- 
tacciare.  Il  concedettero  gli  stessi  Francesi,  e 
tra  gli  altri  il  padre  de  la  Santé  che  professava 
la  rettorica  nel  collegio  di  Lodovico  il  Grande, 
e che  in  una  sua  Orazione,  Dent  Itali,  esclamò, 
dent  saepe  tragaedias , qualis  ista  est  Merope, 
cujus  pater  est  Ma^ejus,  Minerva  mater,  n«- 
trix  Melpomene  ; famae  plausui  adjungernus , 
plausum,eximiaque prolem  velnatamin  Gal- 
Ita  f vel  quasi  nostram  libenter  coopiabijnus. 
K notisi  che  il  Maffei  non  era  stretto  allora 
d’un  legame  con  la  Compagnia.  Io  avviso  che 
Sì  pel  consentimento  universale  di  tutta  Eu- 
ropa, SI  per  quel  segreto  testimonio  della  co- 
scienza, che,  fuor  del  caso  d’una  presunzione 
fltultissima,  non  inganna,  gli  fosse  lecito  di  ciò 
fare,  che  in  Verona  comunemente  si  crede, 
ch’è  di  porre  nel  primo  manoscritto , da  lui 
alla  libreria  Saibante  donata  , il  non  omnis 
moriar  di  Orazio.  Ma  avendo  io  domandato 
al  coltissimo  giovane  Antonio  Campostriiii , 
nelle  cui  mani  passò  il  manoscritto  , se  tali 
parole  vi  sieno,  ei  mi  rispose  deino.  Così  è 
vero  che  non  si  sta  mai  troppo  in  guardia 
contra  certi  racconti,  massimamente  ove  attac- 
chinai ad  un  gran  nomo  che  loro  acquista  im- 
portanza; e però  spasimando  ognun  di  ripeterli, 
durano  eternamente. 

Ciò  ch’io  parlai  della  sua  compiacenza  per 
l’onore  che  all’ltaUa  venne  dalla  tragedia, 
vuoisi  per  quello  che  alla  cattolica  religione  da 
quattro  lettere  in  difesa  della  stessa,  parlare 
ugualmente;  anzi  più,  perchè  sovrapponessi 
in  lui  all’amore  d'ogni  altra  cosa , e dovrebbe 
in  ciascuno  , quel  della  prima  dì  tutte,  la  reli- 
gione. Il  prefato  Cristoforo  Matteo  Piali*,  sco- 
perti nella  libreria  di  Torino  alcuni  greci  Iram- 

PIMIEAI.  ELOUl. 


MAFFEI.  17 

menti  sotto  il  nome  di  Sant’Ireneo,  che  ri- 
sguardano  la  oblazione  e consecrazione  eucari- 
stica, e il  cattolico  dogma  combattono,  comu- 
nicolii  da  Parigi  alMafl'ei;  il  qual  non  prima 
gli  ebbe  esaminati,  che  dubitò  della  lor  legitti- 
mità , ed  espose  francamente  i suoi  duboi  in 
due  lettere  eVei  diresse  al  suo  padre Bacchini, 
e all’erudito  Protestante  trasmise.  Soii  tratti  i 
frammenti  dalle  così  dette  catene  deTadri, 
alle  quali  chi  non  sa,  non  si  poter  Puomu  pru- 
dentemente fidare?  11  primo  è quasi  un  tessuto 
Hi  passi  del  Nuovo  Testamento  che  s’oppone 
all’uso  dei  Padri  antichi  ; il  secondo  cita  Je 
Constituzioni  degli  Apostoli,  Constituzìoiii  ad 
Ireneo  posteriori,  e più  altri  segni  rinchiuda 
di  falsità;  e il  terzo  ostenta  un’aria  di  libertà, 
che  ì sentimenti  accusa  de’Navazìani  assai  più 
che  quelli  del  santo  vescovo  di  Lione,  o d’al- 
tro scrittore  ortodosso.  Tuttavìa  ilPlafFooa 
s’acchetò,  estampoili  all’Aia  tradotti  in  latino 
e illustrati,  studiandosi  di  distruggere  le  dif- 
ficoltà che  il  Maffei  gli  avea  erette  contro* 
Laonde  questi  si  rifece  nella  terza  lettera  con 
nuove  osservazioni  su  le  cose  trattate;  spogliò 
d’ogni  autorità  la  catena  medesima  del  padre 
Corderio,  ch’è  la  più  riputata  , e dichiarò  le 
sentenze  vere  del  greco  vescovoMarguniu,  con- 
fondendo i Greci  scismatici  ed  i Protestami  ad 
un  tempo,  e quelle  parole  nelle  liturgie  greche 
spiegando  intorno  alle  quali  sommi  uomini,  un 
Bessarìone  , un  Bellarmino  , un  Allacci,  un 
Bona  ed  un  Bossuet,  a&ticati  s’erano  senza 
frutto.  Non  si  perde  ancor  d’animo  il  PfafF,  che 
una  Dissertazione  apologetica  poco  tardò  a 
pubblicare.  Nè  io  mi  lagnerò  d'una ostinazione, 
che  diè  luogo  al  Maffei  di  meglio  rischiarare  e 
convalidar  tutto  nella  lettera  quarta  e di  meri- 
tarsi l’elogio  del  dotto  padre  Leoni , il  quale, 
ristampando  le  opere  di  Sant’lreneo,  latiuizzò 
le  lettere  sue,  e più  luminosechiamò  della  luce 
di  mezzogiorno  le  sue  ragioni.  Non  so  se  a que- 
sta luce  il  Tedesco  aprisse  in  ultimo  gli  occhi; 
so  che  ITtaliano  scrisse  con  quella  moderazione 
ed  urbanità,  con  cui  avrebbe  dovuto  ogni  cat- 
tolico contra  gli  eterodossi,  e in  cui  solamente, 
bisogna  dirlo,  ìl  Tedesco  non  si  lasciò  vincere. 

Entrato  era  dunque  il  nostro  Scipione  nelle 
parti  più  arcane  e recondite  della  sacra  lette- 
ratura. Non  contento  al  consultar  da  lunge  su 
questa  il  rispettabile  Cassinense , spesso  a rac- 
cor  ne  andava  dalla  bocca  le  vive  voci  ed  anche 
la  lettera  Zeniana  trecenquarantesimottava 
metteloin  Reggio.  La  stessa  lettera  gli  fa  spen- 
dere alcuni  mesi  dell’anno  stesso  in  Vinegìa  : 
ma  nei  settembre  trovavasì  in  patria,  dove  ca- 
pitò il  celebre  monsignor  del  Torre  , che  del 
suo  viaggio  a Verona  non  avere  avuto  altro 
fine  di  godere  della  compagnia  del  Maffei,  dica 
Inutore  della  sua  Vita.  £d  in  patria  si  fermò 
l’anno  appresso,  quando  venne  in  Italia  il  Prin- 
cipe Elettorale  della  Baviera.  Correan  rumori 
di  peste  ai  confini  della  Germania;  e però  dovè 
il  principe  solferire  una  contumacia  di  qua- 
ranta giorni,  ch’ei  passò  in  comoda  abitazione 
nel  Chievo,  villaggio  dalla  città  forse  unmiglio. 
Là  ricevea  continue  visite  di  cavalieri  veronesi 


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ELOGIO  DEI.  MARCHESE 


e talor  (li  dame  che  il  Maffei  pres^ntavagU;  il 
quale,  spirato  il  termine,  aimò  con  molta  no- 
biltà a levarlo  del  luogo  , e a condurlo  in  Ve-' 
rona  , e nella  propria  casa,  ove  alloggiollo  per 
due  giorni  con  tutta  la  sua  corte.  In  tale  occa- 
sione suggerì  a’suoicittadiui  una  splendida  gio- 
stra nelVaiifiteatro  che  a solenni  armeggia- 
menti a cavallo  avea  più  volte  servilo.  Deside- 
rava si  rinnovassero  a qtiando  a quando  di  tali 
eserciaì,  parendogli  che  Tedifizio  medpsimr>  in- 
vitar dovesse  a celebrare y come  scrisse  molti 
anni  dappoi , alcun  pubblico  divertimento , in 
cui  virtù  avesse  parte , che  uscendo  delle  infe- 
lici costumanze  de' nostri  dì , non  sembrasse, 
con  ispirare  effeminatezza  e mollizie  , studi&- 
samente  ordinato  ad  anneghittire  ed  avvilir 
sempre  più  la  misera  nostra  nazione.  Propose 
adunque  un’azione  di  lancia  e corsa  all’anello, 
»*  fu  degli  attori  egli  stesso.  Non  potrei  dire  se 
l’anfiteatro  quel  di  fosse  tutto  pieno:  spettacolo 
unico,  che  percuote  l'animo  in  singoiar  modo 
e riunalza.  Dirò,  con  permissione,  bmsì , che 
male  or  si  lascia  entrar  la  gcntenell'ai  ea,  donde 
nasce,  che  la  forma  elittica  dellVdifizio  si  vien 
quasi  a perdere:  oltreché  luogo  degli  spettatori 
soli  gli  sc-alini , per  cut  deggiono  spargersi  dai 
voDutori,  e non  l'area  ch*è  destinata  ai  giuochi; 
e però  si  cade  nell’inconveuiente  tanto  ripro- 
vato ne’tealri  di  Francia,  quando  una  porzione 
degli  spettatori  stava  sul  palco.  E superfluo  il 
cercare  se  il  Mailei,chealle condizioni  di  lette- 
rato acconniava  tutte  qtielle  di  gentiluomo, 
trattato  abbia  con  magnificenza  il  suo  rigitar- 
devoleospitee  con  eleganza.  Parlasi  ancor  d'uria 
rena,  per  cui  fu  egli  Piuventore  e il  disegna- 
tore di  quegli  artiliciosi  e bizzarri  macrliìna- 
inenti  , che  su  le  mense  usavanst  allora  ; che 
utile  ad  ogni  cosa  è l'ingrgno,  e s'apparecchia, 
disse  quel  capitano,  un  convito  col  medesimo 
senno  che  si  schiera  un  esercito:  Nè  si  perde  la 
memoria  d’un  bellissimo  fregio  di  punto  a rose 
che  tutta  contornava  la  mensa , ed  uscito  era 
dalle  mani  della  marchesa  Silvia  , di  ricami 
rsperlissima.  che  sola  alla  piena  contentezza  del 
figlio  in  .sì  bella  noltemancaVa.Sul  fine  la  tavola 
si  mutò  improvvisamente  in  giardino,  di  fiori 
lieto  e di  frutti,  con  fontane  c arboscelli,  lutto 
vero  e fresco,  benché  nel  cuor  dell'inverno. 
Queste  particolarità  s'hanno  la  più  parte  in  un 
giornale  di  allora  intitolato  ia  des  cabi-^ 
nets,  in  cui  si  registra  eziandio  che  , nato  es- 
sendo al  fratello  primogenito  poco  innanzi  uii 
bambino  , il  Principe  ricevettelo  al  fonte , e 
monsignor  Gradeuigo,  vescovo  di  Verona,  sa- 
cramentoUo.  I/iilustre  viaggiatore  nel  suo  ri- 
torno, che  ai  primi  cadde  di  agosto  , onorò  di 
nuovo  la  casa  Maffei , e regalò  d’un  suo  ri- 
tratto gioiellato  colui  che  in  tutte  queste  cose 
non  così  al  proprio  mirava , che  non  mirasse 
anche  più  al  lustro  della  sua  patria.  In  prò  di 
rpiesta  e in  decoro,  egli  stava  continuamente  a 
pensare  , a speculare , a fantasticare.  K perchè 
uno  scritto  recente  spargea  su  l’antica  condi- 
zion  di  Verona  una  certa  nebbia  importuna  , 
die  lo  splendor  ne  offuscava;  s’aff>etto  a dissi- 
parla; sembrandogli  per  avventura  che  gli  uo- 


mini tanto  più  debbano  ingegnarsi  di  conser- 
var le  glorie  passate,  quanto  più  scarse,  co* 
me  si  rivolge  il  mondo  , son  le  presenti. 

Un  letterato  bresciano,  di  merito  non  vol- 
gare, il  canonico  Paulo  Gagliardi,  era  l’autore 
di  quello  scritto  funesto.  Se  Brescia  fu  capo  e 
metropoli  de’Cenoinani , e se  della  provincia 
de’Cenomani  fu  Verona,  ne  segue  che  quest’ ul- 
tima, benché  tanto  maggior  città,  all’altra  do- 
vrà sottostare.  Ma  vuole  il  Malici  che  Verona 
nè  Gallica  mai,  nè  soggetta  fosse  ad  altra  città; 
che  il  titolo  di  caput , che  anticamente  davasi 
ad  una,  non  importasse  dominio  su  tutte  Pai  — 
tre;  che  metropoli  non  s'instituissero  in  Italia, 
dividasi  questa  in  regioni  o in  province  ; che 
la  residenza  de’magistrati  romani , come  non 
fissa  in  alcuna  città,  così  metropoli  non  con- 
stituissene  alcuna  ; e che  , nel  caso  contrario  , 
non  Brescia,  ma,  e per  la  sua  grandezza,  e 
per  l’estension  dei  paese  suo,  capitale  avesse 
ad  esser  Verona  , la  qual  sotto  i re  d’Italia  in 
, figiii a sempre  di  capitale  più  assai , che  non  di 
j subordinata,  comparve. Gli  usi  de’ tempi  e delle 
^ nazioni ,